Caicedo, miglior dodicesimo del mondo!

Tra le tante frasi che si ripetono nel mondo del pallone, ce n’è una che forse è più vera delle altre: a calcio non si gioca solo in undici. Il che vale per tutti quelli che in settimana si allenano e lavorano a vario titolo per preparare la partita, ma soprattutto per i calciatori che scendono in campo a match già iniziato.

Le sostituzioni possono rappresentare la differenza tra una sconfitta e una vittoria, tra un titolo sollevato o una medaglia d’argento. Per informazioni chiedere a Teddy Sheringham e Ole Gunnar Solskjaer, che nel 1999 dalla panchina ribaltano una finale di Champions League che sembrava ormai persa e la regalano al Manchester United. 

Il super sub

Normale dunque che anche da questo punto di vista stiano nascendo dei veri e propri specialisti. Il dodicesimo uomo, o quello che gli anglofoni chiamano il super-sub, non è un semplice cambio, ma è un titolare aggiunto, che se non entra in campo ogni partita, poco ci manca. E spesso e volentieri il suo ingresso cambia radicalmente un match.

Nel 2019 il super-sub più pericoloso era Paco Alcacer, capace di avere un impatto sulle partite davvero pazzesco. Ma nella stagione 2019/20, non ci sono dubbi che il titolo di miglior dodicesimo uomo del calcio mondiale spetti al laziale Felipe Caicedo. L'unico che può stare, in qualche modo, in scia del mancino di Simone Inzaghi è il nerazzurro Luis Muriel in Italia e, probabilmente, Origi in Premier, se consideriamo gli attaccanti centrali del City, entrambi titolari.


La storia dell’attaccante ecuadoriano è quella che forse meglio rappresenta la splendida cavalcata della Banda biancoceleste, che da outsider inattesa si è trasformata in una vera e propria corazzata, capace di strapazzare la Juventus campione d’Italia per due partite di seguito. E pensare che fino a qualche mese fa non era neanche così certa la sua permanenza a Formello. Il contratto del centravanti scadeva a giugno 2020 e non parevano esserci margini per un rinnovo.

Anche perché il calciatore voleva giocare, ma nelle scorse stagioni non ha mai trovato troppo spazio con l’insostituibile Immobile. Poi però è arrivato l’intuito di Simone Inzaghi, che ha trovato a Caicedo una nuova collocazione, non solo tattica ma anche mentale. Non più sostituto fisso di Re Ciro, ma dodicesimo uomo, al posto dell’attaccante della nazionale o, perché no, anche accanto a lui.

Un vero e proprio coniglio dal cilindro da parte del tecnico della Lazio, che ha convinto Caicedo a rinnovare (il contratto ora scade nel 2022) e che, soprattutto, ha acquistato un’arma non convenzionale, che gli ha risolto parecchi problemi in stagione. Per la Pantera, 29 presenze e 8 reti, tutte in campionato, a partire da quella contro il Genoa, neanche a dirlo, da subentrato.

Paradossalmente, neanche una marcatura in Europa League, dove ha giocato cinque partite su sei da titolare. Il che non fa altro che confermare il suo status di impact-player, capace di cambiare un match più entrando a partita in corso, piuttosto che partendo dal primo minuto. In campionato per lui 867 minuti giocati, otto reti e quattro assist. Numeri alla mano, un contributo a un gol biancoceleste ogni 72 giri di lancette.

Caiceido, oggi, troverebbe minutaggio in tutti i club più importanti, anche quelli in lotta per raggiungere la finale di Champions ad Istanbul con l'eccezione, forse, del City che alterna Gabriel Jesus e Aguero come unica punta di riferimento.


Altro che Zona... Cesarini 

Il momento d’oro di Caicedo è certamente stato quello a cavallo tra novembre e dicembre. Per ben tre volte consecutive, l’attaccante di Inzaghi è entrato dalla panchina e ha trovato la via della rete. Il 24 novembre 2019 a Sassuolo è stato suo il gol a inizio recupero che ha permesso alla Lazio di imporsi sui neroverdi per 1-2. E per realizzarlo gli ci sono voluti solamente undici minuti.

Va ancora meglio il 7 dicembre all’Olimpico, quando Caicedo entra al minuto 89 contro la Juventus, sul parziale di 2-1 per la sua squadra. A fine match I gol biancocelesti saranno tre e quello che chiude ogni discorso e rimescola le quote serie A è proprio il centro dell’ecuadoriano, che in capo a sei minuti finisce sul tabellino sia con la rete che con un cartellino giallo per eccesso di esultanza.

L’apoteosi però arriva il 16 dicembre a Cagliari. A dieci minuti dalla fine, sotto 1-0, Inzaghi manda in campo l’arma segreta. E nel recupero, ancora una volta, la Lazio ribalta il match. Prima Luis Alberto rimette il discorso in parità e poi, con uno stacco imperioso, è ancora la Pantera a regalare i tre punti ai biancocelesti. Situazione molto simile nel 3-4 al torino: sempre Caicedo a siglare al 90' + 7!

Ma il miglior dodicesimo uomo del mondo sa bene che per lui entrare a partita in corso non è affatto una bocciatura. Anzi, è il più importante attestato di stima che possa ricevere…

*La foto di apertura dell'articolo è di Alessandra Tarantino (AP Photo). Prima pubblicazione 7 marzo 2020.

November 1, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Da Carboni a Florenzi, quanta Italia nel Valencia!

Valencia, Italia. No, non è un errore geografico, ma calcisticamente parlando è un dato di fatto. La squadra bianconera è il club di Liga che nella sua storia ha avuto più calciatori italiani.

Il mercato di gennaio ha permesso ai Pipistrelli di completare il proprio…dieci perfetto con l’arrivo in prestito secco di Alessandro Florenzi dalla Roma. Il classe 1991 ha scelto il Mestalla per giocarsi le sue possibilità di giocare con più continuità e rendersi, quindi, convocabile da Mancini per Euro 2020. E non sorprende che a cercarlo sia stato proprio il Valencia, che nella storia recente ha dimostrato di avere una gran passione per i calciatori tricolori. Al punto che qualcuno è anche entrato nella storia del club.


Seconda giovinezza - Il fortunato è anche il primo italiano a volare da quelle parti: Amedeo Carboni, che fa lo stesso percorso di Florenzi. Dalla Roma al Valencia nel 1997. A 32 anni potrebbero essere gli ultimi fuochi di una buona carriera, ma si trasformano in un amore bello e vincente. Carboni resta al Mestalla da calciatore fino al 2006, quando appende gli scarpini al chiodo con al braccio la fascia da capitano. E quello è il periodo più florido della storia del club, che con Carboni in rosa porta a casa due campionati, una Copa del Rey, una Supercoppa di Spagna.

Anche in Europa i Pipistrelli si fanno rispettare: un Intertoto, una coppa UEFA e la successiva Supercoppa Europea. Il mancino sbaglia un rigore nella finale di Champions di San Siro contro il Bayern. Dopo l’addio, il toscano prova anche per un anno l’esperienza da DS del club, per poi dedicarsi ad altro.


Il periodo al Valencia di Carboni è così ampio che l’ex romanista fa da chioccia a molti altri italiani che decidono di provare l’esperienza nel club. Il primo a seguire l’esempio del terzino è Cristiano Lucarelli. A portarlo al Mestalla è Claudio Ranieri, il primo dei due allenatori italiani che hanno guidato la squadra. Quella 1998/99 però per l’attaccante livornese si rivela una pessima stagione, condizionata da un grave infortunio. Lucarelli si fregia comunque della vittoria sia in Copa del Rey che in Intertoto, ma dopo appena un anno preferisce tornare in Italia, accettando l’offerta del Lecce.


A proposito di Ranieri, il tecnico italiano torna nel 2004 per sostituire Rafa Benitez e c’è un vero e proprio esodo tricolore dal campionato italiano al Valencia. Arrivano ben quattro calciatori dal nostro torneo e tutti di un certo spessore.

