La storia dei piloti italiani in Formula Uno | quanto guadagna un pilota

Vincitori e vinti, velocissimi o mai qualificati a un gran premio, specialisti in pole position e abbonati all’ultima fila: i piloti italiani hanno disputato 806 gran premi, vincendone 43 e conquistando 3 titoli iridati.

Sul nostro blog abbiamo raccolto le storie più interessanti, quelle di nostri connazionali che, più degli altri, hanno fatto la storia del grande circus dell’automobilismo mondiale..

Alberto Ascari

Luca Badoer

Riccardo Patrese

Jarno Trulli

Andrea De Cesaris

Arturo Merzario

Bruno Giacomelli

Gli altri

Alberto Ascari

Nato a Milano il 13 luglio 1918, Alberto Ascari è il pilota italiano che ha conquistato più titoli mondiali in Formula 1, vincendo nel 1952 e nel 1953 con la Ferrari, nonché l’ultimo nostro connazionale a laurearsi campione del mondo. Detiene il record della più alta percentuale di vittorie in una stagione: nel 1952 vinse sei delle otto corse in calendario; perse la vita il 26 maggio 1955 sull’autodromo di Monza, che gli ha intitolato una Variante.

Luca Badoer

Il collaudatore con la più lunga militanza nella storia della Ferrari, campione del mondo di Formula 3000 nel 1992, detiene un record non invidiabile nella storia della Formula 1.

Badoer con la Ferrari!

È il pilota che ha concluso il maggior numero di gran premi (51) senza conquistare punti.

Riccardo Patrese

Quella del padovano Riccardo Patrese è stata una delle più lunghe carriere dell’intera storia della Formula 1: fino al 1998, infatti, deteneva il record di gran premi disputati (256) che rimane, comunque, il primato relativo ai piloti italiani.

Riccardo Patrese

Patrese ha conquistato, inoltre, 37 podi e 6 successi nei singoli gran premi, con 8 pole position.

Jarno Trulli

Secondo italiano con più gran premi all’attivo (252), Jarno Trulli ha conquistato un’unica vittoria, sul mitico circuito di Monte Carlo nel 2004 con la Renault, dopo ben 118 gare d’attesa (primato per un nostro pilota).

Trulli con la Lotus nel 2011!

Trulli, che porta il nome del campione di motociclismo finlandese Jarno Saarinen, è l’unico pilota nella storia ad aver terminato almeno un gran premio in ogni posizione della graduatoria finale, dalla prima alla ventunesima.

Andrea De Cesaris

Andrea De Cesaris è stato soprannominato dalla stampa britannica Andrea de Crasheris, per via dei numerosi e spesso spettacolari incidenti in cui è incorso durante la sua lunga carriera automobilistica. Sulle 208 partenze nelle prove del campionato mondiale, infatti, De Cesaris ha collezionato ben 148 ritiri.

Arturo Merzario

Ha corso il Mondiale da pilota tra il 1972 e il 1979, famoso per il cappello da cowboy che era solito indossare nel paddock: ma è in un’altra veste che qui vogliamo ricordare Arturo Merzario. Il suo esperimento come costruttore durò un paio di anni. Nel biennio 1978-79 le Merzario, con la livrea rossa, corsero sulle piste della Formula 1, senza molta fortuna, soprattutto a causa dei pochi soldi a disposizione del volenteroso comasco che era anche pilota di una delle due vetture iscritte al campionato.

Dopo alcuni sponsor poco più che artigianali, nel 1979 arrivò a sostenere la scuderia italiana un’impresa di pompe funebri, con il risultato che uno dei finanziatori principali, produttore di profumi, decise di togliere il suo logo dalle fiancate della Merzario.

Per le scommesse F1, nel testa a testa in casa Ferrari, Vettel parte nettamente sfavorito @2.60!

Bruno Giacomelli

Tra il 1977 e il 1983, Bruno Giacomelli era stato un buon pilota di Formula 1, con McLaren, Alfa Romeo e Toleman, capace anche di salire sul podio nel Gran Premio di Las Vegas 1981. Nel 1990, fu chiamato a tornare nel circus da Ernesto Villa per la sua Life, una delle automobili che ha ottenuto i risultati peggiori nella storia.

Nel Gran Premio di San Marino di quello stesso anno, Giacomelli ottenne un record negativo: durante le prequalifiche, la sua macchina decise che gli avrebbe consentito di usare solamente la terza marcia e Bruno, spaventato dalle vetture che lo sorpassavano come missili, impiegò più di sette minuti a completare il giro, a una velocità media di 22 miglia all’ora: è ancora oggi il giro più lento di tutta la storia della Formula 1.

Gli altri

Enrico Bertaggia e Claudio Langes, pur essendo stati entrambi guide ufficiali, rispettivamente della Coloni nel 1989 e della EuroBrun nel 1990, non sono mai riusciti a qualificarsi per un gran premio, non andando addirittura mai oltre le prequalifiche.

Lella Lombardi, piemontese di Frugarolo, classe 1941, Maria Grazia "Lella" Lombardi è stata la seconda donna a guidare una monoposto in Formula 1 e quella che è riuscita a disputare più gran premi, 12 contro i 4 di Maria Teresa de Filippis. A bordo di una March motorizzata Ford, nel Gran Premio di Spagna 1975, grazie al sesto posto finale, fu la prima donna ad andare a punti in una gara del Mondiale.

Maria Teresa de Filippis e Giovanna Amati sono state, rispettivamente, la prima e l’ultima donna a guidare una monoposto nel Mondiale della massima serie. Maria Teresa de Filippis si schierò alle qualifiche di cinque gran premi nelle stagioni 1958 e 1959 a bordo di una Maserati e di una Behra-Porsche. Tagliò traguardo in una sola occasione, in Belgio nell’anno del debutto.

Giovanna Amati iniziò la sua carriera come collaudatrice della Benetton di Flavio Briatore nel 1991 e l’anno successivo ottenne un ingaggio come guida ufficiale dalla Brabham: il suo debutto in Sud Africa fu, però, un disastro e mancò la qualifica con un tempo di quattro secondi peggiore del suo compagno di squadra Eric van der Poele. Dopo aver fallito la qualificazione anche nei due appuntamenti successivi, in Messico e in Brasile, fu licenziata e sostituita da Damon Hill.

Marco Apicella merita un posto tra le nostre storie perché detiene il record della più breve carriera di sempre nella massima serie delle corse automobilistiche. Iscritto, infatti, solamente al Gran Premio d’Italia 1993 a bordo di una Jordan, riuscì a percorrere solamente 800 metri dopo la partenza, fino alla prima curva, prima di essere  costretto al ritiro da un incidente con il finlandese JJ Lehto su Sauber. Decise così di tornare a correre nel campionato giapponese di Formula Nippon.

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*La foto di apertura dell'articolo è di Pavel Horejsi (AP Photo). Prima pubblicazione 19 marzo 2020.

October 10, 2021
Emanuele Giulianelli
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Scrittore e giornalista freelance, collabora regolarmente con il Corriere della Sera, con La Gazzetta dello Sport, con Extra Time, Rivista Undici, Guerin Sportivo e con varie testate internazionali come Four Four Two, Panenka e Tribal Football. Scrive per B-Magazine, la rivista ufficiale della Lega Serie B.


I suoi articoli di calcio internazionale e geopolitica sono stati pubblicati, tra gli altri, su FIFA Weekly, il magazine ufficiale della federazione internazionale, su The Guardian, The Independent e su Eurasianet. Ha lavorato come corrispondente sportivo dall’Italia per Reuters.


Ha pubblicato tre libri, l'ultimo dei quali, "Qarabag. La squadra senza città alla conquista dell'Europa" edito da Ultra Sport, è uscito nel 2018.
 

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Da Gasp ad Inzaghi: tutto parte dai 3 difensori centrali!


