Palacio, il Campione di tutti!

Tutti amano Rodrigo Palacio. Strano a dirsi, perché è quasi impossibile che un calciatore riesca a farsi apprezzare tanto dai propri tifosi quanto da quelli avversari. Eppure l’argentino classe 1982 è uno di quei personaggi del pallone che unisce, piuttosto che dividere. E a 38 anni da poco compiuti, l’eterno ragazzo di Bahia Blanca continua a fare quello che gli piace di più. Giocare e, già che c’è, segnare. 231 reti in quasi 650 partite nel momento in cui scriviamo!

Numeri importanti, che gli sono valsi l’amore dei supporter di tutte le squadre che lo hanno avuto in squadra. Che, nella carriera del Trenza, sono sei, più ovviamente la nazionale argentina.


I primi club in Argentina

La sua carriera inizia in Argentina, anche se Rodrigo in realtà nasce da padre…spagnolo. Josè Ramon, calciatore anche lui, si trasferisce con la famiglia in Sudamerica dopo la Guerra civile dalla Cantabria. E non per niente, Palacio senior è detto El Gallego. Rodrigo comincia a farsi notare nel 2002 con la maglia dell’Huracán de Tres Arroyos, a cui viene…prestato da Roberto Lorenzo Bottino, ex presidente del club che nota Palacio mentre gioca al Bahia Blanca e decide di comprare il suo cartellino.

Il suo impatto con la Primera Division è buono, con 15 reti in 53 partite. Prestazioni che gli valgono l’interesse anche di qualche squadra europea, come il Betis. Con la squadra andalusa sembra tutto fatto nel gennaio 2004, ma quando gli spagnoli decidono che il calciatore avrebbe comunque dovuto giocare fino a giugno in Argentina, il Trenta sceglie di non firmare.

Lascia comunque l’Huracan e decide di accasarsi al Banfield, dove gioca appena un anno, abbastanza per mettere a referto 9 reti in 36 partite e per farsi notare dal Boca Juniors. Quello tra Palacio e gli Xeneizes è un matrimonio pressoché perfetto. In quattro anni e mezzo per il classe 1982 arrivano la consacrazione a livello nazionale e internazionale, con le prime convocazioni nell’Albiceleste e anche tanti trofei.

Con la maglia gialloblù Palacio vince tre volte il campionato (Apertura 2005, Clausura 2006 e Apertura 2008), la Copa Sudamericana, la Libertadores e per ben tre volte la Supercoppa continentale. Cominciano a conoscerlo anche in Italia, visto che nella finale del Mondiale per Club del 2007 segna il momentaneo 1-1 del Boca contro il Milan, che comunque vincerà la partita per 4-2. Dopo 82 reti in 185 partite, però, è davvero l’ora di attraversare l’Atlantico.


L'avventura italiana

A dargli fiducia è il Genoa, che ha appena ceduto Diego Milito all’Inter. Non far rimpiangere il connazionale sotto la Lanterna non è per nulla semplice, ma Palacio ci riesce eccome. Arriva per 5 milioni e se ne andrà per il doppio, non prima di imporsi come uno dei calciatori più costanti e corretti del campionato di Serie A. Con la maglia rossoblù arrivano 38 gol in 100 presenze, più della metà dei quali segnati nella stagione 2011/12. Quell’anno Il Trenza sfiora quota 20 in campionato, fermandosi a 19, ma ci aggiunge anche due reti in altrettante partite di Coppa Italia.

Palacio in gol!

E, seguendo di nuovo le orme di Milito, nell’estate 2012 approda all’Inter.


In coppia con il Principe o con accanto Cassano, Palacio si trasforma in goleador. Nelle prime due stagioni in nerazzurro è il miglior marcatore della squadra, prima con 22 reti e poi con 17. Poi l’Inter acquista Icardi e con in campo Maurito, uno che vede la porta e…solo quella, Palacio deve riconvertirsi a quello che era all’inizio della carriera: una mezzapunta con il dono dell’assist.

Missione compiuta, perché i gol cominciano a scarseggiare, ma l’importanza nello scacchiere nerazzurro diminuisce solo nella quinta e ultima stagione a San Siro. Il Trenza lascia l’Inter dopo 159 partite e 58 gol.


Altro che svernare

L’arrivo al Bologna, nel 2017 a 35 anni sembra solamente il canto del cigno di una carriera importante, che lo ha visto anche giocare parte della sfortunata finale mondiale del 2014. Ma nessuno ha fatto i conti con Palacio, che di smettere di giocare e di segnare non ha alcuna intenzione. Quella 2019/20 è la sua terza stagione a Bologna e, anche se i gol ormai sono merce abbastanza rara, Mihajlovic non rinuncia mai all’argentino e alla sua visione di gioco che rende il club felsineo una squadra davvero complicata da affrontare, anche per le quote delle scommesse calcio.

Palacio aiuta serve assist a ripetizione per gli inserimenti da sinistra di Musa Barrow, ma è  anche molto di più.

È un modello per i più giovani. Illuminante, da questo punto di vista, il parere di Dijks, che neanche un mese fa, intervistato su un canale Youtube, non può che lodare lo spirito del suo compagno di squadra. “È una persona incredibile. Onestamente lo stimo tanto. Ha 37 anni ma si tiene così in forma, è davvero forte. È grande ed è rimasto così normale, così autentico. Viene agli allenamenti in tuta, guida l'auto aziendale del club nonostante sia un multi-milionario. È così tranquillo, rilassato, coi piedi per terra. Ha 37 anni ma dà sempre il 100% in ogni allenamento. Ho grande rispetto per lui”.

 

Ecco ben spiegato perché compagni e avversari, tifosi delle sue squadre e neutrali, non hanno mai avuto altro che parole di stima per Rodrigo Palacio. Uno così, nel calcio moderno, non si trova poi tanto facilmente. Tra secondo tempo e supplementari, gioca 45' nella finale del Maraca contro la Germania: qualche centimetro in più e non si sarebbe parlato di campione, ma di leggenda!

*La foto dell'articolo è di Antonio Calanni (AP Photo). Prima pubblicazione 12 marzo 2020.

December 18, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Il Colo Colo: El Popular cileno!

32 campionati cileni, più del Bayern Monaco in Germania. 12 coppe del Cile, tante quante il Manchester United in Inghilterra. E soprattutto una Copa Libertadores, quella vinta nel 1991, l’unica mai portata a casa da una squadra dell’immenso paese abbracciato dalle Ande e dall’Oceano Pacifico.

Il Club Social y Deportivo Colo-Colo, per tutti semplicemente Colo-Colo, è detto Eterno Campeón e visto il palmares non c’è neanche troppo da chiedersi perchè. In 95 anni di storia (il club è stato fondato nel 1925), il club di Macul, sobborgo di Santiago, ha praticamente vinto più di un campionato su tre di quelli disputati, anche considerando che la prima edizione della Primera Division è del 1933. E, neanche a dirlo, i bianconeri sono gli unici che hanno disputato tutte le edizioni del massimo campionato, senza mai saltarne neanche uno.


Un nome, quello del Colo-Colo, storico del calcio mondiale e che affonda le sue radici nella storia del Sudamerica. Colocolo era un capo Mapuche, il leader dell’esercito che si oppose alla conquista spagnola del Cile negli anni cinquanta del Cinquecento. Uno dei pochi che, nel momento di maggior splendore dell’Imperio Español, sia riuscito a sconfiggere i Conquistadores nella Battaglia di Tucapel nel 1553.

Un simbolo di identità, dunque, così come la squadra stessa, che spesso e volentieri si è ritrovata a essere l’unica in grado di rappresentare ad altissimi livelli la scuola calcistica cilena. E persino i rivali storici, il Club Universidad de Chile, con cui il Colo-Colo gioca il Clasico della Primera Division, non possono che arrendersi all’evidenza: El Colo è la squadra più celebre del Paese, oltre che essere la più vincente!