Più che il Valencia, sembra... la Lazio! - Ad aggiungersi a Carboni ci sono Stefano Fiore, Marco Di Vaio, Emiliano Moretti e Bernardo Corradi. Le loro storie in quel di Valencia sono molto diverse, ma hanno un punto in comune: la stagione 2004/05 è quella…degli italiani, perché in rosa ce ne sono cinque, più il tecnico. Inizia bene, con la vittoria della Supercoppa Europea, ma finirà malissimo, con Ranieri esonerato prima dell’arrivo della primavera. 

Claudio Ranieri, nel 2004 alla guida del Valencia!


In ogni caso il momento è storico. Fiore, dopo anni in cui ha brillato con le maglie del Parma, della Lazio e della nazionale, non riesce a sfondare in Spagna. Rimarrà sotto contratto fino all’agosto 2007, ma le due stagioni successive a quella in Spagna le gioca tra Fiorentina, Torino e Livorno. Storia simile per Corradi, anche lui arrivato dalla Lazio. Un anno per lui, in cui segna appena 4 reti in 29 presenze, poi il prestito al Parma e la cessione al Manchester City.

Non va molto meglio a Di Vaio, che rimane al Mestalla una stagione e mezzo. Nella prima mette a segno 15 reti, ma poi a dicembre 2005 viene ceduto in prestito al Monaco e poi tornerà in Italia, al Genoa.


Moretti, professionista esemplare - Chi a Valencia ci resta di più è Emiliano Moretti, difensore sempre affidabile e uomo spogliatoio in Spagna ed Italia. Per lui cinque anni in bianconero, dal 2004 al 2009. E il difensore, in un certo senso, prende l’eredità di Carboni, visto che riesce a imporsi nell’undici titolare e nella stagione 2007/08 è protagonista della cavalcata della squadra di Koeman, che riesce a vincere la Copa del Rey. Nel frattempo, al posto di Di Vaio è arrivato ed è subito andato via un altro attaccante italiano, Ciccio Tavano.

Il Valencia lo acquista dall’Empoli, ma finisce subito ai margini della rosa. Il club spagnolo lo presta alla Roma, che non lo riscatta, e poi dopo appena un anno lo rimanda definitivamente in Italia, al Livorno.


Sarà che, escludendo Moretti, il gruppo di italiani portati da Ranieri non convince per nulla, ma per rivedere un calciatore tricolore indossare la maglia del Valencia bisogna aspettare il 2017. Un anno prima, nel frattempo, dura pochi mesi l’avventura al Mestalla di un tecnico italiano, Claudio Cesare Prandelli, che subentra ad Ayestarán a settembre e lascia dopo appena otto partite.

La stagione successiva si rivede la nostra bandiera, grazie a Simone Zaza. L’attaccante arriva nel gennaio 2017 e gioca una stagione e mezza in Spagna, mettendo a referto un totale di 19 gol il 53 partite, con una rete straordinaria al Real che ha invertito le quote delle scommesse calcio. Quanto basta per convincere il Torino a riportarlo in Italia.


L’unico connazionale nonché compagno di reparto…e di ruolo per Florenzi resta dunque Cristiano Piccini, acquistato dal Valencia nel 2018. Per lui il club spagnolo sborsa 10 milioni allo Sporting Lisbona e sul suo contratto c’è una clausola da 80 milioni di euro. Dopo aver giocato da titolare nella scorsa stagione, Piccini si è però fratturato la rotula e quindi ha lasciato un posto in rosa scoperto, proprio quello che si è preso ora l’ex romanista.

E chissà che, nel caso il Valencia volesse provare il riscatto del numero 25, la prossima stagione la fascia destra dei pipistrelli non parli totalmente italiano.

*La foto di apertura dell'articolo è di Ramon Espinosa (AP Photo); la seconda di Claude Paris (AP Photo).

 
March 6, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

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La struttura del Salary Cap: un sistema perfetto (o quasi)

 

Un sistema perfetto, o quasi, che troppo spesso lo sport europeo ha osservato senza però riuscire a prenderne realmente spunto. Il Salary Cap americano è uno degli strumenti più efficaci per garantire “pari diritti” all’interno dello sport.

Si basa però su un principio fondamentale, ovvero quello che non esiste retrocessione. Una società (in America vengono chiamate franchigie), può decidere di fare 2-3 stagioni spendendo meno e puntando su una rifondazione senza correre alcun rischio dal punto di vista tecnico. Per evitare però il fenomeno del “tanking”, ovvero perdere volontariamente per avere una scelta più alta al Draft, la NBA ha introdotto il Salary Floor. Le squadre sono costrette a spendere almeno il 90% del Salary Cap previsto per la stagione. 

SALARY CAP NEL 2019/20 - L’ammontare del Salary Cap viene stabilito dalla NBA in base agli introiti provenienti dai diritti televisivi. Per la stagione 2019/20 ammonta a 109 milioni di dollari, una cifra cresciuta in maniera esponenziale negli ultimi anni. Basti pensare che nel 2004/05, solo quindici anni fa, il Salary Cap si fermava a 43 milioni di dollari. Numeri enormi dovuti soprattutto allo sviluppo della NBA a livello mondiale, che permette così ai giocatori di guadagnare molto di più rispetto al passato.

Come detto in precedenza, il Salary Cap NBA viene definito “soft” perché permette alle varie franchigie di avere diverse esenzioni e, soprattutto, permette anche ai proprietari di sforare questo tetto. C’è un limite entro il quale le franchigie non hanno alcuna limitazione ed è la Luxury Tax Line, fissata quest’anno a 132 milioni di dollari. Chi supera questa Luxury Tax Line deve pagare una penale alla NBA che dipende da quanti milioni di dollari di disavanzo ci sono e dalla recidività di una franchigia. Penale che, poi, la NBA ridistribuirà per tutte le altre 29 squadre della lega. 

GLI STIPENDI - Il Salary Cap influisce ovviamente sui contratti dei giocatori, visto che in NBA ci sono dei limiti per le offerte che si possono fare ai giocatori. A cominciare dallo stipendio minimo, che varia anche in base agli anni di esperienza in NBA. Per un giocatore al primo anno un contratto al minimo salariale vale circa 600 mila dollari, mentre per un veterano con oltre dieci anni in NBA è previsto un contratto minimo vicino ai due milioni di dollari.

Poi le franchigie hanno ampio margine di manovra per fare qualsiasi tipo di offerta ai giocatori, fino ad arrivare al “Max Contract”. Qualsiasi squadra può offrirlo, ma ci sono delle eccezioni introdotte dalla NBA per favorire le squadre che vogliono rifirmare i loro gioielli. Ad un giocatore in scadenza di contratto tutte le squadre NBA possono offrire un “Max Contract” della durata di 4 anni, mentre la squadra di appartenenza ha il diritto ad offrire un quinto anno di contratto (il più ricco dell’accordo), convincendo così il giocatore a non cambiare squadra.

UN ESEMPIO... PER IL 2021! - Anche qui sono fissati dei limiti, per i giovani con massimo 6 anni di esperienza in NBA il “Max Contract” equivale al 25% del Salary Cap, si sale al 30% per giocatori tra i 7 e i 9 anni d’esperienza e si arriva al 35% per i veterani con almeno nove anni d’esperienza. Per capire quanto possa fare la differenza l’estensione per il quinto anno di contratto prendiamo un caso che potrebbe sconvolgere le scommesse NBA: l’attuale MVP della Lega, Giannis Antetokounmpo, stella assoluta dei Milwaukee Bucks, sarà il pezzo pregiato della Free Agency nell’estate del 2021! O meglio, potrebbe esserlo, perché i Bucks hanno già pronta la maxi-offerta per convincerlo a rimanere a Milwaukee.