Trecinquedue, che passione. È il modulo di moda, mica da oggi certo, ma la tendenza è sempre più diffusa. Soprattutto da quando la critica ha sdoganato il concetto della svolta: il 3-5-2 non è un modulo prettamente difensivo, e anzi in certe interpretazioni può diventare più offensivo del 4-4-2 o del 4-3-3, ovvero la formula d’attacco per eccellenza, non a caso quella utilizzata da Zeman, forse l’allenatore più esperto di schemi offensivi del nostro calcio..

Prendete la Lazio, tra le migliori d’Europa negli anni di Inzaghi nello sviluppo del 3-5-2: ha 3 difensori bravi a giocare la palla, due “quinti” che sanno difendere, certo, ma soprattutto attaccare, e un centrocampo di altissima qualità, addirittura senza mediani puri. Perché Lucas Leiva è un playmaker, Milinkovic e Luis Alberto due mezzali dai piedi di velluto.

E infatti spesso la formazione biancoceleste era perfino troppo sbilanciata in avanti: in questa stagione, Inzaghi ha trovato la soluzione al problema, la Lazio è equilibrata al punto giusto perché anche le mezzali lavorano in fase difensiva e i “quinti” rispettano alla lettera i compiti di copertura. Il pressing degli attaccanti poi completa il quadro, così la squadra funziona perfettamente in entrambe le fasi, di possesso e di non possesso.

La vera novità

Ecco la grande novità: prima si aggiungeva un difensore in più – da due a tre, appunto - per aumentare la solidità in copertura, adesso lo si fa anche e soprattutto per migliorare la costruzione del gioco, che infatti ora parte dal “basso”.

Bastoni, piedi buoni per la difesa dell'Inter!

Di conseguenza ai difensori ormai è chiesta una padronanza di palleggio che prima non faceva parte del loro repertorio: in generale, questo ha portato a un miglioramento della qualità estetica del gioco collettivo – tutti sono coinvolti nella fase di possesso, non solo centrocampisti e attaccanti - e a un peggioramento delle capacità di marcatura individuale da parte dei difensori stessi.

I primi a fidarsi di 3 centrali

Molto è cambiato insomma da quando il Parma di Nevio Scala – dal ’92 al ’95 - conquistò l’Europa (Coppa delle Coppe, Supercoppa, Coppa Uefa) proprio con il 3-5-2 che sapeva sfruttare tutta l’ampiezza del campo, grazie in particolare al lavoro sulle fasce dei cursori Benarrivo e Di Chiara.

Nonostante quel successo e l’evoluzione del modulo, è capitato perfino che una squadra come l’Inter, abituata a giocare a 4 dietro, avesse una crisi di rigetto quando Moratti nel 2011 scelse Gasperini per la panchina nerazzurra.

Un altro esperto di difesa a tre!

Il Genoa del Gasp, nei suoi momenti migliori, aveva riscosso consensi da pubblico e critica, da qui il tentativo di introdurre il 3-5-2 in casa Inter: finì che a ritrovarsi fuori dalla porta, dopo appena 73 giorni, fu proprio l’allenatore.

Paradossale che oggi, nove anni dopo, la formula tattica di riferimento sia esattamente quella: tre difensori, tre centrocampisti, due “quinti” e due attaccanti. È la preferita di Antonio Conte già dai tempi della Juventus: pochi sanno insegnarla come lui.

La diffusione del 3-5-2 è diventata moda, in Italia, anche grazie ai successi di Conte. Non a caso, all’inizio di questa stagione veniva applicato da 9 squadre su 20, compresa la Spal di Semplici che pasò alla difesa a 4 con Di Biagio. Il modulo viene applicato benissimo da tante formazioni, a partire dal Toro di Juric, rivelazione del campionato. Proprio grazie a questa formula si sta riprendendo il Genoa.

Allegri e lo scacco matto

E con la difesa a 3, a sorpresa, l’anno scorso Max Allegri riuscì a eliminare l’Atletico Madrid in Champions: Emre Can “braccetto” di destra, o stopper di destra, chiamatelo come volete, fu una grande e decisiva intuizione, perché garantì superiorità numerica a centrocampo senza perdere l’adeguata copertura dietro. Mossa tattica vincente di un altro grande stratega che le quote calcio davano ormai eliminato dopo il 2-0 del Wanda!

Tra i teorici del 3-5-2, quest’anno ha deluso Mazzarri: il Torino si è perso, nonostante avesse gli uomini adatti per interpretare al meglio il modulo.

E a proposito di interpretazioni, un contributo determinante alla rivisitazione della difesa a 3 in chiave offensiva l’ha dato Pep Guardiola già ai tempi del Barcellona: anche in questo caso, un altro difensore con i piedi buoni gli garantiva più qualità nel gioco, per dominarlo con continuità, e nello stesso permetteva ai centrocampisti maggiore libertà negli inserimenti, tutti studiati da schemi mandati a memoria.

Ovviamente il tecnico catalano ha riproposto, con meno successo, la formula anche nel Bayern e nel City, arretrando in difesa giocatori che di ruolo facevano – fanno - i centrocampisti: Fernandinho l’ultimo esempio.

La difesa a 3 in Champions

Sempre più spesso, ormai, alla difesa a 3 ricorrono anche tecnici di top club europei. Perfino il Borussia Dortmund ha sfidato il Psg, in Champions, con un 3-4-3 speculare a quello utilizzato nell’occasione dai parigini di Tuchel. I tedeschi in difesa all’andata hanno schierato Piszczek, Hummels e Zagadou, i francesi Marquinos, Thiago Silva, poi Campione nel 2021 con il Chelsea e Kimpembe.

Thiago Silva, Campione senza tempo!

Non a caso, la retroguardia a 3 – con un uomo leggermente staccato al centro - è la più adatta a proteggere la porta dai tagli degli attaccanti esterni, spesso letali per chi difende a 4 in linea. Contro gente come Sancho e Hazard da una parte, Neymar e Mbappé dall’altra, giusto adottare la formula a 3. Lo stesso Zidane in questa stagione ha derogato al suo 4-3-3 per scegliere i tre dietro, soluzione strana per il Real Madrid.

Per non parlare del Lipsia, formazione che gioca a ritmi altissimi utilizzando il modulo 3-4-1-2 in una versione molto offensiva.

E a ritmi incredibili gioca anche l’Atalanta, guidata da quel Gasperini – il vero erede di Nevio Scala, per molti aspetti - che forse ai tempi dell’Inter avrebbe meritato più pazienza da parte di chi l’aveva scelto: il 3-5-2 super dinamico dei bergamaschi, che ormai quasi sempre diventa 3-4-2-1 con Ilicic e Gomez alle spalle di Zapata, ha fatto scuola in Italia e quest’anno ha sorpreso tutti anche in Europa. Come confermano le quote calcio, ora Gasp, in Champions League, non si accontenta del ruolo di rivelazione…

*Le immagini dell'articolo sono distribuite da AP Photo. Prima pubblicazione, 19 marzo 2020.

October 10, 2021
Giulio
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Giulio è nato giornalista sportivo, anche se di professione lo fa “solo” da 30 anni. Dal 1997 è l'esperto di calciomercato del quotidiano La Repubblica.

Dal '90 segue (senza annoiarsi mai) le vicende della Lazio: collabora anche con Radiosei e dirige il sito Sololalazio.it. Calcio e giornalismo sono le sue grandi passioni. L'unico rimpianto che lo tormenta è aver smesso di dare spettacolo sui campi di calcetto.

 

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Piacere... Zinedine Zidane!

Estate 1996, la Francia sogna di vincere gli Europei in casa degli inglesi. Non andrà così, con la squadra di Jacquet che perde in semifinale ai calci di rigore contro la Repubblica Ceca. Ma vengono lanciati i semi dei Bleus che solleveranno la Coppa del Mondo casalinga del 1998 e anche l’Europeo successivo. A fine torneo, però, uno dei pilastri di quella squadra lascia la Francia. Si chiama Zinedine Zidane e gioca nel Bordeaux, almeno finché la Juventus, campione d’Europa in carica, non lo porta a Torino per 7,5 miliardi di lire.