Le serate di Libertadores - Inserito nell'edizione 2020, in un girone davvero equilibrato per le scommesse online, il momento di maggior splendore del club sono certamente i quasi trent’anni che vanno dal titolo vinto nel 1970 a quello del 1998. Nel mezzo, due finale di Copa Libertadores. La prima, quella del 1973, è a suo modo storica. Nell’anno che segnerà indelebilmente il Cile, il Colo-Colo si arrampica fino alla finalissima contro gli argentini dell’Independiente. I 180 minuti della doppia finale non risolvono nulla. I cileni strappano l’1-1 ad Avellaneda, ma anche all’Estadio Nacional il ritorno finisce in parità, sullo 0-0. I gol fuori casa non valgono e quindi bisogna giocare uno spareggio.

Campo neutro, Montevideo, 6 giugno. Anche stavolta novanta minuti non bastano, ne servono 120 agli argentini per vincere 2-1 e laurearsi campioni del Sudamerica. E non servono a nulla i 9 gol nella competizione di Carlos Caszely, l’attaccante della nazionale che aveva pareggiato il momentaneo vantaggio dell’Independiente.


Va meglio, molto meglio, nel 1991. Il Colo-Colo passa comodamente il primo gruppo contro Liga de Quito, i connazionali del Deportes Concepcion e gli ecuadoriani del Barcelona. Agli ottavi la doppia sfida è con l’Universitario Lima, poi ai quarti c’è il Nacional Montevideo con in campo Del Valdes, che poi giocherà a Cagliari, e in panchina un certo Alfio Basile. Il 4-0 dell’andata lascia poco spazio all’immaginazione e agli uruguaiani non basta vincere 2-0 al ritorno.

In semifinale la squadra dello jugoslavo Mirko Jozić trova di fronte a sé un avversario che dire scomodo è poco: il Boca Juniors di Batistuta. Alla Bombonera gli argentini vincono 1-0, ma a Santiago è tutta un’altra storia: 3-1 ed è finalissima. All’ultimo atto c’è l’Olimpia Asuncion e il pareggio in Paraguay fa presagire un ritorno complicato. E invece arriva un netto 3-0 che regala la Libertadores, nel bel mezzo di un ciclo che porta 13 titoli nazionali in 28 anni, oltre alla Supercoppa sudamericana, vinta ai rigori contro il Cruzeiro. Manca solo l’Intercontinentale, ma a Tokyo la Stella Rossa è troppo forte e schianta i cileni per 3-0.


I talenti lanciati nel grande calcio - Nel corso degli anni, il Colo-Colo ha lanciato parecchi giocatori diventati poi delle stelle. A partire da Carlos Caszely, vera e propria leggenda del club. Il centravanti è nato nelle giovanili del club e, se si escludono un paio di anni in Spagna, ha dedicato tutta la carriera ai bianconeri. Caszely è celebre anche per la sua opposizione a Pinochet, non stringendo la mano al dittatore quando la Roja lo va a salutare prima del mondiale 1974.

E quando nel 1988 si tiene il referendum per tornare alla democrazia, il fatto che Caszely si schieri per il “no” a Pinochet ha parecchio peso nei risultati. A capitanare il Cile a quella Coppa del Mondo c’è Francisco Valdes, altro idolo dei tifosi, che disputa oltre trecento partite con il Colo-Colo, segnando quasi duecento gol.

Più di recente, il club ha lanciato due vecchie conoscenze della Serie A. Il primo è Mati Fernandez, che è cresciuto nelle giovanili del Colo-Colo e ci gioca tuttora, dopo cinque anni in Italia tra Fiorentina e Milan. E poi c’è Arturo Vidal, che viene acquistato giovanissimo e a cui bastano due anni per fare il grande salto verso l’Europa, con la maglia del Bayer Leverkusen, per poi finire alla Juventus.


Il pubblico - La aficion del Colo-Colo, come tutte quelle sudamericane, è molto calda. Forse anche un po’ troppo, come accade in occasione dei derby con l’Universidad de Chile. Nel corso dei decenni si sono susseguiti diversi gruppi a capo del tifo bianconero. Il primo a prendersi la ribalta, negli Anni Sessanta, è stato la Barra Maraton, seguito dalla Barra Juvenil. Negli anni Ottanta il gruppo ufficiale si chiamava ¿Quién es Chile?, prima di dividersi nel 1986 e dare vita all’attuale gruppo leader, la Garra Blanca.

L’Estadio Monumental David Arellano è quasi sempre pieno fino all’inverosimile, giustificando il soprannome di “El Popular” dato al club bianconero. Diversi sondaggi in tutto il paese segnalano inoltre che il Colo-Colo è la squadra più seguita di tutto il Cile, con percentuali che oscillano tra il 30% e il 50%. Dunque, prima squadra del Paese per titoli e per tifosi. Comprensibile perciò che Colo-Colo da quelle parti… significhi “Campione”!

La foto di apertura dell'articolo è di Juan Karita (AP Photo).

March 12, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

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L'approccio dei tecnici stranieri nelle giovanili!

L’Ascoli, dopo Paolo Zanetti esonera anche Stellone. Dopo un breve impegno ad interim a fine gennaio 2020, sulla panchina dei marchigiani ci finisce nuovamente l’allenatore della Primavera. Fin qui, nulla di strano, se non fosse che il nome del tecnico ad interim suggerisce una situazione perlomeno particolare. Guillermo Abascal Perez, nato a Siviglia nel 1989. Uno straniero, l’unico del campionato di Serie B, ma le particolarità della sua storia non si fermano qui.

Che occasione per il tecnico spagnolo - Abascal è anche l’unico allenatore straniero di un altro campionato, quello Primavera 2. Anzi, a ben vedere, anche del campionato Primavera in generale, perché anche nessuna delle squadre che fanno parte della divisione superiore ha un tecnico che non sia italiano. L’Ascoli ha invece deciso di affidare i suoi ragazzi proprio allo spagnolo, con un passato da calciatore nelle giovanili del Barcellona, assieme a Jordi Alba e Iago Falque.

Appesi gli scarpini al chiodo a soli 22 anni, Abascal ha lavorato come tecnico delle giovanili del Siviglia di Monchi per poi provare l’esperienza di una panchina vera in Svizzera, prima al Chiasso e poi al Lugano. Una scelta che tra l’altro sta pagando assai bene, visto che i bianconeri sono in fuga nel girone B della Primavera 2.


La sua filosofia, oltre a ottenere risultati concreti, ha anche affascinato parecchi, al punto che AS gli ha dedicato un reportage, intitolato “Guillermo Abascal, lo spagnolo che rivoluziona l’Italia con un calcio totale”. I meriti del classe 1989 non sono infatti trascurabili. L’Ascoli ha la rosa più giovane del campionato, avendo ben 8 calciatori nati nel 2003, ha una media di possesso palla del 75%, è primo per i gol fatti ha la seconda miglior difesa. E persino il tecnico della Nazionale Under-19 Bollini ha voluto dare un’occhiata ai suoi metodi.

Il modello di Abascal, neanche a dirlo, è Guardiola, e il suo motto è tanto impegnativo, quanto affascinante: “il calcio deve divertire lo spettatore, l’allenatore e soprattutto colui che lo pratica, il giocatore”. Aspettiamo con curiosità se questo cambio rilancerà le ambizioni dell'Ascoli e modificherà i numeri delle quote delle scommesse online calcistiche!