Qualora Giannis decidesse di testare il mercato, potrebbe ottenere un’offerta di 4 anni da circa 190-195 milioni di dollari. Si parla con insistenza dell’interessamento dei New York Knicks, alla disperata ricerca di una stella per rilanciarsi dopo anni di enormi difficoltà. Ben diversa invece quella che può essere l’offerta dei Bucks, o meglio quella che sarà l’offerta di prolungamento già pronta per Milwaukee. Cinque anni di accordo da 247 milioni di dollari, ovvero il contratto più ricco mai firmato nella storia della NBA. 
 

*La foto di apertura dell'articolo è di Kathy Willens (AP Photo).

March 6, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Roberto Brambilla ci racconta il Lipsia e il calcio nella Germania Est

 

C’era una volta la cortina di ferro: c’era una volta un muro che divideva Berlino in due diverse città e un confine che faceva declinare la Germania al plurale, con le due metà identificate dalla collocazione geografica rispetto allo scacchiere del continente europeo. A ovest la Repubblica Federale di Germania (BDR), a est la Repubblica Democratica Tedesca (DDR), ognuna con le sue nazionali, le sue squadre e il proprio campionato di calcio.

Abbiamo chiesto a Roberto Brambilla, collaboratore di Avvenire e BundesItalia.com, autore del libro “C'era una volta l'Est. Storie di calcio dalla Germania orientale” di raccontarci il calcio nella DDR e le imprese in campo europeo di quelle squadre, con un occhio particolare rivolto al Lipsia protagonista di uno straordinario percorso in Champions League.

Ci racconti brevemente com'era il calcio della Germania Est?
“Il calcio della Germania Est faceva dell'atletismo e dell'organizzazione di gioco i suoi principi cardine. Non mancavano però i giocatori di talento e i fuoriclasse, come Jürgen Croy, del Sachsenring Zwickau, probabilmente uno dei cinque portieri più forti della storia tedesca, come Peter Ducke, centrocampista offensivo del Carl Zeiss Jena o Matthias Sammer, stella della Dinamo Dresda e futuro Pallone d'Oro dopo la Riunificazione”.

Qual era il rapporto delle squadre della DDR con le coppe europee? 
“Per essere un Paese relativamente piccolo, con poco meno di 20 milioni di abitanti, il rapporto era più che discreto. In circa 40 anni i club della Oberliga, la massima serie della DDR, sono andati tre volte in finale, tutte in Coppa delle Coppe, conquistando il trofeo nel 1974 con il Magdeburgo”.

Ci sono stati episodi clamorosi di tifosi o giocatori che hanno approfittato di trasferte europee per scappare in occidente?
“Bisogna tenere in conto che il permesso e il visto per seguire le squadre della DDR in trasferta in Occidente veniva concesso dalle autorità della Germania Orientale con il contagocce, a persone ideologicamente “fidate” o addirittura con rapporti con la SED, il partito guida del Paese o gli apparati di sicurezza dello Stato.

Frequente invece era la fuga di calciatori durante le trasferte europee. I più famosi forse furono quelli di Falko Götz e di Dirk Schlegel, fuggiti nel 1983 prima di un match di Coppa dei Campioni tra la “loro” Dinamo Berlino e il Partizan Belgrado o quello di Frank Lippmann, scappato dopo un'epocale sconfitta della Dinamo Dresda con il Bayer Uerdingen in Coppa delle Coppe nel 1986”.

La vittoria del Magdeburgo in Coppa delle Coppe nel 1974 è stato il punto più alto per una squadra della DDR, oltretutto in finale contro il Milan. Cosa puoi dirci di quella squadra?
“Se volessimo usare un'espressione tanto in voga, quella formazione era a “chilometro zero” o quasi. A parte non esserci gli stranieri, banditi nel calcio della DDR per regolamento, l'intera rosa, gestita da Heinz Krügel, era stata costruita negli anni precedenti e con calciatori cresciuti nella regione, la Sachsen-Anhalt, tra cui l'attaccante Martin Hoffmann, il centrocampista Jürgen Pommerenke e soprattutto Jürgen Sparwasser, l'uomo che un mese dopo avrebbe segnato la rete decisiva nel match tra Germania Est e Germania Ovest ai Mondiali '74”.

Qual è stato, prima del RB Lipsia, il miglior risultato in Coppa dei Campioni di una formazione della DDR?
“Nella storia della vecchia Coppa dei Campioni, due squadre, la Dinamo Berlino e la Lokomotive Lipsia sono arrivati più volte fino ai quarti di finale, senza mai superarli, tra la gli Anni Settanta e l'inizio degli Anni Novanta”.

Chemie Leipzig, Leipzig XI, Lokomotive Leipzig, SC Leipzig sono le quattro squadre di Lipsia che hanno disputato le coppe europee prima del RB. Hanno legami con la squadra odierna? Se sì, quali?
“Nessuna delle squadre che hai citato ha legami con l'attuale RB Lipsia. Il RasenBallsport, questo il nome ufficiale del club (RedBull non può essere citato nella denominazione per ragioni di regolamento), ha una relazione con un solo club “precedente”, il SSV Markranstädt, sodalizio dilettantistico della zona di Lipsia da cui la dirigenza della squadra attuale acquisì la licenza al momento della nascita”.

Che idea ti sei fatto del RB Lipsia, ormai sempre tra le favorite delle quote calcio? Qualcuno non la vede di buon occhio, rappresentando un progetto di business calcistico troppo moderno: tu cosa ne pensi?
“Faccio una premessa: adoro il modo in cui il RB gioca e il calcio che propone. Riconosco però che le modalità in cui il RB è entrato nel calcio tedesco, con un cospicuo investimento di denaro fin dagli esordi nelle serie dilettantistiche e alcuni aspetti mai chiariti (ad es.i rapporti con le squadre sorelle), possano aver fatto storcere il naso a una buona fetta di tifosi tedeschi, molto ancorati alla tradizione e poco abituati a questi progetti con grandi disponibilità economiche e scarso legame con il territorio”.

Se dovessi elencare le cinque più belle (o importanti) partite di una formazione della DDR in Europa, quali menzioneresti?
Non vado in ordine, solo perché non saprei scegliere.
- Bayer Uerdingen-Dinamo Dresda 7-3, ritorno quarti di finale di Coppa delle Coppe 1985/1986: dopo essere aver vinto all'andata 2-0 ed essere avanti 3-1 a circa mezz'ora dalla finale la Dinamo Dresda di Klaus Sammer (il papà di Matthias che è in campo) prende sei gol e viene eliminato
- Nottingham Forest – Dinamo Berlino 0-1, andata quarti di finale Coppa Campioni 1979-1980: al “City Ground” la squadra di Brian Clough futura campionessa d'Europa cede in casa per un gol di Riediger in contropiede. Al ritorno perderanno 3-1 e saranno estromessi dalla coppa.
- Lokomotive Lipsia-Bordeaux 0-1, 6-5 d.c.r, ritorno semifinale di Coppa delle Coppe 1986/1987: la Lokomotive Lipsia raggiunge la sua prima (e unica) finale europea, battendo dopo una maratona casalinga i francesi del Bordeaux. Protagonista assoluto il portiere René Müller, che ai rigori realizza dal dischetto il gol decisivo
- Carl Zeiss Jena-Roma 4-0, ritorno sedicesimi Coppa delle Coppe 1980-1981: i giallorossi, dopo un comodo 3-0 all'Olimpico crollano in Germania Est. Vengono sommersi da 90' a ritmo altissimo e da quattro reti, che ne decretano l'eliminazione.
- Bayern Monaco- Dinamo Dresda (4-3: 3-3), ottavi di finale Coppa dei Campioni 1973/1974: il più equilibrato confronto tra due club dai lati opposti del Muro, con tanti risvolti politici. Il Bayern si salva pareggiando a Dresda nel ritorno ma la squadra campione della DDR dimostra di poter competere con buona parte di quelli che neanche un anno dopo saranno campioni del mondo con la Germania Ovest.