Con il senno di poi, un affare pazzesco. All’inizio della stagione, Lippi lo schiera regista. Ma ci metterà davvero poco per capire che ha tra le mani un trequartista che può fare la storia. In realtà, le prime prestazioni del francese a Torino non sono molto incoraggianti. Zidane soffre parecchio l’adattamento al calcio italiano, ma la svolta arriva presto. Il numero 21 segna la sua prima rete italiana a ottobre, nel 2-0 della Juventus contro l’Inter. È solo il preludio a una stagione piena di trionfi.

Arrivano la Supercoppa Europea, l’Intercontinentale, conquistata a Tokyo con gol di Del Piero, e lo scudetto numero 24. Il bis in Champions sfugge, per colpa del Borussia Dortmund. Zidane, nella sua prima Juventus, è importante, ma non decisivo. Ma tutto è destinato a cambiare. Da trequartista è molto più incisivo e nel 1997/98, nonostante le polemiche, i bianconeri portano a casa lo scudetto in un testa a testa contro l’Inter e la Supercoppa Italiana. La Champions scappa ancora, dopo una sconfitta in finale con il Real. Ma per l’estate 1998, Zizou ha grandi progetti.

Il Pallone d'Oro - Torna a Torino da campione del mondo e Pallone d’Oro in pectore, anche visti i due gol segnati (di testa, caso più unico che raro!) nella finalissima contro il Brasile di Ronaldo. Certo, c’è quel fallo di reazione nel match contro l’Arabia Saudita che gli costa due giornate di squalifica, ma il gesto non impedisce alla giuria di France Football di eleggerlo miglior giocatore dell’anno. In Italia va peggio, perché la Juventus arriva settima, con Zidane impossibilitato a dare il suo solito contributo da un fastidioso infortunio.

Va meglio la stagione successiva, almeno finchè a Perugia non comincia a diluviare. Sotto l’acqua del Curi, Calori segna e la Juventus perde uno scudetto che sentiva già suo. Quell’estate, però, Zidane si prende una vendetta. La Francia vince l’Europeo, un double di nuovo possibile nel 2021 per le quote calcio oggi in finale contro l’Italia, dopo che lo aveva praticamente già perso. Sarebbe abbastanza per vincere il secondo Pallone d’Oro, ma il comportamento in Champions League con la maglia della Juventus non glielo permette. Troppe espulsioni (sempre per falli di reazione), che alla fine fanno virare la giuria su Figo.


Il carattere - Del resto, Zidane è così. Marsigliese purosangue con origini algerine, un vero personaggio da film. Taciturno, ma non certo assente. I compagni di squadra mormorano che basti un suo sguardo per incenerire chiunque nello spogliatoio, senza bisogno di dire una parola. E considerando che in quella Juventus ci sono Montero e Davids, per dirne due, qualcosa vorrà pur significare. Il carattere è quello che è, come dimostrerà anni dopo nella finale di Berlino con Materazzi.

A una provocazione, difficilmente non reagisce, formato com’è da anni di calcio di strada. E nelle strade, anzi, nei parcheggi, torna di notte, a Torino, assieme a Davids. I due giocano nelle squadre degli immigrati, usando le macchine come porte, incuranti del fatto che le loro gambe, in fondo, valgono oro.

Zidane e Cannavaro in un incontro di beneficenza!


Il trasferimento record - Quelle di Zidane, in particolare, valgono 150 miliardi. Tanto spende il Real Madrid per portarlo al Bernabeu nel 2001, dopo un’altra delusione in Serie A (il secondo posto dietro la Roma). La Juventus con quei soldi si rifà la squadra, il Real ci ricrea una mentalità vincente. Quella dei Galacticos, o meglio ancora, degli Zidanes y Pavones: talenti puri e giovani della cantera.

Strano a dirsi, ma funziona. Quando a Madrid, dopo parecchi mesi, si stanno chiedendo ancora perché lo abbiano pagato così tanto, quando in squadra ci sono già Figo e Raul, Zizou sfodera uno dei gol più belli della storia della Champions e decide la finale con il Bayer Leverkusen. L’anno successivo, con l’arrivo di Ronaldo, la line-up dei Galacticos è completa. Zidane veste la Camiseta Blanca fino al 2006, arricchendo il suo palmares con un campionato spagnolo, una supercoppa europea e un’altra intercontinentale.


La seconda carriera - Con il Real vince più in panchina che in campo. Zidane ci mette un po’ a capire quale sia la sua strada, ma si fa largo con una certa velocità. Nel 2013 diventa il secondo del suo ex allenatore ai tempi della Juventus, Ancelotti. Assieme a Re Carlo porta la tanto agognata Decima al Bernabeu, poi comincia a farsi le ossa da tecnico con il Castilla. Dura molto poco, un anno e spiccioli, perché quando Benitez non si dimostra in grado di gestire i calciatori dei Blancos, Perez si fida dello sguardo di ghiaccio di Zizou. Fa bene, anzi, benissimo. Da subentrato arriva secondo in Liga, ma soprattutto vince la Champions a Milano, battendo l’Atletico Madrid come fatto da secondo di Ancelotti.

L’anno successivo centra il double vincendo a Cardiff contro la Juventus e portando a casa anche la Liga. E nel 2017/18, nonostante il campionato lo vinca il Barcellona e il Real sia solo terzo, Zidane ottiene un risultato incredibile; diventa il primo allenatore a vincere tre Champions consecutive, battendo il Liverpool a Kiev. In due anni e mezzo, raggiunti Ancelotti e Paisley, i tecnici più vincenti della storia della competizione.

Ma qualcosa si rompe. Zidane non sopporta le provocazioni e il rapporto con Perez si fa sempre più freddo. E quando se ne va Cristiano Ronaldo, anche il francese si fa da parte. Verrà richiamato con urgenza, dopo che Lopetegui e Solari falliscono tutti gli obiettivi. Del resto, se è vero che per guidare i Blancos serve qualcuno che trasudi personalità, il francese di origini algerine è la persona adatta. Per le quote calcio oggi il Real, alla ripresa, si giocherà la Liga sino all'ultima giornata! Basta un’occhiata delle sue per rendere tutto chiaro, persino a campioni conclamati. Come a dire “garçon, tu chi sei? Io sono Zinedine Zidane”. E ovviamente, basta e avanza.

*La foto di apertura dell'articolo è di Mauro Pilone (AP Photo); la seconda di Andres Kudacki (AP Photo).

March 19, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Lo smart-working nel calcio

Gli strani effetti del coronavirus. Pandemia, interruzione dell’attività sportiva e di conseguenza riposo forzato per molte persone nel mondo del calcio. Del resto, se non ci si allena non si lavora… O forse sì? La necessità aguzza l’ingegno e anche il pallone non può fare diversamente. E se molte aziende si sono affidate allo smart-working, persino i club possono permetterselo, almeno per quello che riguarda alcune figure.

L’allenatore è escluso, perché senza avere sotto mano la materia prima, i calciatori, appare difficile provare schemi, inculcare concetti di gioco e motivare chi non può vedere faccia a faccia. Ma molti degli addetti ai lavori non hanno necessariamente bisogno di essere in campo o nella sede societaria per svolgere le loro mansioni. L'organizzazione e l'innovazione sono sempre determinanti ed i successi in Champions di una squadra come la RB Lipsia lo confermano una volta di più!


I calciatori, anche se sono in vacanza involontaria, dovranno pur tenersi in forma in attesa di sapere quando potranno tornare in campo. Quindi, persino se non si dovesse giocare per un mese, impossibile immaginare che per chi solitamente scende sul terreno di gioco resti con le mani in mano (anzi, con…i piedi) per un periodo di tempo così lungo.

Quindi, via con pesi, macchinari casalinghi o addirittura…i lavori di casa, come dimostrano le stories postate sui social da molti calciatori. L’importante è non perdere l’abitudine al movimento. 