Una storia unica, quella di Abascal, o quasi. Nonostante le formazioni giovanili siano praticamente quasi sempre assegnate a tecnici tricolori, lo spagnolo ha qualche collega sparso nelle squadre di A. Stranieri che guidano i giovanissimi dei vivai nei campionati di categoria. L’esempio più celebre è certamente quello di uno straniero…di casa nostra: Christian Chivu, che allena l’Under-17 dell’Inter.

Il difensore rumeno, dopo una vita calcistica passata a lavorare con Capello, Mancini e Mourinho, ha deciso di provare l’esperienza dall’altra parte della barricata e di far fruttare gli insegnamenti dei suoi maestri. E sta facendo anche abbastanza bene, considerando che la sua squadra è seconda nel girone B, dietro lo schiacciasassi Atalanta.


Il nuovo Terim - Scendendo di età, Abascal ha anche un collega meno noto ma a cui molti pronosticano un futuro tra i grandi. È il caso del turco Tugberk Tanrivermis, che guida la Roma Under-15, con cui già lo scorso anno ha vinto Scudetto e Supercoppa. Uno che a 29 aveva già la licenza UEFA Pro e che ha lavorato con le giovanili del Galatasaray, vincendo il titolo anche con l’Under-14 del club di Istanbul.

Tanrivermis parla cinque lingue, è laureato e in Turchia ha avuto modo di lavorare anche con Cesare Prandelli, quando l’ex CT della Nazionale era l’allenatore dei giallorossi, e con Igor Tudor. E se il buongiorno si vede dal mattino, il nuovo Terim potrebbe essere attualmente a Trigoria…


Con ragazzi ancora più giovani lavora invece Juan Solivellas Vidal, spagnolo anche lui come Abascal, che lo scorso anno allenava l’Under-13 del Bologna e che ora è alla guida dell’Under-14 del club emiliano. Figlio d’arte, è in Italia dal 2011 e ha lavorato in diverse società, in particolare venete, prima di approdare al Dall’Ara.

Tra le altre cose, pubblica ebook sul calcio in cui si diverte a diffondere i principi del futbol di casa sua. Anche nel suo caso, i risultati non mancano, visto che la sua squadra è capolista del suo campionato e vanta di una differenza reti abnorme in un girone a 13 squadre comunque professioniste!

*La foto di apertura dell'articolo è di Kerstin Joensson (AP Photo).

 
March 11, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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I veri ambidestri nel calcio!

Destro o sinistro, che differenza fa? Nel calcio molta, soprattutto considerando che quasi tutti i calciatori hanno un piede preferito. C’è chi con il piede debole non calcia praticamente mai, chi di tanto in tanto ci prova e chi invece riesce ad ottenere buoni risultati con entrambi. Esistono dunque giocatori veramente ambidestri? Sì, almeno a giudicare da alcuni esempi, recenti e non, di calciatori che non si creano problemi ad utilizzare molto spesso il piede con cui, in pura teoria, colpiscono peggio il pallone.. 


Il re degli ambidestri dei grandi campionati europei gioca in Italia e più precisamente indossa la maglia del Torino.

  • Un record clamoroso
  • Profili di alto livello
  • Il primato di Brehme

Non che sia quello con il valore più alto tra quelli considerati ambidestri da Transfermarkt, ma Simone Verdi ha…un record certificato. Quello di aver segnato, nella stessa partita, due punizioni, tirate con un piede diverso.

Un record clamoroso

Il capolavoro del classe 1992 arriva nel novembre 2017, quando ancora giocava con il Bologna. Due reti da calcio piazzato al povero Crotone, che prima viene infilato con il sinistro e poi con il destro. Un evento quasi unico nei cinque campionati più importanti, se si esclude la giornata di grazia di Marcial Pina, calciatore dell’Atletico Madrid, che nel 1978 punisce con entrambi i piedi il Barcellona al Camp Nou.

Chi ci è andato vicino è l’ex laziale Hernanes. Il Profeta non si è mai fatto troppi problemi a utilizzare sia il destro che il sinistro e, seppure in partite diverse, anche lui è riuscito a segnare in Serie A su punizione con entrambi i piedi, contro l’Inter e contro l’Atalanta.


Ancora non ha trovato la porta su punizione (calciando con il destro) con la maglia dell’Inter, ma Christian Eriksen è uno di quelli per cui fa davvero poca differenza il piede su cui capita il pallone. Non per nulla il danese, il cui piede forte in teoria è il destro, ha segnato con quello il suo unico gol con la maglia nerazzurra e due dei tre realizzati quando era ancora al Tottenham, ma ha lasciato il segno nel derby contro l’Arsenal con il sinistro. 


E forse, con Eriksen in rosa, all’Inter non dovranno rimpiangere Ivan Perisic. Il croato, nella sua esperienza in nerazzurro, è stato certamente discontinuo, ma su qualcosa ha mantenuto una costanza invidiabile: destro e sinistro non fanno differenza e l’ex esterno della squadra milanese ha saputo far male con entrambi. Poi al Bayern Monaco, tra le favorite per la Champions per i siti di scommesse quando è stato chiamato in causa, si è preso sulle spalle la pesante eredità di Robben, uno che invece al massimo con il destro ci scende la mattina dal letto.

Perisic segna di destro il rigore!

Ma nella rosa nerazzurra, resta comunque un croato ambidestro: Brozovic non è uno che si fa problemi a calciare verso la porta, ed anche gli assist al bacio il centrocampista di Conte sa servirli con entrambi i piedi…

Profili di alto livello

Ma guardando la classifica dei valori stilata da Transfermarkt, chi sono gli ambidestri di maggior valore al mondo? Appaiati in vetta alla lista ci sono Eden Hazard e Paul Pogba, i cui piedi valgono…50 milioni ciascuno. Entrambi preferiscono utilizzare il destro quando calciano da fermo, ma non si fanno certo pregare a usare l’altro piede. Non per nulla il gol nella finale mondiale contro la Croazia il francese lo fa di sinistro, così come Hazard lo utilizza per mettere a segno la rete del definitivo 4-1 nella finale di Europa League.

L’unica differenza tra i due? I calci di rigore. Entrambi li tirano con il destro, ma mentre Hazard difficilmente non va a segno, Pogba di recente ha avuto diversi problemi al riguardo.

Zielinski calcia di destro!

Dunque, quando si parla di calci da fermo, c’è quasi sempre un piede preferito. Ma non è detto che non si possa cambiare con frequenza, come dimostrano i casi di Verdi ed Hernanes e, per chi ha qualche anno in più... Oberdan Biagioni! E c’è anche chi in carriera sembra non aver fatto altro che girare da una bandierina all’altra per battere i calci d’angolo. Il fortunato  è Santi Cazorla, che ha un destro e un sinistro così delicati che sia al Villarreal che all’Arsenal toccava sempre a lui gettare il pallone in mezzo dalla lunetta del corner.

Il polacco calcia anche di sinistro!

Il primato di Brehme

E poi c’è chi ha un primato strano. Due rigori segnati ai mondiali, uno per piede. L’ex interista Andreas Brehme mette la sua firma sulla vittoria della Germania a Messico ’86 contro i padroni di casa. La Mannschaft passa ai quarti ai calci di rigore e il terzino tira il suo di sinistro, il suo piede. Ma quando nel 1990 gli tocca calciare quello che alla fine darà il mondiale ai suoi, Brehme sa di avere davanti Goycochea, uno che i tiratori avversari se li studia. E quindi calcia e segna… di destro!

Brehme però rappresenta un po’ una rarità quando si parla di calciatori ambidestri. Solitamente, chi è mancino usa il sinistro e basta, come dimostrano i casi di Maradona o Salah. E persino Messi, se può, calcia quasi sempre con il suo piede forte. Dunque, molto più comune che a calciare sia di destro che di sinistro siano i destri naturali. Alla faccia di chi considera i mancini molto più imprevedibili!