Infine, se il Lipsia dovesse andare avanti in CL, sarebbe il massimo risultato di tutti i tempi per una formazione della ex DDR?
Per una squadra della ex DDR sì. Da quando è caduto il Muro, due squadre hanno partecipato alla massima competizione europea: l'Hansa Rostock, nella stagione 1991-1992, rappresentando di fatto ancora la Germania Est (grazie a un accordo con la UEFA). In quell'occasione il club del Baltico uscì al primo turno con il Barcellona. E poi la stessa RB, eliminata nel 2017-2018 al suo debutto nel girone di Champions League.

Segui la Bundesliga con le quote calcio di 888sport!

*L'immagine di apertura dell'articolo è di AP Photo.
 

March 6, 2020
Emanuele Giulianelli
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Scrittore e giornalista freelance, collabora regolarmente con il Corriere della Sera, con La Gazzetta dello Sport, con Extra Time, Rivista Undici, Guerin Sportivo e con varie testate internazionali come Four Four Two, Panenka e Tribal Football. Scrive per B-Magazine, la rivista ufficiale della Lega Serie B.


I suoi articoli di calcio internazionale e geopolitica sono stati pubblicati, tra gli altri, su FIFA Weekly, il magazine ufficiale della federazione internazionale, su The Guardian, The Independent e su Eurasianet. Ha lavorato come corrispondente sportivo dall’Italia per Reuters.


Ha pubblicato tre libri, l'ultimo dei quali, "Qarabag. La squadra senza città alla conquista dell'Europa" edito da Ultra Sport, è uscito nel 2018.
 

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Le 5 clausole più bizzarre tra giocatori e club

 

A volte i (tanti) soldi non sono sufficienti a dare un'idea del valore di un contratto stipulato tra calciatore e società. Né la durata o una clausola rescissoria astronomica. Ci sono casi in cui altri tipi di clausole intervengono per spiegare quali siano i delicati limiti da non oltrepassare, oppure i premi da riconoscere in caso di raggiungimento di un determinato obiettivo.

Alcune di queste postille hanno risvolti davvero "particolari", per usare un eufemismo. Noi di 888 abbiamo selezionato le 5 più "strane" che sono circolate nel calcio contemporaneo:

5. La postilla "anti-volo" di Dennis Bergkamp

«Se Ryan Giggs vale 20 milioni, Dennis Bergkamp ne vale almeno 100». Parole - pronunciate nel cuore degli anni '90 - da Marco van Basten. Questione di gusti calcistici, ovviamente. Ma questo spiega che straordinario giocatore fosse Bergkamp. Altrettanto nota e l'atavica paura di volare del centrocampista offensivo olandese.

Nel 1995, all'epoca del suo trasferimento dall'Inter all'Arsenal, fece aggiungere una precisa e particolare postilla al contratto che lo legò fino a fine carriera ai Gunners: nelle competizioni europee, il giocatore non si sarebbe spostato insieme alla squadra in aereo. Bensì solamente su mezzi via mare e via terra.

4. Il ritorno di Ronalinho in Brasile e... in discoteca

Basta paparazzi, basta pettegolezzi: dopo l'esperienza di Ronaldinho al Milan e le sue "capatine" nella movida meneghina, l'asso brasiliano voleva che la sua vita privata, al ritorno in patria, potesse essere goduta alla luce del sole. Anzi... della sfera stroboscopica! In questo senso, nell'estate 2011, impose al Flamengo una clausola secondo la quale il giocatore avrebbe avuto il "permesso scritto" di andare in discoteca almeno due volte a settimana.

3. Non criticare e verrai premiato: la doppia clausola tra Neymar e Barcellona

Il passaggio dal Santos al Barcellona di Neymar Jr. (oggi al PSG), avvenuto il 3 giugno 2013 (per 57,1 milioni di euro), è stato oggetto di varie indagini, anche di natura fiscale. Oltre a ciò, decisamente singolari gli accordi tra le parti. In primis, al giocoliere santista sarebbero stati riconosciti 2,5 milioni "extra", se non avesse criticato l'allenatore sulla collocazione in campo. Inoltre, il giocatore avrebbe potuto ospitare, una volta ogni due mesi, il gruppo dei suoi amici storico, naturalmente... tutto a spese del club blaugrana!

2. "Non mordere": il monito a Luis Suarez

Estate 2014: il Barcellona versa 80 milioni di euro nelle casse del Liverpool per assicurarsi lo straordinario attaccante Luis Suarez. Alla terza partita della fase a gironi dei Mondiali brasiliani, tuttavia, durante la vittoria per 1-0 (firmata Diego Godin) del suo Uruguay contro l'Italia, costata l'eliminazione agli Azzurri, il "Pistolero" rifila un morso sulla spalla di Giorgio Chiellini.

L'immagine diventa virale, Suarez viene squalificato 4 mesi dalla Fifa (incluse le gare coi club) e, quindi, il Barcellona si premunisce facendo firmare all'attaccante un'integrazione contrattuale con una clausola che punisse eventuali atteggiamenti poco professionali (morsi inclusi). Da quel momento, Suarez (che già ai tempi del Liverpool possedeva una fedina non proprio immacolata) non sgarrò più.

Il Barcellona è tra le favorite per la Champions 2020 per le quote delle scommesse calcio!

1. "Niente viaggi nello spazio" per Stefan Schwarz

Si può parlare a lungo di clausole bizzarre, ma al primo posto di questa particolarissima classifica, resta sempre quella riguardante Stefan Schwarz e il Sunderland. L'ex centrocampista della Fiorentina e della nazionale svedese, stava preparando, nel 2000, il suo passaggio dal Valencia al Sunderland. Ma, anche, un viaggio nello spazio - secondo i suoi programmi nel 2002 - per realizzare il sogno di una vita.

Ebbene, il club dei Black Cats - l'ultimo della carriera di Schwarz prima del ritiro, avvenuto nel 2003 - si premunì infilando nel contratto una clausola che proibì al centrocampista di salire in orbita a fare l'astronauta.

Clausola... di non concorrenza - Aggiungiamo una clausola, questa volta, addirittura, tra due società. Estate 2018. Il Napoli si era già accordato con Carlo Ancelotti, anche perché aveva capito che l'esperienza con Maurizio Sarri sulla panchina azzurra, era finita.

A bussare alla porta della società partenopea, il Chelsea di Roman Abramovich che richiede Sarri ed il "pretoriano" Jorginho. Risultato Sarri e Jorginho a Stamford Bridge per 65 milioni ma con una clausola ben precisa: in caso di ulteriori richieste di giocatori azzurri da parte del tecnico di Bagnoli, Aurelio De Laurentiis non avrebbe consentito altre partenze da Castel Volturno in direzione Fulham Road.

*La foto di apertura dell'articolo è di Ricardo Mazalan (AP Photo).

March 5, 2020
Stefano Fonsato
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Stefano collabora da anni come giornalista freelance per il portale web di Eurosport Italia, per il quotidiano La Stampa e con la casa editrice NuiNui per la quale è stato coautore dei libri "I 100 momenti magici del calcio" e "I 100 momenti magici delle Olimpiadi".

E' amante delle storie, dei reportage e del giornalismo documentaristico, ma il suo "pallino" resta, su tutti, il calcio d'Oltremanica.

 

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Premio di solidarietà: il fiume d’oro che scorre sotto traccia


Ci sono moltissime voci nella stesura di un contratto di trasferimento di un calciatore professionista, e anche per questo, anche trattative che appaiono in teoria molto semplici da portare a termine, vanno avanti per diversi giorni. Tra le voci “minori”, ma molto importanti, c’è quella del Premio di solidarietà che - da regolamento FIFA - viene versato dal club che cede il proprio tesserato ad un’altra società.