I preparatori atletici, che di certo hanno dato a ognuno una scheda per l’allenamento individuale, lavorano invece per interposta persona, ma hanno comunque modo di controllare i progressi (o i comportamenti errati) dei tesserati anche a distanza. Tanto per fare un esempio, il Real Madrid, dove tutti sono in isolamento dopo che un giocatore della sezione di basket della polisportiva è stato trovato positivo al Covid-19, ha messo immediatamente in chiaro una cosa quando è stata presa la decisione: i calciatori sono in quarantena, non in vacanza.

Di conseguenza, Sergio Ramos e compagni sono stati equipaggiati con tanto di GPS, per permettere allo staff della Casa Blanca di monitorare l’allenamento del singolo giocatore attraverso una serie di parametri. Oltre che per assicurarsi che tutti quanti rispettino le consegne e rimangano a casa. Visto quello che succede in Inghilterra, con Mount che invece di isolarsi va al parco a giocare a calcetto, non una pessima idea.


Lo scouting e la match analyst - Se però si pensa allo smart-working nel mondo del calcio, impossibile non spostarsi sulle mansioni più “moderne” del pallone. Figure che si sono affermate negli ultimi anni e che spesso e volentieri non possono svolgere la loro attività senza un computer. Normale dunque che esista una tipologia di addetti ai lavori che non risente della necessità di dover rimanere chiusi in casa a causa della pandemia.

È il caso degli scout, che aiutano i direttori sportivi, che pure possono svolgere molte delle loro mansioni lontano dal campo, nella ricerca di nuovi talenti attraverso i software e i database. È il caso di Wyscout, dove vengono analizzate le dinamiche dei trasferimenti e le caratteristiche dei giocatori. E i report, quarantena o no, continuano ad arrivare ai club, anche perché il mercato che poi altererà le quote calcio non si ferma mai, neanche davanti a una pandemia.


Così come la mancanza di partite giocate non inficia poi troppo sul lavoro dei match analyst. Del resto, chi si occupa si sviscerare i match per studiare, valutare, proporre e migliorare assetti tattici, schemi e concetti di gioco, basa il proprio lavoro su incontri…registrati. E di tempo e possibilità di vedere video, creare lavagne virtuali e sviluppare nuove idee ce n’è abbastanza ora che il calcio è fermo.

Certo, manca la possibilità di aggiornare la collezione di immagini, ma considerando la mole di lavoro e le diverse tipologie di situazioni da analizzare (offensive, difensive, da calcio da fermo e così via) fanno sì che i match analyst non abbiano decisamente il tempo di annoiarsi anche di fronte a una sospensione dei match.


Così come continuano a lavorare gli eroi invisibili che permettono a scout e match analyst di svolgere al meglio il loro lavoro. Nelle sedi societarie non smettono infatti di arrivare le analisi sui dati, un’altra delle aree del calcio “moderno”. Forse la meno pubblicizzata, ma di certo quella di base., considerando che si tratta di raccogliere, gestire, organizzare e miscelare basi dati disomogenee.

Ma soprattutto rendere chiari i risultati ottenuti per chi poi dovrà applicarli alle proprie aree di competenza. I data analyst, gli…statistici del pallone, lavorano solo ed esclusivamente al computer e quindi non avranno problemi a mettersi d’impegno anche seduti al tavolino di casa.


Per tutti gli altri, però, dai magazzinieri ai giardinieri, passando per chi nei centri sportivi si occupa della cucina e della pulizia, il Covid-19 significa pausa. Perché in fondo, anche in una società moderna e iperconnessa, persino lo smart-working ha i suoi limiti…

*La foto di apertura dell'articolo è di Ivan Sekretarev (AP Photo).

 
March 17, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Le Coq Sportif, la più vincente negli anni '80!

Nike, Adidas. Adidas, Nike. E via, con una cantilena interrotta sporadicamente da qualche altro marchio, come Macron e New Balance. Gli sponsor tecnici, soprattutto quelli delle grandissime squadre, sono quasi sempre gli stessi, in un…duopolio reso un po’ meno monotono dall’inserimento della Puma.

Sembrano lontanissimi i tempi in cui le maglie delle squadre, di club e nazionali, sciorinavano una serie di nomi che all’epoca erano famosissimi, ma che nel corso dei decenni sono scomparsi. Gli appassionati di maglie li ricordando con facilità, chi non ha “studiato” il calcio di una volta farà fatica a farseli venire in mente. Anche perché ormai non si vedono praticamente più.

Come due storici marchi inglesi, Admiral e Umbro. Nei momenti di massimo splendore del calcio di Sua Maestà, le big indossavano i galloni oppure i due rombi concentrici. La Admiral si fa conoscere negli anni Settanta, quando diventa lo sponsor tecnico del Leeds United di Don Revie e la prima casa di abbigliamento sportivo a comparire sul petto dei Tre Leoni, fino agli anni Ottanta.

In quel periodo invece la Umbro sponsorizza il Liverpool campione di tutto, ma già dagli anni Sessanta l’azienda del Cheshire vestiva la maggior parte delle squadre nazionali, arrivando a produrre le maglie di 15 delle 16 squadre del Mondiale 1966. Ora i due grandi marchi sono entrambi in declino. La Admiral ora sponsorizza solo il Wimbledon, oltre che qualche nazionale caraibica. La Umbro è invece stata ceduta alla Nike e rivenduta, e adesso fornisce le divise dell'Everton.

Dominavano la A negli anni ottanta - Chi seguiva la Serie A negli anni Ottanta non può non ricordare invece due marchi leggendari: NR e Pouchain. La NR in un determinato momento storico ha praticamente monopolizzato la Serie A, sponsorizzando Milan, Napoli, Roma, Lazio, Sampdoria, Pescara, Fiorentina. La maggior parte delle iconiche foto di Maradona con la maglia azzurra vedono spuntare il riconoscibilissimo logo dell’azienda italiana.

Come era italiana la Pouchain, che è particolarmente celebre per le maglie della Roma di fine anni Settanta, con l’introduzione del lupetto di Gratton. Nel 1979 arriva anche il corrispettivo laziale, l’aquilotto. La NR è rinata come azienda di streetwear, mentre la Pouchain si dedica alla produzione di maglie da calcio vintage.

Qualche anno dopo, sempre in Italia, spesso e volentieri si vedevano altri due marchi, più celebri per altre discipline. La Champion è certamente nota per aver sponsorizzato tutte le squadre NBA negli anni Novanta, ma anche nel calcio ha fatto la sua comparsa. L’esempio più celebre è quello del Parma tra il 1999 e il 2005, vestendo così l’ultima squadra italiana di vincere la Coppa UEFA.

Molto già conosciuta per il tennis è la Fila, che però negli anni Novanta decide di vestire anche club calcistici, come la Fiorentina di Batistuta o il West Ham. Entrambe le aziende continuano con il loro business caratteristico, senza aver più prodotto divise calcistiche da un buon numero di anni.

Altre aziende italiane hanno fatto la loro comparsa negli anni Novanta. La Galex, di proprietà di Gaucci, sponsorizzava ovviamente il Perugia del vulcanico presidente, ma non solo, vestendo anche tutte le squadre del gruppo che faceva capo all’imprenditore romano, come il Catania, la Sambenedettese e la Viterbese. Prima di fallire, Galex ha avuto un buon successo nelle serie inferiori, producendo anche le maglie di l'Arezzo, l'Ancona, l’Ascoli.

Celebre per maglie molto…futuristiche è stata la Pienne, che ha fatto la storia con alcune maglie del Pescara a inizio anni Novanta. E anche un’altra azienda, la Biemme, ha avuto modo di scrivere la storia del calcio tricolore, sponsorizzando un ancora sconosciuto Chievo Verona e soprattutto il Vicenza dei miracoli, capace di vincere la Coppa Italia e di arrivare in semifinale di Coppa delle Coppe.

Tra Spagna e Germania - Anche all’estero ci sono molti marchi che hanno avuto una certa notorietà, prima di essere un po’ dimenticati. Le immagini del Real Madrid degli anni Novanta, per esempio, sono strettamente legati all’azienda spagnola Kelme, che ha vestito la casa Blanca prima che al Santiago Bernabeu arrivasse, con un accordo ormai ultraventennale, l’Adidas. Sul petto di Mijatovic mentre segna il gol decisivo della Champions 1998, però, il logo è quello del marchio iberico.