L'esultanza di Brehme a Roma!

*Le immagini dell'articolo sono distribuite da AP Photo. Prima pubblicazione 10 marzo 2020.

October 21, 2021
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

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Risultatisti contro Giochisti! Parte 1

Divide, appassiona, fa discutere. In tempi di campionato sospeso, la diatriba tra “giochisti” e “risultatisti” è uno degli argomenti più dibattuti del momento, uno di quelli che più infiammano i salotti televisivi, i commenti degli appassionati, l’opinione pubblica del pallone.

Chi ha ragione? L’allenatore che si adatta ai propri giocatori, alle loro caratteristiche tecniche, quello che privilegia la sostanza alla forma e che non si fossilizza sul bel gioco o il tecnico che invece pretende che al risultato si concili l’estetica, una produzione fatta di idee, di armonia, di bellezza, di ricerca di spazi, di voglia di proporre e non solo di speculare.

Filosofie contrapposte, modi di intendere il calcio diversi e agli antipodi. Linee di condotta che hanno avuto negli anni interpreti di spicco, vere e proprie leggende che hanno fatto dell’una o dell’altra via quella prediletta. Invece di scrivere di Guardiola ed Allegri, il blog di 888sport fa un salto nel passato!

Da una parte visionari come Rinus Michels, Arrigo Sacchi, Johan Cruijff e dall’altra totem come Giovanni Trapattoni e Fabio Capello. Palmares da fare invidia su entrambi i fronti: campionati e coppe nazionali, Coppe dei Campioni o Champions League, vittorie con le squadre nazionali; ma modi diversi di raggiungere l’obiettivo. Alla faccia di chi sostiene che il calcio sia un gioco semplice. Forse lo è davvero, ma dipende dalla prospettiva da cui si guarda al gioco. 

SACCHI VS TRAP - Figlio del calcio totale di Michels è senza dubbio Arrigo Sacchi che Gianni Brera, dopo i primi mesi difficili e poveri di risultati sulla panchina del Milan, definì un “apostolo soggiogato da visioni celesti”. Se Michels era stato la rivoluzione, i “giochisti” avevano poi dovuto subire un’epoca reazionaria, di ritorno di idee considerate da loro vecchie, antiquate. In Italia dominava la cosiddetta “zona mista” che aveva assorbito alcuni concetti arrivati dall’Olanda, ma che li aveva poi riadattati alla mentalità nostrana ottenendo tra l’altro grandi risultati.

La Juve di Trapattoni vince, convince, domina e fornisce alla nazionale il blocco principale e poi c’è Platini a illuminare la scena. Sacchi arriva al Milan nell’estate del 1987, la scia vincente della Juve ha segnato l’ultimo decennio del calcio italiano. I bianconeri, con Trapattoni alla guida, hanno vinto sei scudetti, due Coppe Italia, una Coppa dei Campioni, una Coppa Intercontinentale, una Coppa delle Coppe, una Coppa UEFA tra le altre. Il Trap ha lasciato Torino ed è approdato sulla sponda nerazzurra dei Navigli nel 1986. Ma i concetti non cambiano.

La Juve giocava di base con il 4-4-2 che però può diventare 4-3-3, 4-4-1-1 o un 3-5-2 in base all’avversario e ai momenti della partita. La difesa è a quattro, ma applica una zona mista con un libero capace di impostare, un marcatore puro e due terzini con caratteristiche diverse: uno con grandi capacità di spinta e un altro invece in grado di scalare e diventare il terzo centrale quando il collega era in proiezione offensiva. In mezzo al campo c’era il classico mediano e un 10 capace di dare estro alla manovra.

Il Trap è stato spesso accusato di essere un “catenacciaro”, un allenatore la cui priorità è difendere. Non è così, o meglio se analizziamo le sue Juventus sono tanti i giocatori offensivi messi in campo: la squadra che giocò la tragica finale di Bruxelles del 1985, aveva Platini, Rossi, Boniek, Briaschi, un terzino di spinta come Cabrini e una mezzala come Tardelli che amava inserirsi. Trapattoni non è un allenatore antico, ma un pragmatico, sa leggere le situazioni che la partita gli presenta, sa adattarsi alle necessità e ai momenti del gioco.

No all’aggressione alta e costante, ma sì a un possesso palla che possa rallentare i ritmi in caso di risultato favorevole. Camaleontica la Juve del Trap, in grado anche di abbassarsi molto e guadagnare campo alle spalle delle linee avversarie da attaccare in contropiede. Concetti che ai “giochisti” però sanno di vecchio, di passato, di reazione da spazzare via con una seconda rivoluzione. Quella sacchiana. La zona non è più mista, ma tutti devono essere coinvolti nell’azione offensiva e difensiva.

Sacchi detesta gli attaccanti che restano fermi in fase di non possesso, che diventano passivi una volta persa palla, il loro compito è schermare l’inizio azione avversaria e permette alla squadra di alzarsi. La pressione è fondamentale nel calcio di Sacchi, quella che lui chiama difesa attiva, che fa sì che la squadra sia padrona del gioco sempre, anche quando la palla ce l’hanno gli altri “perché li costringe a giocare a ritmi a cui non sono abituati”. Nel Milan di Sacchi i terzini posso spingere entrambi e in contemporanea, cosa che invece nel sistema di Trapattoni non accadeva e si attacca con minimo cinque giocatori.

Il 4-4-2 è solo di partenza perché poi i numeri vengono lasciati da parte, si ragiona di squadra, in movimento, con 5-7 elementi che in fase di transizione offensiva vanno sopra palla. Il centrocampo non è mai in linea, ma si trasforma in un rombo in cui il vertice basso ha il compito di agevolare la circolazione del pallone. No a un calcio speculativo, ma propositivo. Sempre. Il mantra sacchiano è chiaro. La squadra non deve mai subire, ma imporre, deve rimanere corta e stretta e tramite la trappola del fuorigioco cancella campo a disposizione degli avversari.

All’epoca se un giocatore era oltre l’ultimo difensore, anche se in posizione oggi passiva, veniva considerato in offside. Così la linea difensiva del Milan si muoveva guardando la palla e non gli uomini, aspettando l’attimo giusto per salire e lasciare gli avversari in zona proibita. Anche il contropiede, arma preferita dei difensivisti, viene riletto in modo razionale, armonioso, da Sacchi. La ripartenza va accompagnata da diversi uomini, bisogna muoversi in modo da aprire spazi. Addio alla fuga solitaria di un solo uomo.

La rivoluzione è compiuta. Sacchi parte con fatica con alcuni risultati che avrebbero decisamente fatto saltare il banco delle scommesse Serie A, ma poi impone il suo calcio, cambiando definitivamente lo sport più amato. Vince due volte la Coppa dei Campioni, due Intercontinentali, uno Scudetto e due Supercoppe Europee. Prima di passare la mano...

*La foto di apertura dell'articolo è di Luca Bruno (AP Photo).
 

March 10, 2020
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The 888sport blog, based at 888 Towers in the heart of London, employs an army of betting and tipping experts for your daily punting pleasure, as well as an irreverent, and occasionally opinionated, look at the absolute madness that is the world of sport.

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La figura del Direttore Sportivo in Italia ed in Europa!

Esiste un mestiere che l'appassionato di calcio invidia perfino più di quello di allenatore: il direttore sportivo. Scegliere giocatori, (tentare di) comprarli, cederli, costruire squadre: il sogno di ogni innamorato del pallone. E' il lavoro di questi dirigenti che con il passare degli anni hanno acquisito sempre più importanza e potere.