Tale contributo è previsto nel caso in cui un calciatore venga trasferito prima della scadenza del suo contratto, e viene distribuito in favore dei club coinvolti nella formazione del giocatore nel corso delle stagioni dal 12° al 23° anno di età del calciatore.

La norma ed il carattere "internazionale" del trasferimento - La norma della Federazione Internazionale Football Association parla chiaro:
“Se un calciatore professionista si trasferisce nel corso di un contratto, il 5% di qualsiasi compenso, ad eccezione dell’indennità di formazione, corrisposto alla società precedente deve essere detratto dal totale di tali compensi e distribuito dalla società di destinazione come contributo di solidarietà alla (o alle) società che hanno provveduto alla formazione e all’istruzione del calciatore nel corso degli anni.

Tale contributo di solidarietà tiene conto del numero di anni durante i quali il calciatore è stato tesserato per la (o le) società in questione nelle stagioni comprese tra il 12° e 23° anno di età".

Il trasferimento in questione deve essere di natura internazionale, ovvero deve avvenire tra due squadre che fanno parte di due federazioni differenti, e può essere sia a titolo definitivo che temporaneo. Il Premio di Solidarietà viene corrisposto ogni qual volta un giocatore si trasferisce da un club a un altro, ed è certificato da una tabella che legifera in maniera esplicita la ripartizione di tale premio:

- dalla stagione del 12º anno di età del calciatore, fino al 15º anno, al club spetta per ogni stagione lo 0,25% del costo totale del trasferimento.

- dal 16º anno di età del calciatore, fino al 23º anno di età, il Premio di solidarietà che va alla società (o alle società nelle quali il ragazzo ha militato) è equivalente allo 0,50% dell’intero importo del trasferimento moltiplicato per ogni stagione trascorsa nel club, o nei club passati.

Tutto ciò comporta un guadagno indiretto per i club che hanno avuto modo di far crescere nel proprio settore giovanile (o hanno tesserato fino al 23º anno di età) calciatori successivamente al centro di trasferimenti di carattere internazionale.

Il Premio di solidarietà - stabilito dalla FIFA per i trasferimenti di natura internazionale - non va confuso con l’indennità di formazione che viene corrisposta solo in occasione del primo contratto da professionista e per i trasferimenti avvenuti fino al 23° anno di età.

L'esempio - L’esempio più eclatante, in termini di Premio di Solidarietà riguarda il trasferimento internazionale di Cristiano Ronaldo dal Real Madrid alla Juventus che ha sconvolto il mercato delle scommesse online dei madridisti; il costo del cartellino del portoghese - com’è noto - fu di 100 milioni di euro. Ma di questi cento milioni, il 5% è stato destinato allo Sporting Lisbona e al Manchester United, i due club che avevano tesserato il calciatore all'età coperta dalla norma.

In sostanza, entrambi i club hanno ricevuto 2,5 milioni di euro. Vediamo, perché.

La società lusitana - che aveva avuto Ronaldo dal 12° anno di età fino al 18º anno, ha incassato una quota parte del contributo pari allo 0,25% nelle prime 4 stagioni in cui il giocatore ha vestito la maglia biancoverde (dal 12° al 16° anno di età), sommato alle altre tre stagioni (dai sedici anni in avanti), il cui contributo è valutato dalla norma al 0,50%. Il club inglese - che ha avuto modo di tesserare Ronaldo dal 18° anno di età (per poi cederlo a 24 anni) ha ottenuto i cinque anni di contributi relativi al Premio di Solidarietà (dai 18 ai 23 anni) che hanno contribuito ad arricchire le casse dei Red Devils.

Lo sviluppo dei settori giovanili porta ai club dei grossi vantaggi nei ricavi economici, al di là delle plusvalenze: per questo andrebbero sempre incentivati.

*La foto di apertura dell'articolo è di Antonio Calanni (AP Photo).

 
March 5, 2020
simone pieretti
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Giornalista, scrittore, innamorato di futbol. Scrive per trasmettere emozioni e alimentare sogni. Il calcio è una scienza imperfetta: è arte, è musica, è poesia. E' un viaggio nel tempo che ci fa tornare bambini ogni qual volta diamo un calcio a un pallone.

 

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Io me ne vado... in Cina!

Daniel Carriço, difensore portoghese di 31 anni, passa dal Siviglia al Wuhan Zall. In tempi di coronavirus, c'è quasi da non crederci. Ma è tutto vero, come ha confermato lo stesso club cinese. Difficile capire cosa possa portare un calciatore a trasferirsi nella squadra della città in cui ha avuto inizio l’epidemia, ma il ragionamento dell’ex calciatore biancorosso in fondo non fa una piega. 

Intanto, il Wuhan Zall è tranquillamente ad allenarsi in Spagna e, considerando che il campionato è stato rinviato a data da destinarsi, tornerà in Cina quando la situazione non sarà più pericolosa. E poi, in fondo, bisognerà pur tornare a giocare da quelle parti prima o poi e solitamente gli stipendi della Chinese Super League sono importanti per chi viene dall’estero.

 

E poi, a dirla tutta, il portoghese non è neanche l’unico ad aver accettato le lusinghe del Wuhan Zall. Anche l’ex Napoli e Palermo Eddy Gnahoré giocherà, non appena riprenderà il torneo, con la squadra cinese. In ogni caso, quello di Carriço entra decisamente a far parte dei trasferimenti più assurdi e inaspettati della storia del calcio.


Barça, che confusione - Del resto, nell’ultima sessione di mercato, persino il Barcellona ha deciso di sorprendere, anche se già lo scorso anno l’acquisto di Boateng dal Sassuolo aveva fatto parlare parecchio. Ma almeno il buon Boa un minimo di pedigree calcistico importante ce l’aveva. E invece a febbraio 2020, fuori tempo massimo grazie all’infortunio di Dembele, in blaugrana arriva Martin Braithwaite.

Chi? Ecco, esattamente la domanda che si sono fatti i tifosi del Barça. Che magari si aspettavano un nuovo centravanti di nome e si ritrovano in attacco a duettare con Messi un ragazzo danese di 29 anni che in carriera ha giocato e segnato (a dire la verità neanche troppo) con Esbjerg, Tolosa, Middlesbrough, Bordeaux e Leganés. Il campo poi darà il suo giudizio, ma intanto non è che al Camp Nou siano felicissimi e le quote dei blaugrana nelle scommesse online crescono...


Giudizio ampiamente negativo che invece è stato dato invece oltre un decennio fa a Julian Faubert, che nel 2018 ha giocato in Indonesia e che invece nel 2009 era in prestito al Real Madrid e si allenava accanto a Sergio Ramos, Sneijder e Robben. Tutto merito di una buona stagione con il West Ham, coincisa con un momento di emergenza dei Blancos sulla fascia destra.

A gennaio, il francese si ritrova catapultato al Bernabeu, forse senza neanche sapere perchè. Alla fine gioca appena due partite e se ne torna in Premier League, retrocedendo due anni dopo e finendo anche in Francia, Turchia, Scozia e Finlandia. Santo protettore…dei Galacticos per caso.


Benefits da rockstar - E visto che si parla di Liga, impossibile non menzionare Samuel Eto’o che arriva all’Inter dopo una carriera già vincente e porta a casa il secondo Triplete. Appena un anno dopo lascia la Serie A…per l’Anzhi, squadra praticamente sconosciuta che però può offrirgli uno stipendio da capogiro grazie ai fondi del magnate russo Sulejman Kerimov. A invitarlo nella Premier Liga russa ci pensa Roberto Carlos, anche lui emigrato in cerca di un ultimo contratto da nababbo.

Una storia pazzesca, così come i benefit per la firma del camerunense: il club è di Machačkala, capitale del Daghestan. Ma Eto’o di vivere sul Caucaso non ha alcuna intenzione e quindi ha casa e si allena a Mosca, con l’aereo personale che lo porta alle partite. Questa strana storia dura due anni, poi gli stipendi cominciano a diminuire e ora la squadra è fallita e si trova in terza divisione, mentre Eto’o torna al Chelsea per poi passare all’Everton, alla Samp, in Turchia e persino in Qatar.