La tedesca Uhlsport, invece, si specializzata nell’abbigliamento per portieri, avendo come testimonial campioni del livello di Dino Zoff, Walter Zenga e Francesco Toldo, ha vestito anche i giocatori di movimento dell'inter dei record! Vestono ancora Uhlsport molte squadre minori, soprattutto in Germania. Sempre in Germania è ancora presente la Hummel, nata ad Amburgo, che negli anni Ottanta ha vestito parecchie squadre importanti, tra cui il Real Madrid, il Tottenham o il Verona ai tempi di Caniggia.

Senza dimenticare che erano marchiate Hummel con azionista la famiglia Laudrup le maglie della Danimarca che ha vinto il Campionato Europeo 1992, a grandissima sorpresa per le scommesse online calcio dell'epoca!


È stata sotto i riflettori parecchio in poco tempo, soprattutto grazie al Siviglia e al Liverpool, la Warrior, azienda americana che ha sponsorizzato sia gli andalusi che i Reds, prima di abbandonare il mercato calcistico alla fine della stagione 2015/16, lasciando spazio alla New Balance, proprietaria del marco.

La vincitrice seriale - Infine ancora attiva con la Fiorentina fino a giugno 2020, ma non più celebre come una volta, Le Coq Sportif, che negli anni ha vestito l’Aston Villa campione d’Europa nel 1982 ma anche grandi squadre sudamericane come l’Inter Porto Alegre o la Fluminense. L'azienda francese ha vinto, di seguito, Mondiali '82, Euro '84 e Mondiali '86, fornendo mute e materiale a Paolo Rossi, Michel Platini e Re Diego! 

Insomma, tanti nomi che a modo loro hanno fatto la storia del calcio. E che, sebbene non siano più importanti come una volta, non vengono mai del tutto dimenticati dagli appassionati.

*L'immagine di apertura è di Carlo Fumagalli (AP Photo).

 
March 14, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Una Primavera che non sboccia mai

 

Non solo plusvalenze. I club di Serie A cercano di pianificare il proprio futuro puntando anche sui calciatori più giovani. Il mercato dei giocatori della Primavera è un movimento sommerso, che non sempre viene evidenziato come quello della prima squadra, ma ha un’incidenza significativa sui bilanci dei club del massimo campionato.

I dati relativi ai settori giovanili sono contrastanti; da una parte ci sono percentuali sconcertanti, come quella del 66% dei calciatori delle formazioni Primavera che non riescono a fare del calcio una professione, dall’altra - ancor meno rassicurante - è quella che certifica l’arrivo in prima squadra dei giocatori cresciuti nel settore giovanile: 3%.

Diversi club, come Juventus e Inter, continuano a investire per cercare di accaparrarsi i migliori prospetti in circolazione, altri che - come la Roma - stanno intraprendendo la strada opposta, fissando un tetto ingaggi per la formazione Primavera e un limite alle spese per quanto riguarda il mercato.

Gli acquisti più cari - In mezzo ci sono le società che investono soltanto quando fiutano l’affare, peculiarità che ha caratterizzato negli ultimi anni l’operato della Lazio, avvezza a pescare nei settori giovanili dei top club europei come Barcellona e Liverpool: nell’estate scorsa i biancocelesti hanno tesserato Bobby Adekanye, proveniente dal Liverpool, e investito oltre 8 milioni di euro per l’esterno offensivo Raul Moro, prelevato dalla squadra del Barcellona Under 18.

E’ stato questo il colpo di mercato più costoso portato a segno dai club di Serie A, un exploit che ha messo in fila gli affari di Juventus, Inter, Atalanta, Napoli, Fiorentina e Sassuolo.

La Juventus ha puntato le proprie fiches su Yannick Cotter, attaccante esterno prelevato dal Sion per 5 milioni di euro e su Enzo Barrenchea, mediano acquistato sempre dal sodalizio elvetico per 2,5 milioni di euro.

Secondo una classifica sviluppata in Francia dal Cies (Centre International d'Etude du Sport), relativa all’impiego in Prima squadra di giovani calciatori provenienti dal settore giovanile, l’Italia si posiziona al penultimo posto con l’8,9%, seguita dalla Turchia che chiude la graduatoria.

Tra i top 5 campionati europei, la Serie A è il torneo che vanta il minor numero di giocatori provenienti dal club di appartenenza, poco meglio fanno i club della Bundesliga (12%) e della Premier League (12,7%), cresce la percentuale nella Ligue 1 francese (17,2%) mentre la Liga spagnola (20,9%) si conferma il campionato con maggiori prospettive per i giovani calciatori provenenti dalla Cantera.

Lo sviluppo dei settori giovanili da parte dei club professionistici viene incentivato anche dalle normative dell’Uefa e della Federcalcio; per il massimo organismo continentale, i soldi spesi per le squadre giovanili sono considerati un investimento virtuoso che non viene conteggiato per quanto riguarda il Fair Play Finanziario. Allo stesso modo, la Federcalcio ha previsto un ammortamento quinquennale per i costi legati ai settori giovanili, come legiferato dall’Art 86 delle Norme Organizzative Interne della Federazione.

Le strategie - Ogni club sceglie la propria strategia, che non sempre paga: nonostante i numerosi investimenti, la Juventus lo scorso anno ha fallito la qualificazione ai play off scudetto, l’Inter da questo campionato ha limitato al massimo l’impiego dei calciatori fuori quota per dare la possibilità agli altri elementi della rosa di crescere in maniera esponenziale, la Roma ha iniziato una politica di riduzione dei costi con l’abbassamento del monte ingaggi: tetto massimo 70 mila euro per i calciatori più promettenti, i soldi risparmiati verranno reinvestiti nei premi di valorizzazione che verranno dati ai club che avranno modo di puntare sulla crescita dei giovani talenti giallorossi in prestito.

Vanificato - almeno per questa stagione - l’intento del Milan di puntare sui giovani; la squadra rossonera partecipa al campionato Primavera 2, essendo retrocessa il campionato scorso come testimoniano i siti scommesse calcio, il fondo Elliott dovrà rimandare il proprio piano industriale relativo al mondo del calcio. L’Atalanta continua a farla da padrone, con Amad Traore, attaccante esterno della Costa d’Avorio, primo calciatore del 2002 a realizzare - contro l’Udinese - una rete in Serie A.

I costi complessivi di gestione dei settori giovanili dei club professionistici hanno sfondato da tre stagioni il tetto dei 100 milioni di euro per gestire complessivamente 290 squadre, dalle formazioni esordienti fino alla Primavera; in media le società spendono 5,8 milioni di euro, ma club come Juventus, Inter e Roma vanno oltre i 10 milioni di euro certificati nel bilancio annuale.

*La foto di apertura dell'articolo è di Czarek Sokolowski (AP Photo).

March 14, 2020
simone pieretti
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Giornalista, scrittore, innamorato di futbol. Scrive per trasmettere emozioni e alimentare sogni. Il calcio è una scienza imperfetta: è arte, è musica, è poesia. E' un viaggio nel tempo che ci fa tornare bambini ogni qual volta diamo un calcio a un pallone.

 

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Il genio di Luis Alberto, assistman da 80 milioni!

Lo hanno inserito, giustamente, nella top 11 della Serie A al momento dell’interruzione per l'emergenza coronavirus. Di più: c’è chi considera Luis Alberto il miglior giocatore del campionato, mettendo insieme numeri, giudizi e pagelle. Quindi parametri oggettivi e soggettivi.

Sembrava avesse dato il massimo due anni fa, invece non avevamo visto ancora niente. In questa stagione, lo spagnolo ha dato spettacolo con una continuità impressionante. Convincendo gli scettici, esaltando i tifosi della Lazio e in generale gli innamorati del calcio. Qualcuno lo chiama il Mago, soprannome che a lui piace molto, altri preferiscono El Toque per il tocco di palla “riveriano”.