Adesso sono figure irrinunciabili per il calcio: si sta adeguando anche la Premier, che ne faceva a meno perché era l'allenatore a occuparsi in prima persona del mercato. L'Italia invece ne sforna tanti all'anno, quelli che superano l'esame apposito alla fine del corso organizzato dalla Figc ed entrano nel relativo albo. Magari poi faticano a trovare lavoro, ma questa è un'altra storia.

Di sicuro la figura con il tempo è cambiata: una volta il direttore sportivo era un vecchio volpone cresciuto con il sogno - e l'ansia - di diventare Luciano Moggi, per decenni riferimento della categoria prima che Calciopoli lo travolgesse. Adesso invece il ds è un piccolo manager che, oltre al calcio in ogni dettaglio, conosce le lingue e il diritto commerciale, le esigenze del bilancio e quelle dei calciatori.

Il ruolo odierno - Già, perché una volta il ds si occupava solo di mercato. Ora è un dirigente a tutto tondo, di solito chiamato a fare da raccordo tra società e squadra. I suoi poteri sono aumentati a dismisura, tanto che spesso tocca agli allenatori porre loro dei limiti: si è visto con l'episodio avvenuto nell'intervallo di Sassuolo-Roma, con il tecnico giallorosso Fonseca che ha “invitato” a uscire dallo spogliatoio il ds Petrachi, furioso per il pessimo primo tempo dei suoi.

D'altronde il direttore sportivo è sempre più coinvolto nella gestione della squadra, giorno per giorno: un lavoro che va in parallelo con quello più specifico di cercare giocatori funzionali alla rosa che verrà. Per questo dirige riunioni con il capo scout, che dipende direttamente da lui e a sua volta è chiamato a organizzare il lavoro degli osservatori. Il feeling tra direttore sportivo e capo scout dev'essere totale: il secondo propone profili che poi il ds deve valutare, decidendo – ascoltato anche il parere dell'allenatore - se iniziare una trattativa o no.

L'iter - Il percorso che porta all'acquisto di un giocatore di solito funziona così: l'allenatore comunica al ds le proprie esigenze, indicando un calciatore specifico per un certo ruolo o le caratteristiche che deve – dovrebbe – avere. Il ds gira le indicazioni al capo scout che sguinzaglia gli osservatori in giro per il mondo: ricevute le relazioni da loro sui vari calciatori visionati, il capo scout propone al ds tre profili per ogni ruolo, in pratica un piano A (per qualità, adattabilità alla squadra e soprattutto prezzo), un piano B e un piano C.

Da questo punto in poi parte il lavoro del ds, di concerto con l'amministratore delegato e/o il presidente, per indirizzarsi sul calciatore prescelto. Se fallisce l'assalto al "piano A" si va al "piano B" e così via.

I riconoscimenti - Il premio (Globe Soccer Awards) come miglior direttore sportivo d'Europa del 2019 è stato vinto da Andrea Berta, ds dell'Atletico Madrid. Un riconoscimento che nasce dal colpo Joao Felix, giovane portoghese considerato un fenomeno da (quasi) tutti gli addetti ai lavori. È anche vero che quando hai 120 milioni da spendere su un giocatore, non è così difficile centrare l'obiettivo.

Non a caso, tra i candidati al premio (con Overmars dell'Ajax e Abidal del Barcellona) c'era Igli Tare della Lazio, che invece ha fatto spendere al suo club “solo” 87,1 milioni per costruire l'intera formazione titolare dei biancocelesti, capaci di lottare per lo scudetto con la ricchissima Juve (basti pensare che Cristiano Ronaldo è stato pagato 100 milioni).

Insomma la Lazio è costata come all'Inter il solo Lukaku. Da qui gli elogi a Tare, che per scoprire e comprare i giocatori da Lazio si affida alla rete di rapporti in giro per l'Europa: il fatto di parlare sei lingue sicuramente lo favorisce. In Italia, come miglior ds, gli è stato preferito Giovanni Sartori, autore di quel capolavoro atalantino che ha travolto anche le scommesse sportive online: grazie al mercato, più che al settore giovanile, i bergamaschi l'anno scorso sono arrivati in finale di Coppa Italia e si sono qualificati per la Champions League.

Entrambi, Tare e Sartori, sono ex calciatori professionisti, come Petrachi e tanti altri che poi hanno intrapreso la carriera di direttore sportivo. Molti invece non hanno un passato in Serie A ma sono sono diventati abili ds, come Fabio Paratici.

Al di là dei premi, il più bravo di tutti per anni è stato considerato proprio lui, il 47enne Paratici, l'uomo che con Beppe Marotta (fino al divorzio del settembre 2018) ha costruito la serie incredibile di scudetti bianconeri, portando nel club torinese fuoriclasse assoluti come Pirlo, Tevez, Pogba, Dybala e così via. Fino a Cristiano Ronaldo. Il “fiuto” di Paratici per il talento da Juve – meglio se a parametro zero - è proverbiale nel mondo del calcio. Di sicuro poter contare sulle risorse economiche della società bianconera aiuta, ma è anche vero che non è facile ogni anno costruire una formazione super competitiva e Paratici finora ci è sempre riuscito.

Non si può dire lo stesso per Ausilio, o per Monchi (a Roma ha fallito dopo aver vinto tanto nel Siviglia), o per Giuntoli, tanto per indicare direttori sportivi molto stimati. Come l'esperto Pier Paolo Marino, ora all'Udinese. Tra i più bravi di sempre c'è Ariedo Braida, l'uomo che consigliò al Grande Milan di Berlusconi di acquistare un certo Shevchenko: la sua relazione super positiva sull'ucraino, visionato in un Barcellona-Dinamo Kiev al Camp Nou, è ancora gelosamente custodita nel museo di Casa Milan come prezioso cimelio, nonché testimonianza di competenza.

Molti ds, poi, meritano un elogio particolare per la capacità di gestire le paturnie di presidenti vulcanici: è il caso, per esempio, di Tare con Lotito, di Giuntoli con De Laurentiis, di Osti con Ferrero, di Marroccu (e prima di lui Capozucca) con Preziosi. D'altronde nel repertorio del direttore sportivo, tra le doti principali, ci dev'essere la pazienza. Ma tanta.

*L'immagine di apertura dell'articolo è di Manu Fernandez (AP Photo).

March 10, 2020
Giulio
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Giulio è nato giornalista sportivo, anche se di professione lo fa “solo” da 30 anni. Dal 1997 è l'esperto di calciomercato del quotidiano La Repubblica.

Dal '90 segue (senza annoiarsi mai) le vicende della Lazio: collabora anche con Radiosei e dirige il sito Sololalazio.it. Calcio e giornalismo sono le sue grandi passioni. L'unico rimpianto che lo tormenta è aver smesso di dare spettacolo sui campi di calcetto.

 

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Deportivo-Milan, storia di un’incredibile rimonta

 

Martedì 10 marzo, in un Mestalla a porte chiuse per l’emergenza coronavirus, il Valencia ospiterà l’Atalanta per il ritorno degli ottavi di Champions League. La sconfitta subita a Bergamo per 4-1 rende molto difficile la rimonta degli iberici che, però, possono aggrapparsi a uno storico precedente, che abbiamo deciso di raccontarvi su 888sport.

Champions League 2003-04, il Milan di Ancelotti è detentore del trofeo, conquistato nella memorabile finale, tutta italiana, di Manchester contro la Juventus ai calci di rigore, ed è ancora una volta la squadra favorita per la conquista della coppa dalle grandi orecchie.

Il primo posto del Milan con due sconfitte - Il cammino europeo dei rossoneri va avanti, con qualche intoppo di troppo per una squadra che vuole confermarsi campione d’Europa: sorteggiati in un girone con Ajax, Club Bruges e Celta Vigo, infatti, i rossoneri rimediano due sconfitte casalinghe, difficilmente preventivabili, contro i belgi e gli iberici.