Una sindrome, quella della scelta particolare, che non risparmia nemmeno i Palloni d’Oro o i campioni conclamati. Ecco qualche esempio. Anno di grazia 1982, il Barcellona acquista Diego Armando Maradona e per Allan Simonsen, miglior giocatore d’Europa nel 1977, non c’è più posto. E lui, ad appena trent’anni, dove se ne va? Clamorosamente al Charlton, nella Serie B inglese.

Un altro Maradona, quello dei Carpazi, fa uno strano giro. Gheorghe Hagi fa grande la Steaua e finisce al Real Madrid, salvo due anni dopo ritrovarsi al Brescia, disputando persino una stagione in B. E poi, tanto per completare l’assurdità della questione, fa talmente bene in Lombardia che viene acquistato dal Barcellona.


In Inghilterra, poi, sono davvero straordinari quando si tratta di acquisti e cessioni capaci di lasciare perplessi. Due casi su tutti. Stagione 2010/11, quella di Dale Jennings, 18 anni, e il suo trasferimento shock: dal Tranmere Rovers, League One, al…Bayern Monaco. I tedeschi lo comprano (per motivi ancora poco comprensibili) e lo dirottano immediatamente nella squadra riserve. Non ne uscirà mai, neanche per un minuto con i grandi. E ora, a 27 anni, gioca nella nona divisione inglese.

Pressioni "politiche" - Peggio, se possibile, la figuraccia del Southampton, che nel 1996 regala al calcio un momento storico. L’esordio di Ali Dia, finto cugino di George Weah, che il club inglese mette sotto contratto dopo una telefonata da parte di una persona che si spaccia per l’attuale presidente della Liberia. E nel match contro il Leeds United, succede l’impensabile. Ali Dia, che in carriera al massimo ha giocato al massimo con squadre di categorie parecchio inferiori, scende in campo in Premier, prendendo il posto di un infortunato Matthew Le Tissier.

Bastano 53 minuti per capire che forse l’acquisto è stato abbastanza incauto. Ma insomma, di fare scelte strane succede anche ai migliori calciatori. E ai migliori club.

Segui tutto il calcio internazionale con le scommesse online di 888sport!

*La foto di apertura dell'articolo è di Miguel Morenatti (AP Photo).

March 5, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Il caso Pato-Tevez, quando l'amore ebbe la meglio sul mercato!

Può una storia d'amore condizionare un segmento lungo e importante della storia recente del nostro calcio? È successo anche questo, nell'affascinante ma pazzo pazzo pazzo mondo del pallone.

Correvano i giorni precedenti al Natale del 2011. Il cronista di mercato riceve una telefonata da una fonte, di quelle che ti conducono sempre a dama: “Stai attento, il Milan sta chiudendo un'operazione clamorosa: Pato al Psg e Tevez in rossonero. E il Milan ci guadagna anche economicamente”. Bum. Conoscendo l'arte di Galliani nelle trattative – era il re del mercato - e la sua passione folle per Carlitos Tevez detto l'Apache, il cronista non si stupisce neanche un po' e chiama il diretto interessato, l'ammistratore delegato del Milan.

Che non smentisce, insomma prende tempo: abbastanza per fargli capire che è tutto vero. Il cronista ha quindi la certezza che l'operazione è nata, si svilupperà e a gennaio andrà in porto. Salvo colpi di scena. Bisogna capire i dettagli, monitorare il tutto, giorno per giorno, ma insomma è questione di tempo e la cosa si farà. Il quotidiano La Repubblica dedica una pagina al clamoroso affare, proprio nel giorno in cui escono dichiarazioni significative di Pato che - dopo 4 anni in rossonero - ne ufficializzano l'inquietudine. Non si sente più coccolato dal Milan, il Papero dai mille infortuni, e prende in considerazione l'addio.

Altro che mercato di riparazione - Tutto apparecchiato, dunque. All'operazione continuano a lavorare le parti interessate, compreso il mitico mediatore internazionale Ernesto Bronzetti, figura leggendaria - ci ha lasciato 4 anni fa - tra gli operatori di mercato, famoso per aver partecipato e contribuito al trasferimento di tanti Palloni d'Oro. Cresce l'ottimismo e quando si apre il mercato di gennaio, tutti hanno capito che l'operazione principale sarà quella: Tevez al Milan, Pato al Psg. I giornali già si dedicano ai commenti: chi ci guadagna, chi ci perde.

La mattina del 12 gennaio 2012, la missione di Galliani entra nel vivo. Trovato da tempo l'accordo con il Psg del suo amico Leonardo per Pato (35 milioni, bonus compresi, al Milan e triennale da 7 milioni netti a stagione per il brasiliano), il braccio destro di Berlusconi vola a Londra – con l'avvocato Cantamessa - per incontrare, al The Landmark, lussuoso hotel in zona Merylebone, i dirigenti del Manchester City e il manager di Tevez per concludere – dopo un lungo e nient'affatto discreto corteggiamento - l'acquisto dell'attaccante argentino.

L'affare era stato architettato da Galliani in modo che, tra la cessione di Pato e l'arrivo di Tevez (prestito con obbligo di riscatto a 20 milioni), il Milan avrebbe (perfino) guadagnato 15 milioni. Una signora cifra, all'epoca, visto che i prezzi erano molto ma molto più bassi di oggi. Un vero affare, insomma, per la società rossonera, sia dal punto di vista del rafforzamento tecnico che da quello economico.

Fermi tutti - Il colpo di scena si materializza mentre Galliani è al tavolo con il manager di Tevez, il potente mediatore anglo-iraniano Kia Joorabchian, e i dirigenti del City per definire gli ultimi dettagli. All'ad rossonero arriva una telefonata di Silvio Berlusconi che gli annuncia la decisione – non trattabile - di tenersi Pato e rinunciare così a Tevez. A quel punto Galliani, pur devastato per l'occasione buttata al vento (pensate che coppia, Ibrahimovic con Tevez, classe e personalità ai massimi livelli), sarà costretto a fare i salti mortali per evitare di arrivare alla firme e riuscire in qualche modo a far saltare un'operazione praticamente chiusa.

Ma cos'era successo davvero? Il presidente Berlusconi l'aveva messa formalmente – anche nel comunicato ufficiale che blocca tutto, diffuso da Milan Channel alle 17 di quel giorno frenetico e indimenticabile – sul piano anagrafico e tecnico: meglio tenersi il 23enne Pato, che stava uscendo dal tunnel degli infortuni muscolari e magari sarebbe tornato quello dei primi tempi rossoneri, rispetto al 28enne Tevez, una scommessa per il calcio italiano.

In realtà la passione per l'attaccante brasiliano che fa saltare l'operazione non è solo quella del presidente del Milan, ma anche quella di sua figlia Barbara, all'epoca anche amministratore delegato (ramo commerciale) del club rossonero. La sua storia d'amore con Pato era nota, la distanza Milano-Parigi non sembrava tale da condizionarne il futuro, ci si poteva organizzare…Eppure Barbara voleva tenere accanto a sé l'amato e papà Silvio decise di accontentarla.

Il tifoso rossonero (e non solo), comprensibilmente legatissimo ai trionfi dell'era belusconiana, fa risalire a quel giorno – 12 gennaio 2012 – la fine del Grande Milan. Perché in quel momento la squadra di Allegri, che aveva vinto il campionato 2011, aveva 4 punti di vantaggio sui rivali della Juve. Con Carlitos Tevez in tandem d'attacco con Ibra, verosimilmente avrebbe conquistato anche quello scudetto, per il quale era favorito per le scommesse. E di conseguenza, grazie ai relativi incassi, non avrebbe dovuto vendere, nella stessa estate 2012, i due fuoriclasse Ibrahimovic e Thiago Silva (proprio al Psg, tra l'altro), due in grado di fare la differenza anche 8 anni dopo.