Perché Luis Alberto ha la classe antica dei giocatori che non hanno bisogno dei muscoli per incantare le folle: come Gianni Rivera, appunto. Apparentemente fragili, in realtà semplicemente geniali. Falsi lenti, rifinitori e ambidestri, immarcabili!

Esempio: lo sanno bene, gli allenatori avversari, che Luis Alberto è il faro della Lazio, quasi all’altezza dell’illuminato Veron dello scudetto 2000, sono consapevoli che la priorità, per non soccombere, è soffocarne spazi e idee. Eppure non riescono a marcarlo adeguatamente. Meglio: lui trova sempre il modo di farsi trovare libero dai compagni, di cui è punto di riferimento essenziale in campo.

Danno la palla al Mago e sanno che dal cilindro qualcosa di decisivo uscirà fuori. Un pertugio impossibile da individuare per altri, una giocata imprevedibile, un raggio di luce quando per tutti è buio. Dal nulla, il gol. Il suo motto è quello, come per i grandissimi.

L'arrivo a Formello - L’intuizione di Tare, ds biancoceleste, è stata clamorosa. Pagato 4 milioni al Liverpool nell’estate 2016, adesso ne vale almeno 80. Ottanta, sì. Rischiava l’anonimato, dopo il fallimento in Premier e il mesto ritorno nella Liga, la Lazio invece ha scommesso sul suo talento e ha vinto. Tare e Inzaghi gli hanno dato fiducia nonostante quel primo anno da dimenticare: nel gennaio 2017, addirittura la tentazione di lasciare il calcio.

Il ds biancoceleste fu bravo a convincerlo che avrebbe avuto tempo e modo per imporsi, che ce l’avrebbe fatta a lasciare il segno. Che se si fosse impegnato giorno per giorno, negli allenamenti di Formello, sarebbe diventato un top della serie A. È andata proprio così, dall’estate 2017 è iniziato il percorso del nuovo Luis Alberto, ormai considerato un fuoriclasse assoluto. È il re degli assist in Italia con 12, in Europa, per gli amanti delle statistiche delle scommesse calcio solo in 4 hanno fatto meglio di lui.

In campionato ha segnato 4 gol come l’altra mezzala laziale Milinkovic, ma in Supercoppa contro la Juve la sua prodezza spaccapartita è stata importantissima ai fini del trionfo biancoceleste.

Due anni fa giocava trequartista alle spalle di Immobile, dal dicembre 2018 il suo ruolo è cambiato, Inzaghi gli ha trovato la collocazione ideale: mezzala sinistra libera di creare, sì, ma anche con compiti precisi in fase di non possesso. Tra il Mago e la nuova posizione è stato amore alla prima partita. È il vero regista offensivo della squadra: l’intesa con Lucas Leiva, il regista difensivo, è tra i segreti delle vittorie laziali. È stato bravissimo, Simone Inzaghi, a trasformarlo in centrocampista totale, non solo capace di inventare assist per gli attaccanti.

Significativo, a questo proposito, un recupero formidabile, da mediano puro, effettuato ai danni di Orsolini contro il Bologna: dopo una lunga rincorsa, tackle vincente al limite dell’area biancoceleste. L’Olimpico lo ha applaudito freneticamente, come se avesse appena mandato in gol con una magia Immobile. O come se fosse tornato lui stesso a colpire su punizione (non gli succede da un po’, unica macchia stagionale). O ancora, come se avesse segnato direttamente da corner, sua atavica ossessione.

Quel tackle era il simbolo della nuova mentalità acquisita da un giocatore che davvero meriterebbe di essere convocato in pianta stabile nella nazionale di Luis Enrique: a 28 anni, ormai pienamente maturo, può essere considerato l’erede di Iniesta.

Tra le chiavi del successo, la consapevolezza della sua forza, delle sue qualità. Al punto che ha rifiutato la proposta di rinnovo della Lazio, nel settembre scorso, perché convinto che avrebbe potuto ottenere un contratto migliore alla fine della stagione.

Il contratto che verrà - Ha scommesso su se stesso e sulla capacità di trascinare la Lazio dove nessuno avrebbe osato sperare l’estate scorsa. E ce l’ha fatta, come un film a lieto fine. Il suo ingaggio attuale è di 1,8 milioni di euro netti a stagione fino al 2022, l’offerta rifiutata di settembre era di 2,5 milioni, adesso si tratta un prolungamento fino al 2025 con stipendio ad altezza Immobile e Milinkovic, gli altri top player della Lazio, cioè 3 milioni netti ma con la possibilità di arrivare facilmente a 3,5 - e anche oltre - grazie ai bonus legati a numeri individuali (presenze, assist, gol) e risultati di squadra.

L’accordo c’è, bisogna solo ufficializzare il tutto. Poi, in estate, vedremo se il presidente Lotito sarà in grado di fronteggiare le inevitabili offerte che per il Mago arriveranno da top club europei. Fino alla scorsa estate si era fatto vivo solo il Siviglia, squadra del cuore del campione andaluso: adesso i corteggiatori sono tanti, a partire dal Barcellona.

Altro aspetto importante per capire il salto di qualità compiuto da Luis Alberto, il suo impegno quotidiano per migliorare la condizione fisica. Nel calcio di oggi, si sa, non bastano piedi di velluto: senza dinamismo, resistenza e una forma atletica sempre al top, è impossibile arrivare e restare ai massimi livelli per l’intera stagione.

La preparazione individuale - In questo senso, fondamentale il contributo dei suoi personal trainer Ruben Pons, ex fisioterapista del Liverpool, e Pablo Dip: il primo lavora a Barcellona, il secondo segue la mezzala biancoceleste a Roma. “Luis Alberto – ha dichiarato Dip a Repubblica – sta così bene perché accompagna il giusto riposo con delle sedute aggiuntive (oltre quindi a quelle con la squadra a Formello, ndr) di prevenzione e fisioterapia: stimoliamo i suoi muscoli 2-3 volte a settimana con lavori di mobilità e forza.

Gli allenamenti – ha aggiunto il personal trainer – sono lunghi, durano un’ora e mezza. Inoltre cura molto l’alimentazione, segue una dieta equilibrata”.  

Anche dal punto di vista psicologico, Luis Alberto ha trovato una serenità che in campo gli permette di mostrare il meglio del suo repertorio. Rivedere le sue giocate incredibili a Parma, per esempio, o in tante altre partite - da impazzire l'assist a Milinkovic per il gol del 2-1 alla Juve all'Olimpico il 7 dicembre scorso - di questa stagione, è una gioia per gli occhi: puro piacere per gli esteti del calcio. In attesa che finalmente, l'anno prossimo, il suo talento possa esprimersi anche sul palcoscenico più prestigioso: la Champions League nella quale la Lazio sarà un avversario da prendere con le molle anche per le scommesse calcio! 

*La foto di apertura dell'articolo è di Andrew Medichini (AP Photo).

March 14, 2020
Giulio
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Giulio è nato giornalista sportivo, anche se di professione lo fa “solo” da 30 anni. Dal 1997 è l'esperto di calciomercato del quotidiano La Repubblica.

Dal '90 segue (senza annoiarsi mai) le vicende della Lazio: collabora anche con Radiosei e dirige il sito Sololalazio.it. Calcio e giornalismo sono le sue grandi passioni. L'unico rimpianto che lo tormenta è aver smesso di dare spettacolo sui campi di calcetto.

 

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Super Bowl, la magia degli spot: i più interessanti e gli incassi

È stato un Super Bowl straordinario quello andato in scena lo scorso due febbraio all’Hard Rock Stadium di Miami. Non solo per lo spettacolo messo in scena dai Kansas City Chiefs e dai San Francisco 49ers. Il classico show che viene costruito intorno alla gara è stato veramente all’altezza.

Dall’incredibile esibizione durante l’intervallo di Shakira e Jennifer Lopez fino ai tanti, tantissimi spot pubblicitari. La vittoria di Mahomes, nominato poi MVP, e compagni è stata vista da 102 milioni di americani tra televisore e piattaforme streaming. Il Super Bowl di Miami è diventato l’undicesimo show più visto nella storia della televisione americana. All’interno di questa speciale classifica ci sono dieci Super Bowl e la puntata finale della serie televisiva M*A*S*H, vista da 106 milioni di spettatori nel febbraio del 1983. 