Le battute d’arresto, tuttavia, non impediscono al Milan capitanato da Paolo Maldini di concludere la fase eliminatoria al primo posto nel gruppo H con 10 punti, davanti al Celta con 9 e passano, così, agli ottavi di finale, introdotti per la prima volta nella fase a eliminazione diretta della competizione.

Il Deportivo nuova nobile di Spagna - Dopo aver eliminato agevolmente negli ottavi lo Sparta Praga, il sorteggio del 12 marzo 2004 a Nyon porta in dono al Milan, rimasto insieme alla Juventus a rappresentare l’Italia in Champions League dopo l’eliminazione di Lazio e Inter, gli spagnoli del Deportivo La Coruña.

La formazione allenata dal tecnico basco Javier Irureta sta vivendo gli anni migliori della sua storia calcistica: nel 1999-2000, infatti, con stelle del calibro di Djalminha, Jokanovic, Flavio Conceicao, Naybet e Mauro Silva, ha conquistato il suo primo (e unico) titolo nella Liga, per poi ottenere due secondi e un terzo posto che l’hanno lanciata stabilmente tra le grandi del calcio spagnolo di quel periodo.

Scommetti con le quote Champions di 888sport.it!

I galiziani e l’Europa - In Europa, i galiziani hanno raggiunto i quarti di finale alla loro prima, storica, partecipazione in Champions League nel 2000-01, eliminati dal Leeds di Rio Ferdinand, Lucas Radebe e Alan Smith; un’altra formazione inglese, il Manchester United, ha sbattuto in faccia la porta delle semifinali della massima competizione continentale al Deportivo l’anno dopo, mentre nel 2002-03 gli iberici sono usciti alla seconda fase a gironi, dopo aver superato la prima proprio insieme al Milan.

L’andata a San Siro - Il Deportivo che si presenta a San Siro per la gara d’andata dei quarti, il 23 marzo 2004, è una formazione che incute timore, avendo eliminato nel turno precedente la Juventus con un doppio 1-0, al Riazor e al Delle Alpi, grazie alle reti di Albert Luque all’andata e Walter Pandiani al ritorno.

Il Milan è una corazzata, una formazione zeppa di fuoriclasse, come evidente dall’undici messo in campo da Ancelotti per l’occasione: Dida; Cafu, Costacurta, Maldini, Pancaro; Gattuso, Pirlo, Seedorf; Kakà; Shevchenko, Inzaghi. Il Depor, senza alcun timore reverenziale, vuole ripetere l’impresa di Torino e passa in vantaggio dopo 11 minuti grazie all’uruguaiano Pandiani; ma il Milan è in serata di grazie e seppellisce i volenterosi ragazzi di Irureta sotto quattro reti, messe a segno a Kakà (doppietta), Shevchenko e Pirlo.

La remuntada del Riazor  - Due settimane dopo al Riazor, il Milan arriva convinto che la partita di ritorno altro non sia che una semplice formalità: la squadra di Ancelotti si sente già il biglietto per le semifinali in tasca. Ma quel volo non lo prenderà mai.
Il Deportivo scende in campo con il sangue agli occhi, aggredendo e attaccando fin dal primo minuto, con un solo obiettivo: segnare tre gol. “Un primo tempo drammatico. Come altro definirlo? Il Depor parte con la grinta furiosa di un toro. A testa bassa, schiacciando il Milan con un pressing pungente e fastidioso”, sono le parole con cui La Gazzetta dello Sport racconta la prima parte di gare il giorno successivo.

Il solito Walter Pandiani mette a segno la prima rete dopo 5 minuti, ma il Milan si sente forte dell’ampio vantaggio e conta sulla propria capacità di rallentare il ritmo forsennato dei galiziani; quando Valeron raddoppia di testa, su azione da calcio d’angolo al 35’, la terra sotto i piedi dei rossoneri inizia a cedere. Tocca a Luque, sempre per dirla con le parole della rosea, nove minuti dopo “fare pernacchie a Nesta e battere ancora una volta Dida con un fendente sotto la traversa. Fiesta: 3-0. Ovvero, Depor in semifinale. Tutto da rifare”.

Paolo Maldini prova a caricare i suoi all’inizio della seconda frazione di gioco, ma è ancora una volta il Deportivo ad andare a segno con Fran che, a quattordici minuti dal termine, fissa il punteggio sul 4-0 finale e manda i suoi in semifinale e le quote Champions in ghiaccio! Per il Milan rimane una delle più cocenti e clamorose eliminazioni; per il calcio europeo, una delle più fantastiche rimonte mai viste.

*La foto di apertura dell'articolo è di Lalo Villar (AP Photo).

March 9, 2020
Emanuele Giulianelli
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Scrittore e giornalista freelance, collabora regolarmente con il Corriere della Sera, con La Gazzetta dello Sport, con Extra Time, Rivista Undici, Guerin Sportivo e con varie testate internazionali come Four Four Two, Panenka e Tribal Football. Scrive per B-Magazine, la rivista ufficiale della Lega Serie B.


I suoi articoli di calcio internazionale e geopolitica sono stati pubblicati, tra gli altri, su FIFA Weekly, il magazine ufficiale della federazione internazionale, su The Guardian, The Independent e su Eurasianet. Ha lavorato come corrispondente sportivo dall’Italia per Reuters.


Ha pubblicato tre libri, l'ultimo dei quali, "Qarabag. La squadra senza città alla conquista dell'Europa" edito da Ultra Sport, è uscito nel 2018.
 

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Il remake di Spagna-Olanda!

Nulla è eterno, persino nel calcio. Ogni periodo di dominio è destinato a terminare e anche le squadre che hanno fatto la storia, prima o poi, sono costrette ad abdicare. A volte lo fanno in maniera silenziosa, con una discesa evidente, ma non troppo rapida. Altre, e succede assai più spesso, con cadute che fanno rumore.

Il Dream Team di Guardiola, il Barcellona che perde 4-0 contro il Milan di Capello è l’esempio più evidente, ma anche la storia delle nazionali è piena di storie simili. La Spagna che ha dominato l’Europa e il mondo tra 2008 e 2012 sembrava destinata a recitare il ruolo di protagonista ancora a lungo. Ma il suo regno è terminato, in modo fragoroso e inatteso, in un giorno di giugno 2014 in Brasile.


All’esordio da campioni del mondo in carica gli uomini di del Bosque si trovano di fronte una squadra di grande tradizione e ben conosciuta. Spagna-Olanda è il remake della finale del 2010, quella decisa ai supplementari da una rete di Don Andres Iniesta. Dopo quella partita, le Furie Rosse vanno a vincere anche l’Europeo 2012, mentre i Tulipani deludono, uscendo di scena ai gironi con zero punti, seppure in un girone complicato con Danimarca, Portogallo e Germania.

All’arrivo in Brasile, dunque, il pronostico sembra abbastanza chiuso. E quando il nostro Rizzoli dà il via al match a Salvador de Bahia, pochi per le scommesse calcio punterebbero su una vittoria dell’Olanda. Anche perché, con una mossa che ha quasi del clamoroso, Van Gaal sistema i suoi in un 3-5-2 parecchio difensivo, con sugli esterni un mediano adattato come De Jong e un terzino destro come Janmaat. Primo: non prenderle. Una filosofia che non sembra adattarsi troppo all’ex tecnico di Ajax e Barcellona.


Il gol... a freddo - Al punto che, all’inizio della partita, l’Olanda le prende eccome. La Spagna, a cui viene lasciato il controllo del pallone, va in vantaggio al minuto 27. De Vrij fa fallo su Diego Costa e Rizzoli indica il dischetto. Xabi Alonso si prende il pallone e segna l’1-0. La calma prima della tempesta. E non può mancare la più classica delle sliding doors. Il momento che cambia la storia di quel mondiale e forse del calcio spagnolo è a fine primo tempo. David Silva si trova uno contro uno con Cillessen e potrebbe far saltare il piano di Van Gaal, ma sbaglia clamorosamente.