Insomma: ciò che poi è riuscito alla Juve, vincere ogni anno dominando campionati, lo avrebbe molto probabilmente fatto quel Milan. Con Tevez, Ibra, Thiago Silva in campo e Max Allegri in panchina. Guarda caso, sempre della serie “sliding doors”, la Juve acquistò lo stesso Tevez nell'estate 2013 e così rafforzò ulteriormente la propria leadership nel calcio italiano. Conclusione: le storie d'amore sono una meraviglia e vanno sempre rispettate, di sicuro quella tra Pato e Barbara Berlusconi – tra l'altro finita un anno e pochi mesi dopo, nella stessa estate 2013, quando l'attaccante si trasferì in Brasile...- ha cambiato la storia del calcio italiano degli ultimi 8 anni.
 

*La foto di apertura dell'articolo è di Antonio Calanni (AP Photo).

March 4, 2020
Giulio
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Giulio è nato giornalista sportivo, anche se di professione lo fa “solo” da 30 anni. Dal 1997 è l'esperto di calciomercato del quotidiano La Repubblica.

Dal '90 segue (senza annoiarsi mai) le vicende della Lazio: collabora anche con Radiosei e dirige il sito Sololalazio.it. Calcio e giornalismo sono le sue grandi passioni. L'unico rimpianto che lo tormenta è aver smesso di dare spettacolo sui campi di calcetto.

 

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I Derby di Manchester indimenticabili dell’era Premier League


Il derby di Manchester numero 182, considerando tutte le competizioni, si disputerà domenica 8 marzo all’Old Trafford. Il bilancio complessivo delle sfide vede lo United in vantaggio con 75 successi contro i 54 del City, mentre 52 sono stati i pareggi. Prendendo in considerazione, invece, solamente le sfide disputate in Premier League, dalla sua istituzione nel 1992, le vittorie dei Red Devils sono 22, mentre i Citizens sono usciti dal campo col bottino pieno 15 volte; in 8 occasioni le due formazioni si sono divisi equamente la posta in palio.

Sul blog italiano di 888sport riviviamo le memorabili stracittadine di Manchester, dalla nascita della Premier League a oggi.

Manchester City-Manchester United 2-3, 7 aprile 2018
Il risultato non fece altro che rinviare i festeggiamenti del City per il loro quinto titolo inglese: ma quella, mozzafiato, in programma nella quattordicesima giornata del girone di ritorno è stata senza dubbio una delle sfide che più hanno rappresentato a pieno lo spirito di un derby. Una partita decisa da difese che hanno fatto acqua, da decisioni arbitrali controverse e da una straordinaria rimonta dello United, guidata da un motivato Paul Pogba. 

Manchester United-Manchester City 1-1, 21 aprile 2001
Non un classico nel vero senso della parola, per il risultato e per il livello di calcio visto in campo, ma un derby che verrà sempre ricordato per il terribile intervento di Roy Keane su Alf-Inge Haaland: il padre della giovane stella del Borussia Dortmund, finì il match in campo, ma il suo ginocchio non guarì mai, costringendo il norvegese a concludere la sua carriera prematuramente.

Manchester United-Manchester City 1-2, 10 febbraio 2008
Un giorno memorabile per lo United, poiché entrambe le formazioni tributarono il loro omaggio nel cinquantesimo anniversario del disastro aereo di Monaco. I giocatori delle due squadre indossarono maglie commemorative in stile 1958. Nell’occasione fu il City a vincere la sfida, grazie alle reti di Darius Vassel e Benjani; ininfluente il gol di Michael Carrick nel recupero.

Manchester City-Manchester United 3-1, 9 novembre 2002
Il gran finale al Maine Road, l’ultimo derby disputato dai Citizens nella loro vecchia casa prima di trasferirsi all’Etihad. Il City non era ancora la superpotenza odierna del calcio mondiale e partiva sempre come sfavorito nel derby di Manchester. Nell’occasione, la squadra guidata da Kevin Keegan diede l’addio al suo vecchio stadio, superando lo United con un ottimo 3-1. Gary Neville ha in seguito riconosciuto quel derby come uno dei suoi momenti peggiori con la maglia dei Red Devils.

Scommetti sul derby di Manchester con le quote Premier League di 888sport.it!

Manchester City-Manchester United 4-1, 22 settembre 2013
Il suo primo derby di Manchester non andò certamente secondo i piani di David Moyes. Gli uomini di Manuel Pellegrini umiliarono senza pietà i propri rivali con un 4-1 che mise impietosamente di fronte all’ex tecnico dell’Everton tutte le difficoltà della sfida di prendere il posto sulla panchina dello United di un certo Sir Alex Ferguson. Moyes fu esonerato ad aprile e sostituito da Ryan Giggs, uno dei pupilli del suo predecessore.

Manchester United-Manchester City 2-1, 12 febbraio 2011
La rovesciata vincente di Wayne Rooney rimarrà a lungo nella storia del derby di Manchester. Un mix di audacia e classe, “un gol da leggenda”, come lo definì la Gazzetta dello Sport, decise la stracittadina numero 145, dopo le reti di Ryan Giggs e di Edin Dzeko. Per molti, uno dei gol più belli nella storia della stracittadina, con lo United che a fine stagione festeggiò il suo diciannovesimo titolo inglese.

Il meraviglioso gol di WR10!

Manchester United-Manchester City 1-6, 23 ottobre 2011
La più pesante sconfitta all’Old Trafford per lo United dal 1955 arrivò proprio per mano degli storici rivali cittadini! L’umiliante 6-1 subito tra le mura domestiche pesò ancora di più sulle spalle della squadra di Ferguson, poiché il City vinse il suo terzo titolo inglese, concludendo la stagione a pari punto con i concittadini, ma trionfando grazie agli 8 gol di vantaggio nella differenza reti.

Manchester United-Manchester City 4-3, 20 settembre 2009
Un derby intriso di drammaticità ai più alti livelli, con un climax di emozioni che trovò il suo apice nel gol vincente messo a segno nei minuti di recupero da Michael Owen. Il pareggio di Craig Bellamy per il City al novantesimo, dieci minuti dopo il vantaggio dello United messo a segno da Fletcher, sembrava aver risolto la partita, ma gli ospiti si dimenticarono di tenere in considerazione il “Fergie time”, con Owen che sei minuti dopo regalò il successo allo United.
 

*La foto di apertura dell'articolo è di Dave Thompson (AP Photo); la seconda di Jon Super (AP Photo).

 
March 3, 2020
Emanuele Giulianelli
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Scrittore e giornalista freelance, collabora regolarmente con il Corriere della Sera, con La Gazzetta dello Sport, con Extra Time, Rivista Undici, Guerin Sportivo e con varie testate internazionali come Four Four Two, Panenka e Tribal Football. Scrive per B-Magazine, la rivista ufficiale della Lega Serie B.


I suoi articoli di calcio internazionale e geopolitica sono stati pubblicati, tra gli altri, su FIFA Weekly, il magazine ufficiale della federazione internazionale, su The Guardian, The Independent e su Eurasianet. Ha lavorato come corrispondente sportivo dall’Italia per Reuters.


Ha pubblicato tre libri, l'ultimo dei quali, "Qarabag. La squadra senza città alla conquista dell'Europa" edito da Ultra Sport, è uscito nel 2018.
 

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Le finali di Coppa Uefa andata e ritorno!


Chi ha detto che la "finale secca" sia più emozionante di quella andata e ritorno. C'era un tempo in cui l'ultimo atto Coppa Uefa, oggi Europa League, era strutturato al meglio dei 180': 90' nello stadio di una contendente e i restanti 90' nella "tana" dell'altra. E' stato così fino alla stagione 1996-97: procedura inattuabile nel calcio di oggi in mano allo show business? Evidentemente sì, ma vi possiamo assicurare che, anche con le "regole classiche", ci si è divertiti.