LE CIFRE RECORD E GLI SPOT PIÙ RIUSCITI - Un così grande pubblico di fronte al televisore diventa motivo di interesse per tutte le grandi aziende che vogliono fare pubblicità. Durante il Super Bowl vengono offerti dall'emittente, nel 2020 FOX in un'ottica di turnover triennale, due pacchetti alle varie aziende, uno da 30 secondi e un altro invece da un minuto. Per il Super Bowl di Miami servivano circa cinque milioni di dollari per acquistare i diritti a trenta secondi di spot, mentre il prezzo saliva a dieci milioni per un minuto di pubblicità.

Numeri incredibili che però non hanno bloccato le aziende, da Amazon a Google, da Pringles a Coca Cola. Tutti spot realizzati con enorme fantasia e coinvolgendo grandi attori, come fatto ad esempio da Jeep. Per promuovere la nuova Gladiator è stato ideato uno spot con protagonista Bill Murray, tornato ad indossare i panni di Phil Connors in "Ricomincio da capo".

Geniale anche l’idea di Mountain Dew, una delle bibite più in voga negli Stati Uniti. Grazie a Bryan Cranston e Tracee Ellis Ross è stata ricreata una delle scene iconiche di Shining, attirando così l’attenzione del pubblico.

E a proposito di attenzione degli spettatori del Super Bowl, quale miglior protagonista di Tom Brady per uno spot? È stata l’idea di Hulu, servizio di streaming video, che ha scelto proprio il quarterback dei New England Patriots per promuovere la loro idea di produzione televisiva. Lo spot si chiude con Brady che annuncia la sua voglia di “non andare da nessuna parte”, annunciando così la permanenza in NFL ed il picco di diretta scommesse!

Bud Light ha deciso di puntare sulla musica, così come Hard Rock. La prima azienda ha scelto Post Malone, uno dei cantanti più in voga a livello mondiale degli ultimi anni. Hard Rock, sponsor dello stadio di Miami dove si è disputato il Super Bowl, ha invece deciso di creare una sorta di maxi-trailer da oltre due minuti con Jennifer Lopez, strepitosa protagonista anche dell’halftime show insieme a Shakira.

Se Jeep ha puntato sul passato con il ritorno di Bill Murray, discorso diametralmente opposto è stato fatto da Audi. Cavalcando lo strepitoso successo di Game Of Thrones è stata scelta come protagonista dello spot Maisie Williams, conosciuta dai fan di GOT per la sua interpretazione di Arya Stark nella serie. Un allenamento in stile Rocky è stato il tema di riferimento dello spot ideato da Facebook, con Sylvester Stallone ad “approvare” il tutto. 

 

LA SFIDA POLITICA - Nell’anno delle elezioni americane, è inevitabile pensare al Super Bowl come grande occasione di propaganda. Nonostante le potenti influenze dei vari politici, la NFL non ha fatto sconti ai protagonisti della campagna elettorale. Due, inevitabilmente, i protagonisti delle pubblicità durante il Super Bowl. Da una parte il miliardiario democratico ex Sindaco di New York, Michael Bloomberg, dall’altra l’attuale Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump.

Consci delle potenzialità degli spot del Super Bowl, entrambi hanno deciso di proporre degli spot per screditare l’avversario politico. A differenza di Trump, che sarà sicuramente il candidato dei Repubblicani alle prossime elezioni, la campagna elettorale di Bloomberg non ha rispettato le attese e sarà un duello tra Joe Biden e Bernie Sanders a decidere chi sfiderà Donald Trump nelle elezioni previste per il prossimo tre novembre.  
 

*La foto di apertura dell'articolo è di Charlie Riedel (AP Photo).

March 13, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Raiola e il suo piano super per Haaland!

Contro il Psg, nel ritorno degli ottavi di Champions, la macchina da gol si è inceppata, ma trattasi del classico incidente di percorso. Erling Haaland resta la rivelazione di questa travagliata stagione calcistica, nonché il colpo più clamoroso del mercato di gennaio. Lo ha centrato il Borussia Dortmund, che si è portato a casa il fenomeno norvegese di 19 anni capace di segnare 60 gol nelle sue prime 100 gare in carriera, con 8 triplette.

E nella stagione al momento dello stop è arrivato a 40 reti in 33 partite (22 giocate con il Salisburgo, 11 con il Borussia): 10 i centri in 8 sfide di Champions con le due squadre.

Inevitabile, dopo quello che aveva già mostrato con il Salisburgo fino a dicembre, che si scatenasse un’asta internazionale per averlo. Ha partecipato anche la Juve: Paratici, forte dei suoi rapporti con Mino Raiola, manager di Haaland, sperava di spuntarla. In realtà il diabolico agente italiano aveva in mente un progetto diverso per il suo assistito, l’ennesimo purosangue della sua strepitosa scuderia (ne fanno parte, tra gli altri, calciatori  come Ibra, Pogba, De Ligt, Donnarumma, Verratti, Insigne, Kean).

Le ragioni della scelta - Ha scelto il Borussia Dortmund, Raiola, per consentire a Haaland di crescere in una squadra importante ma non di primissima fascia, in grado quindi di farlo giocare con continuità senza le pressioni eccessive che spesso travolgono i giovani che arrivano troppo presto nei top club europei.

Nello stesso tempo, nel Borussia i tempi di adattamento sarebbero stati ridotti – come poi effettivamente è successo – perché il passaggio dal Salisburgo non è un salto triplo, sia come ambiente, come Paese e soprattutto come lingua: Haaland conosce perfettamente il tedesco, ovviamente, e questo lo ha aiutato a inserirsi subito. I risultati sono stati immediati, non a caso. Raiola aveva pianificato tutto.

Le cifre dell'affare presente e... futuro - Non che il progetto poi abbia penalizzato il calciatore dal punto di vista economico. Vediamo perché. Haaland è stato pagato “solo” 22 milioni dal Borussia (la cifra prevista dalla clausola di rescissione del contratto con il Salisburgo), ma il club tedesco ha dovuto versare subito 8 milioni al giocatore come premio alla firma più 15 milioni di commissione a Raiola. L’ingaggio garantito al centravanti è di 8 milioni netti a stagione fino al 2024. Insomma non male come primo passo nel grande calcio per il gigante norvegese.

Ma cosa prevede per il futuro il piano di Raiola? Tutto programmato, appunto: un anno e mezzo al Borussia Dortmund e poi, nell’estate 2021, a soli 21 anni – è nato il 21 luglio 2000 - ma forte dell’esperienza accumulata in Germania, il trasferimento in un top club mondiale, di primissima fascia quindi e saranno interessanti le scommesse. Già stabilito il prezzo: 75 milioni, cioè la cifra prevista dalla clausola di rescissione, guarda caso esercitabile proprio dall’estate 2021.

Per il valore del calciatore, pagarlo 75 milioni per un top club sarà quasi come acquistarlo a parametro zero, con la conseguente possibilità per Raiola di chiedere e ottenere un ingaggio a livelli stratosferici per il suo fuoriclasse. Oltre alla facoltà di scegliere la soluzione migliore dal punto di vista tecnico. La strategia soddisfa anche il Borussia Dortmund, che si potrà godere Haaland per una stagione e mezza e poi realizzerà una plusvalenza da oltre 50 milioni.

Tutti contenti, quindi: giocatore, agente, Borussia e la società che verrà. In corsa i più forti e ricchi club del pianeta, dal Real Madrid al Barcellona, dalla Juve alle grandi della Premier, dal Bayern al Psg.