Un grande classico del calcio, gol sbagliato, gol subito. Passano pochi istanti e Daley Blind lancia lunghissimo dalla sua metà campo, pescando Van Persie in velocità. Uno schema assai poco olandese, ma efficace. L’olandese sfugge a Ramos e non dà il tempo a Casillas di reagire, perché decide di concludere in una maniera inattesa ma stilisticamente perfetta: colpo di testa in tuffo e neanche Saint Iker può farci nulla. Al 44’ è 1-1. E nulla sarà più come prima.

Il clamoroso gol di testa di Van Persie!


La ripresa è sotto il diluvio tropicale, visto che si gioca all’altezza dell’Equatore. E piove fortissimo sulla Spagna, che dagli spogliatoi sembra non rientrare proprio. L’Olanda capisce che il metodo funziona e Blind lancia di nuovo in avanti. Stavolta pesca Robben, che, incredibile ma vero, non fa tutto col sinistro. Aggancio al volo col piede preferito, dribbling col destro con cui l’olandese manda al bar sia Piquè che Ramos, e mancino a colpo sicuro su cui Casillas non può nulla.

Il portiere del Real potrebbe farci qualcosa, e sbaglia clamorosamente, sul terzo gol della squadra di Van Gaal. Al minuto 63 Sneijder scodella in mezzo un calcio di punizione e il portiere spagnolo si preoccupa troppo di Van Persie, che lo ostacola. Dietro di loro spunta De Vrij, che non colpisce benissimo di testa ma riesce comunque a spingere il pallone in porta. 


La Spagna barcolla, ma non vuole mollare. Cillessen cerca di aiutarla respingendo malissimo il colpo di testa del neo-entrato Pedro, ma quando David Silva ribadisce in rete, Rizzoli annulla per fuorigioco. Il preludio alla tragedia calcistica. Il crollo dell’Imperio Español è ufficiale al minuto 71, quando Casillas pasticcia non da par suo su retropassaggio di Sergio Ramos e ancora Van Persie gli porta via il pallone e lo spedisce in rete con facilità.

Ma è la quinta marcatura degli Oranje a certificare, qualora ce ne fosse ancora bisogno, la caduta degli dei. In ripartenza Robben si mangia il campo e Piquè, ne evita il rientro mandando a terra anche Casillas, e col solito sinistro fa cinquina. Sulla panchina di Van Gaal è il delirio, gli spagnoli sono sotto shock. 


E, purtroppo per loro, ci rimangono anche nella partita successiva. Contro il Cile, che all’esordio ha battuto l’Australia, è già partita da dentro o fuori. Finisce, inaspettatamente, con un fuori. Vidal e compagni fanno polpette delle Furie Rosse al Maraca, vincendo 2-0 con reti dell’ex meteora napoletana Edu Vargas e di Aránguiz. Nel frattempo l’Olanda ha battuto i Canguri e di conseguenza i campioni del mondo sono già eliminati dopo appena due partite, con un gol all’attivo e sette al passivo.

Non sarà più come prima - Non serve a nulla rimediare gli unici punti di quel mondiale, battendo la povera Australia in una partita assolutamente inutile. Del Bosque non rischia il posto solo perché in fondo ha vinto sia il Mondiale che l’Europeo, ma la Spagna non si riprende più. Nel 2016 l’Italia di Conte si vendica dell’Europeo precedente e sbatte fuori Ramos e compagni agli ottavi. E in Russia nel 2018 la corsa della squadra di Hierro (che sostituisce Lopetegui, il quale a due giorni dall’esordio decide di firmare con il Real) si ferma contro i padroni di casa.

Ma la leggenda di quella Spagna termina il 13 giugno 2014, a Salvador de Bahia. Una partita che entra nella storia. E non solo di quella dell’Olanda.

*La foto di apertura dell'articolo è di Manu Fernandez (AP Photo); la seconda di Christophe Ena (AP Photo).

 
March 9, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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i terzini del Liverpool, altroché brasiliani!


Se chiedessimo a Jose Altafini di farci consultare il manuale aggiornato, 2.0, del calcio la prima cosa che balzerebbe ai nostri occhi sarebbe quella relativa ai terzini, i quali pur mantenendo il loro nome originale, nel corso degli anni, hanno ampliato caratteristiche e compiti all’interno del rettangolo verde.

Ma quando esattamente è avvenuta questa mutazione ? Mondiali del 1958 in Svezia, inizio del secondo tempo di Brasile-Austria, Nilton Santos, l'uomo chiave della difesa brasiliana, soprannominato A Enciclopedia, decise di abbandonare la retroguardia verdeoro, superò la linea di centrocampo, eluse un paio di rivali e continuò diritto verso l'area rivale, non passando il pallone a nessun attaccante e completando la sua giocata con uno straordinario gol.

L'evoluzione del ruolo - Ovviamente, la singola e specifica giocata di Nilton Santos fu il risultato di un'evoluzione tattica graduale, che trovò libero sfogo e terreno fertile nei due terzini della nazionale di Vicente Feola, nella classe assoluta e nell'assoluta modernità appunto di A Enciclopedia e dell'altro terzino Djalma Santos, magnifico interprete moderno del ruolo, un vero e proprio attaccante aggiunto, capace di sovrapporsi sulla fascia e dotato del tocco di palla proprio di un raffinato centrocampista.

Il calcio vedeva nascere così il 4-2-4 fatto di giocatori dalle cadenze felpate e tendenti a bailar futebol!

Nell’immaginario collettivo da sempre i terzini brasiliani hanno rappresentato la “doppia fase” per eccellenza, ovvero coloro in grado al tempo stesso sia di contrastare e marcare i giocatori esterni della squadra avversaria, ma soprattutto di iniziare la manovra, cercando l'aggiramento e gli inserimenti negli spazi lasciati liberi dai compagni sulle fasce laterali per crossare o concludere a rete.

Ad ogni mondiale le corse, le giocate, i dribbling dei vari Carlos Alberto, Jorginho, Cafù, Roberto Carlos, Maicon fino agli ultimi Dani Alves e Marcelo hanno fatto sognare migliaia di tifosi e di appassionati.

I "brasiliani" del Liverpool - Con un calcio che negli ultimi anni sta ridisegnando la propria geografia, anche il ruolo di terzino sembra essersi spostato di Nazione andandosi a posizionare per l’esattezza in Gran Bretagna a Liverpool.
I Reds ormai sono diventati una macchina quasi perfetta, e tra le chiavi di lettura utili a spiegare ciò ci sono i due terzini Andrew Robertson da un lato e Trent Alexander-Arnold dall’altro.

Accanto ad un mercato dispendioso, con cui Klopp ha modellato a propria immagine la formazione di Anfield, ci sono i due ragazzi che imperversano su e giù per le fasce laterali.

A sinistra, Robertson prelevato due anni fa dall’Hull City, per appena otto milioni di sterline, sta disputando un’altra stagione di altissimo livello. A destra, Alexander-Arnold, cresciuto nel settore giovanile del Liverpool, si sta confermando come uno degli interpreti più talentuosi del calcio europeo e mondiale: il sito specializzato transfermarkt lo valuta oltre 100 milioni di euro!

In squadra ed in coppia stanno frantumando record su record (record di assist, 29, come coppia di terzini nella stagione 2018-2019), non facendo altro che testimoniare la centralità che rivestono nello scacchiere offensivo del Liverpool, fatto da un lato di una partecipazione costante e attiva alla fase di possesso del Liverpool, dall’altro da una alternativa importante nella risalita del campo, una fase di gioco che il Liverpool sta affrontando in questa stagione con un approccio meno verticale e nella quale entrambi i terzini svolgono un ruolo di primo piano.