Eccome. Allo stadio e incollati agli schermi delle tv. Per questo, abbiamo selezionato 3 tra le finali andate-ritorno più pazze della cara, vecchia Coppa Uefa. Meriteranno, naturalmente, un capitolo a parte, le imprese granate del 1992!

1980-81
Ipswich Town-AZ Alkmaar 3-0
AZ Alkmar-Ipswich Town 4-2

A Portman Road va in scena il primo atto di una finale tra due squadre che non sono mai state insignite nell'albo d'oro delle competizioni europee. Da una parte l'Ipswich Town di Bobby Robson, che in casa sono stati capaci di battere il temibile Widzew Łódź (peraltro "giustiziere" di Juventus e Manchester Utd) e il Saint-Étienne (che fino ai quarti aveva segnato la bellezza di 23 reti senza subirne); dall'altra l'AZ, squadra che andava particolarmente forte a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, allenata dal tecnico teutonico Georg Keßler.

E che in campionato ha viaggiato fortissimo, senza rivali, potendosi concentrare sulla Coppa UEFA. L'Ipswich Town, dal canto suo, durante quella cavalcata trionfale, aveva sempre vinto a Portman Road e anche la finale no fa eccezione: dominio assoluto dei padroni di casa che chiudono il match sul 3-0 con le reti di John Wark (su rigore), Frans Thijssen e Paul Mariner.

Al ritorno, per far fronte alla grande richiesta di biglietti, la finale si gioca ad Amsterdam - non ad Alkmaar - ed entrambe le squadre si affrontano a viso aperto riversandosi in attacco, come se il 3-0 dell'andata non ci fosse mai stato. Ad andare in vantaggio, nei primi minuti è però l'Ipswich ancora con Thijssen, peraltro olandese (come il compagno di squadra  Arnold Mühren) ex Twente, con uno spettacolare tiro al volo da fuori area sugli sviluppi di un corner; ma stavolta c'è la reazione dell'AZ e Kurt Welzl pareggia di testa dopo appena tre minuti.

John Metgod, ancora in elevazione (su assist dalla destra di Jan Peters) porta i padroni di casa in vantaggio, ma alla mezz'ora Wark - con una grandiosa girata - riacciuffa il pareggio. La partita è spettacolare e sul finire della prima frazione arriva il 3-2 firmato Pier Tol. Gli olandesi trovano anche la rete del 4-2 con Jonker (missile terra-aria sotto il sette da calcio di punizione), ma non basta per superare gli inglesi, che al triplice fischio si lasciano andare ai festeggiamenti più sfrenati, prima. Oggi, i Tractor Boys del Suffolk, si barcamenano in League One, in terza serie.

1986-87
IFK Göteborg-Dundee United 1-0
Dundee United-IFK Göteborg 1-1

Dite la verità: Ipswich Town AZ Alkmar, IFK Göteborg-Dundee United: oggi sarebbe ancora possibile assistere a finali così imprevedibili e curiose, anche per le scommesse Europa League? Purtroppo no: il cerchio europeo si è ristretto a quella decina (non di più) di squadre che staffettano per alzare la Champions o l'Europa League. Il divertimento delle coppe europee era anche conoscere nuove realtà.

Il match di andata della finale della 16esima edizione della Coppa Uefa va in scena a Göteborg tra i padroni di casa (fatali all'Inter nei quarti di finale), già campioni nel 1982, e - per l'appunto - il Dundee United, che si vuole aggiungere a Celtic, Rangers e Aberdeen tra le squadre scozzesi vincenti in Europa. Il primo match non regala troppe emozioni e, su un campo al limite della praticabilità (ma lo spettacolo di un tempo stava anche in questi particolari), termina 1-0 grazie al gol in elevazione di Stefan Pettersson nel primo tempo. 

Due settimane dopo (il 20 maggio 1987) a Dundee gli scozzesi, spinti dall'incessante e infuocato tifo del proprio pubblico compresso nel mitico Tannadice Park, attaccano all'arma bianca la difesa quadrata degli scandinavi (capitanata dal libero Glenn Hysén, passato poi alla Fiorentina e, successivamente, al Liverpool) anche con contrasti ai limiti della regolarità. Sono però gli svedesi a passare per primi in vantaggio con Lennart Nilsson intorno al ventesimo.

Nella ripresa Jim McLean sposta il difensore John Clark al centro dell'attacco e proprio quest'ultimo, con un potentissimo mancino dal limite dell'area, trova il gol del pareggio che però non evita la vittoria della seconda Coppa UEFA da parte degli Änglarna. Ma c'è di più: qualche tempo dopo il Dundee Utd riceve il primo "FIFA Fair Play Award" poiché i propri sostenitori sono andatia festeggiare insieme ai tifosi vincitori del Göteborg. Robe dell'altro calcio...

 

1987-88
Español-Bayer Leverkusen 3-0
Bayer Leverkusen-Español  3-0 (3-2 ai calci di rigore, d.t.s.)

E' la grande occasione persa dall'Espanyol per vincere una competizione internazionale. L'esempio più classico della dicotomia tra finale "secca" (in cui basta una serata storta o una di grazia per soccombere o trionfare) e "andata e ritorno", nelle quali anche a fronte delle difficoltà importanti, esiste comunque la possibilità di rimediare, di rimontare.

E' stato così nel confronto tra l'altra squadra dei Barcellona (che si chiamava ancora "Español" prima del cambio di ortografia di metà anni '90 per conformità all'orografia catalana) e Bayer Leverkusen, al termine della stagione 1987-88. I Periquitos di mister Javier Clemente, capitanati dal leggendario portiere Thomas N'Kono furono in grado di eliminare niente meno che Milan e Inter, tra le squadre incontrate nel proprio cammino, mentre i tedeschi di Erich Ribbeck furono i carnefici di Austria Vienna, Tolosa, Feyenoord, Barcellona (per l'appunto) e Werder Brema in semifinale.

Il primo atto fu nella mitica cornice del Sarriá, di front a 45mila spettatori: entrambe le squadre erano alla prima finale europea e diedero vita a uno spettacolo unico: la prima partita è molto corretta da ambo le parti e si sblocca solo sul finire del primo tempo con un colpo di testa di Sebastián Losada. Il secondo tempo si apre con la rete al quarto minuto di Miquel Soler, che sfrutta una situazione confusa in area e segna di piatto destro. Dieci minuti dopo, ancora Losada di testa per il 3-0 che sembra già consegnare virtualmente la coppa ai catalani. Non fu così, però. 

A Leverkusen, la squadra padrona di casa è chiamata all'impresa per ribaltare il pesante passivo. Il primo tempo termina a reti inviolate, ma il secondo vede una prestazione disastrosa dei Blanquiblaus, che subiscono tre reti in 25 minuti ad opera di Tita (brasiliano passato per Pescara), Falko Götz e l'attempato attaccante sudcoreano Cha Bum-Kun: il tabellone elettronico dell'"Ulrich-Haberland" fa comparire l'irrisoria scritta "Olé!". Si va ai supplementari e successivamente ai rigori, dove l'Español vede sfumare il sogno europeo a causa degli errori in sequenza dal dischetto di Santiago Urquiaga, Manuel Zúñiga e Losada.

*La foto di apertura dell'articolo è di Pfeil (AP Photo).

March 2, 2020
Stefano Fonsato
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Stefano collabora da anni come giornalista freelance per il portale web di Eurosport Italia, per il quotidiano La Stampa e con la casa editrice NuiNui per la quale è stato coautore dei libri "I 100 momenti magici del calcio" e "I 100 momenti magici delle Olimpiadi".

E' amante delle storie, dei reportage e del giornalismo documentaristico, ma il suo "pallino" resta, su tutti, il calcio d'Oltremanica.

 

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