Il talento e il percorso – già costellato di successi – del giovanissimo goleador non sono una sorpresa, secondo gli amici della famiglia Haaland: “Cosa potevate aspettarvi di meno da uno che è stato concepito in uno spogliatoio?”, la domanda retorica posta al mondo da Jan Age Fjortoft, ex calciatore ed ex compagno di squadra nella nazionale norvegese del papà di Erling. Entrambi, Fjortoft e Haaland senior, giocarono contro l’Italia nella seconda gara del girone nei Mondiali degli Stati Uniti nel ’94.

L’amicizia regala confidenze, insomma Erling sarebbe stato concepito dai genitori nello spogliatoio del Leeds, club nel quale giocava (dal ’97 al 2000, 74 presenze e 8 reti in campionato) Alf-Inge Rasdal Haaland, fortunato padre di questo formidabile talento. Una macchina da gol che non si farà condizionare dall’incidente di percorso capitato a Parigi.

*La foto di apertura dell'articolo è di Martin Meissner (AP Photo).

 

March 13, 2020
Giulio
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Giulio è nato giornalista sportivo, anche se di professione lo fa “solo” da 30 anni. Dal 1997 è l'esperto di calciomercato del quotidiano La Repubblica.

Dal '90 segue (senza annoiarsi mai) le vicende della Lazio: collabora anche con Radiosei e dirige il sito Sololalazio.it. Calcio e giornalismo sono le sue grandi passioni. L'unico rimpianto che lo tormenta è aver smesso di dare spettacolo sui campi di calcetto.

 

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Quando Verona-Juventus si sfidavano in Coppa dei Campioni

 

Sotto l'Arena non si è ancora spento, e non potrebbe essere altrimenti, l'entusiasmo dei tifosi dell'Hellas Verona dopo l'incredibile 2-1 in rimonta firmato Fabio Borini e Gianpaolo Pazzini. Gli scaligeri, da neoporomossi, si stanno rendendo protagonisti di un campionato straordinariamente positivo agli ordini di mister Ivan Jurić e non risulta indigesta neanche la sconfitta con la Samp, prima della sosta forzata.

Un cammino campale, che li ha portati sino al sesto posto, in piena zona europea. E, a proposito di orizzonti internazionali, ci fu un tempo che Verona-Juventus valeva l'accesso ai quarti di finali di Champions League, che all'epoca si chiamava ancora Coppa dei Campioni. Uno scontro fratricida che lasciò parecchio amaro in bocca nell'Italia calcistica, che poteva competere, in quella edizione, con ben due formazioni. Da una parte, il Verona dei miracoli, scudettato con mister Osvaldo Bagnoli.

Dall'altra, una Juventus ancora scioccata dai tragici eventi dell'Heysel, che portarono alla disputa di due match casalinghi a porte chiuse da parte dei bianconeri. I quali, attraverso la propria dirigenza, rinunciarono al diritto di partire dagli Ottavi di finale (allora si era ancora ben distanti dai gironi qualificatori) disputando il turno preliminare per scontare subito la prima partita di squalifica in vista di un impegno agevole e di poter tornare di fronte ai propri tifosi a partire dai quarti allorquando l'avversario sarebbe stato decisamente più ostico.

A questo proposito, la Juventus si sbarazzò subito dei lussemburghesi della Jeunesse d'Esch (5-0 all'andata in trasferta e 4-1 tra gli echi del Comunale vuoto). E anche l'Hellas non incontrò particolari problemi al cospetto del ben più probante PAOK Salonicco (3-1 al "Bentegodi" e 2-1 in Grecia).

Sorteggio beffardo - Il percorso tra bianconeri e gialloblù si incrociò subito dopo, come detto, agli ottavi di finale. La partita dell'andata era prevista a Verona e, al cospetto di una Juve rinunciataria, il primo atto si concluse sullo 0-0. Lo scontro fratricida - in tutti i sensi - esplose nella gara di ritorno, in cui accadde di tutto. Si trattò di una partita giocata di pomeriggio in un impianto per l'appunto deserto e con una coda polemica avvelenata da parte dei veronesi nei confronti del fischietto alsaziano Robert Wurtz, che dopo i fatti del 6 novembre 1985 fu sospeso fino a terminare la propria lunga parentesi di arbitro internazionale.

E' il 18' quando il francese fischia un rigore dubbio per la Juventus: sul cross dagli eterni di Massimo Mauro e la finta di Aldo Serena, il difensore tedesco Hans-Peter Briegel controlla una palla forse con la spalla, forse col braccio, fatto sta che Platini, dagli undici metri, porta il risultato sull'1-0. All'Hellas, cui comunque basta una rete per passare il turno, capitano le occasioni migliori del match. A inizio ripresa, gli animi si incendiano: dopo 4' Serena, in piena area juventina, nel tentativo di togliere una palla vagante dalla disponibilità di Fontolan, camuffa un colpo di testa colpendo la sfera col pugno alzato. Wurtz lascia proseguire e viene accerchiato dai giocatori gialloblu.

Sull'azione susseguente, quindi, lo stesso Serena insacca di testa su cross dalla destra di Mauro ed è 2-0. La gara, in pratica, finisce qui, nonostante la compagine veneta continui ad attaccare. Al triplice fischio, i fotografi immortalano il gesto di Elkjaer, che sia affianca a Wurtz mimandogli quello della compilazione di un assegno, negli spogliatoi un giocatore del Verona rompe una vetrata lanciando uno zoccolo e Osvaldo Bagnoli abbandona la propria aplomb riferendo a due Carabinieri la seguente frase: "Se cercate i ladri sono nell'altro spogliatoio".

Nel frattempo, i tifosi - rimasti giocoforza a Verona, si riunirono in piazza Bra e presero d'assalto il centralino del quotidiano L'Arena. Ma ad avanzare fu la Juventus che, nel turno successivo di una Coppa dei Campioni venne eliminata dal Barcellona (poi finalista) di mister Terry Venables. Si aggiudicò l'edizione del trofeo, a sorpresa per quelle che, anni dopo, sarebbero state definite le quote Champions League, la Steaua di Bucarest!

Ecco, invece, tutti gli altri scontri tra le italiane nelle competizioni europee - praticamente inevitabili durante il dominio calcistico tricolore negli anni '90 - dopo quello tra Verona e Juventus:


1989-90 Juventus-Fiorentina and. 3-1 / rit. 0-0  Coppa Uefa - finale;
1990 Sampdoria-Milan 1-1 / 0-2 Supercoppa Europea;
1990-91 Atalanta-Inter 0-0 / 0-2 Coppa Uefa - quarti;
1990-91 Inter-Roma 2-0 / 0-1 Coppa Uefa - finale;
1993 - Parma-Milan 0-1 / 0-2 d.t.s. Supercoppa Europea;
1993-94 Cagliari-Juventus 2-1 / 1-0 Coppa Uefa - quarti;
1993-94 Cagliari-Inter 3-1 / 0-3 Semifinale;
1994-1995 Parma-Juventus 1-0 / 1-1 Coppa Uefa - finale;
1997-98 Lazio-Inter 0-3 Coppa Uefa - finale;
Estate 1998 Bologna-Sampdoria 3-1 / 0-1 Intertoto - Semifinale;
2002-2003 Milan-Inter 0-0 / 1-1 Champions League - Semifinale;
2002-2003 Juventus-Milan 0-0 (2-3 d.c.r) Champions League - finale;
2004-2005 Milan-Inter 2-0 / 3-0 a tavolino (per il caso del fumogeno lanciato contro Dida) Champions League - quarti;
2013-2014 Juventus-Fiorentina 1-1 / 1-0 Europa League - ottavi;
2014-2015 Fiorentina-Roma 1-1 / 3-0 Europa League - ottavi.

*L'immagine di apertura dell'articolo è di AP Photo.

March 12, 2020
Stefano Fonsato
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Stefano collabora da anni come giornalista freelance per il portale web di Eurosport Italia, per il quotidiano La Stampa e con la casa editrice NuiNui per la quale è stato coautore dei libri "I 100 momenti magici del calcio" e "I 100 momenti magici delle Olimpiadi".

E' amante delle storie, dei reportage e del giornalismo documentaristico, ma il suo "pallino" resta, su tutti, il calcio d'Oltremanica.

 

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