Alexander-Arnold e Robertson sono, ormai, diventati la migliore espressione del ruolo in Europa, incarnando, ciascuno, l’identikit del terzino moderno con la loro mobilità, la loro abilità tecnica e la loro capacità di partecipare alla manovra alla stessa stregua di un centrocampista. 

La giocata del calcio d'angolo battuto rapidamente contro il Barcellona dal classe '98 di West Derby resta l'immagine più bella della Champions 2019: l'assist per Origi ha letteralmente sconvolto le quote calcio della manifestazione!

*La foto di apertura dell'articolo è di Frank Augstein (AP Photo).

 
March 8, 2020
888sport
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The 888sport blog, based at 888 Towers in the heart of London, employs an army of betting and tipping experts for your daily punting pleasure, as well as an irreverent, and occasionally opinionated, look at the absolute madness that is the world of sport.

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Le 5 interviste più pazze!

Ogni qual volta si stilano graduatorie epocali, pagelle, rievocazioni, il concetto di "de gustibus" è il pilastro fondante da cui è difficile prescindere. Figuriamoci quanto possa essere soggettiva una risata. Strappata, in questo caso, dalle interviste più folli della storia del calcio, quelle a cui abbiamo spesso assistito ai tempi di Mai Dire Gol.

I momenti esilaranti tra giornalisti e calciatori microfonati sono proseguiti anche ben oltre la trasmissione della Gialappa's band, di cui si sente tanta nostalgia. Noi abbiamo selezionato 5 momenti in cui i telespettatori sono rimasti a bocca aperta...

5. La domanda infinita di Aldo Biscardi a Roberto Baggio
Saint-Denis, 3 luglio 1998. Ancora una volta, la maledizione dei calci di rigori punisce l'Italia, che viene eliminata 4-3 dalla Francia dopo lo 0-0 dei 120'. Erano i tempi della concorrenza in azzurro tra il campione appena sbocciato Alessandro Del Piero e il leggendario Roberto Baggio. Il Processo di Biscardi, in particolare, ai tempi si era schierato (più o meno apertamente) dalla parte del Divin Codino. Ma da parte dell'altrettanto leggendario padrone di casa Aldo Biscardi, traspare imbarazzo nel porre una domanda scomoda.

Sarebbe bastato un "Perché gioca Del Piero al posto tuo?", invece il presentatore si perde in un giro di parole prolisso, poi passato alla storia come "la domanda infinita". Quell'imbarazzo traspare anche nell'espressione di Roby, che nonostante il triste momento calcistico, fatica a trattenere il sorriso di fronte a quelle interminabili parole: "Roberto, scusa, ti volevo chiedere questo, senza voler tornare a una polemica in cui tu sei stato molto corretto, tu hai cercato sempre di dribblare, tu sai benissimo che l'opinione pubblica è con te.

Sai benissimo, perché hai giocato, dall'ottant... a venti minuti dalla fine sei entrato in campo e la squadra e apparsa trasformata, hai dato almeno tre palle-gol. Allora, io dico: perché, in questo Mondiale il giocatore più in forma, adesso... ormai è finita l'avventura ai Mondiali dell'Italia. Siamo stati sfortunati ai rigori, c'è questa maledizione che ci perseguita e per fortuna tu hai segnato, per fortuna tua personale hai segnato il gol, non è successo come quattro anni fa in Brasile.

Però, ecco, quando gioca il giocatore meno in forma, io lo chiederei... l'ho chiesto già a Del Piero; Del Piero ha detto: 'No, ma io ero in forma' (...) è stato anche corretto, molto corretto, Del Piero. Non ha fatto polemica... Allora io chiedo a te: tu hai sentito tutta l'opinione pubblica che era con te. Dentro di te, adesso lo puoi dire, puoi fare una confessione! Cosa pensavi, di meritare questo affetto, questa stima di tutta l'Italia calcistica che ti voleva in campo?

Cosa ti rispondevi: perché io non gioco? Perché tutta l'Italia è con me e io non gioco? E che cosa rispondevi a te stesso. Sicuramente, io lo so, sei un ragazzo sensibile, sei forte, te l'abbiamo posta noi (questa domanda)"... Biiiiiiiip! E il collegamento satellitare con la Francia salta, proprio mentre il Divin Codino stava per rispondere. Cosa pensasse in quel momento non lo sapremo mai: certamente, alla storia, resterà un momento televisivo irripetibile.
 

 

4. Il Cantona filosofo
Eric Cantona - correva il 25 gennaio 1995 - impazzisce al Selhurst Park e scalcia, con un colpo di arti marziali, un tifoso del Crystal Palace che lo aveva preso a insulti tra le prime file dei seggiolini. Per questo motivo, il talento francese del Manchester United fu costretto a scontare una squalifica di 9 mesi. In conferenza, per spiegare l'accaduto, si lasciò trasportare dalla filosofia di una frase che lasciò ammutoliti i tantissimi giornalisti affamati di richieste di scuse da parte del giocatore. Il vero significato di quel "Cantona’s philosophical statement", è ancora poco chiaro oggi:

"Quando i gabbiani seguono il peschereccio, è perché pensano che verranno gettate in mare delle sardine".
 

3. Oddo campione del mondo. E ubriaco
Occhio ballerino, espressione assente e frasi sbiascicate. Si presentò così Massimo Oddo, di fronte a microfoni e taccuini, dopo la vittoria del Mondiale 2006. Sicuri che, tra gli alcolici per festeggiare, c'erano solo bottiglie di birra...?
"No, perché c'hanno messo una cesta di birra nello spogliatoio, hanno sbagliato clamor... tatticamente son stati proprio... un disast...".
 

2. David Luiz-Sacchi e quel "careca"...
A proposito di apparizioni in tv in condizioni quanto meno "alticce", come scordare quella di David Luiz, ai microfoni di Sky Sport dopo la sorprendente conquista della Champions League da parte del Chelsea contro il Bayern Monaco, con il gol del pari di Drogba che stoppa le scommesse live calcio?

Intervistato da un giocoso Pierluigi Pardo, alla comparsa di Arrigo Sacchi nello schermo, il difensore brasiliano si mise urlare: "Arrigo Sacchi careca! Careca, don't have pelo". 'Careca', per chi non lo sapesse, in portoghese significa 'pelato'. Sacchi la prese nella maniera più giusta: con una bella risata.
 

1. Trapattoni infinito
Da "Non dire gatto se non ce l'hai nel sacco", ai concetti riscritti a macchina da scrivere da parte della Gialappa's band. Per non parlare di quell'inglese-meneghino sfoggiato ai tempi del ct dell'Irlanda. Ma la sfuriata in conferenza in cui, nel marzo del 1998, da allenatore del Bayern Monaco, se la prese col povero Thomas Strunz (accusato di scarso impegno), rimane il "must" dialettico  assoluto di mister Giovanni Trapattoni.

Vent'anni dopo, anche il collega Jupp Heynckes ammise: "Strunz? Una vera genialata da parte del Trap".
 

*La foto di apertura dell'articolo è di Camay Sungu (AP Photo).

March 7, 2020
Stefano Fonsato
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Stefano collabora da anni come giornalista freelance per il portale web di Eurosport Italia, per il quotidiano La Stampa e con la casa editrice NuiNui per la quale è stato coautore dei libri "I 100 momenti magici del calcio" e "I 100 momenti magici delle Olimpiadi".

E' amante delle storie, dei reportage e del giornalismo documentaristico, ma il suo "pallino" resta, su tutti, il calcio d'Oltremanica.

 

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