Lazio 2000, una squadra di maghi... della panchina!

Una squadra di allenatori. È la Lazio del 2000, quella del secondo scudetto biancoceleste. Quasi tutti campioni, quasi tutti sono diventati tecnici. E molti di loro con indiscutibile successo. Non è un caso, perché ognuno di quei giocatori eseguiva al meglio i propri compiti ma nello stesso tempo aveva una visione d'insieme, sapeva quello che dovevano fare i compagni e come.

L'allenatore in campo - Così si alimenta la passione del collettivo che va oltre l'individualismo del top player, così si arriva a pensare con il “noi” e allora il passaggio dal campo alla panchina diventa praticamente automatico. L'esempio più significativo è Roberto Mancini, che era già un calciatore-allenatore quando giocava, vero braccio destro di Eriksson, come Falcao lo era per Liedholm nella Roma dello scudetto '83.

Appena smesso di giocare, “Mancio” è subito diventato allenatore vero, nella Fiorentina e nella stessa Lazio, vincendo, poi, campionati in Serie A con l'Inter e in Inghilterra con il City. E adesso, come ct dell'Italia, ha ridato anima e gioco alla nazionale azzurra, capace di chiudere a punteggio pieno il suo girone di qualificazione agli Europei 2020.

Una difesa di leader - Discorso simile si può fare per Sinisa Mihajlovic, “allenatore” della difesa di quella Lazio e altro indiscusso leader in campo e nello spogliatoio, oltre che amico di Mancini. Le sue squadre hanno sempre una buona organizzazione e grande spirito, basta studiare il Bologna delle ultime due stagioni.

Percorso più complesso quello del suo ex partner difensivo Alessandro Nesta, bravo e coraggioso nell'affrontare la gavetta: prima esperienza nella “sua” Miami, poi la Serie B con il Perugia adesso con il Frosinone in corsa per la promozione.

Il fenomeno Cholo - Formidabile l'avventura in panchina di Diego Simeone, vero “guru” dell'Atletico Madrid che ha portato due volte in finale di Champions League, dove ha sbattuto contro quel muro di storia chiamato Real. Ma il 4-4-2 “avvelenato” di Simeone è comunque un esempio per molti giovani allenatori interessati alla costruzione di squadre aggressive più che esteticamente raffinate.

Piuttosto sorprendente invece l'affermazione in panchina di Sergio Conceicao e Simone Inzaghi. Molti dei loro compagni non avrebbero scommesso sul successo dei due come allenatori. Errore. Il Porto dell'ex ala destra e la Lazio dell'ex centravanti dello scudetto 2000 vincono e convincono da anni.

In particolare Inzaghi ha già conquistato tre trofei in tre anni e mezzo alla guida della prima squadra e adesso contende addirittura il titolo in Serie A alle corazzate Inter e Juve. A sua volta, il Porto di Conceicao sa miscelare bene furore agonistico a qualità del gioco.

Quarta Argentina a... Formello - Era partita forte la carriera di allenatore di Matias Almeyda, che di quella Lazio era l'infaticabile recuperapalloni di centrocampo: subito il River Plate, riportato in Primera Division nel 2012 dopo la storica retrocessione dei Millionarios. Dopo aver guidato il Banfield in Argentina e il Guadalajara in Messico, ora Almeyda allena i San Jose Earthquakes in California.

Solo un'esperienza in panchina per quel fuoriclasse di Juan Sebastian Veron, con i dilettanti dell'Estrella de Berisso: dopo l'addio al calcio, l'asso argentino è stato ds e presidente dell'Estudiantes, il club del suo cuore, privilegiando la carriera di dirigente a quella di tecnico. Stessa scelta di Nestor Sensini, ora direttore generale del Newell's Old Boys dopo aver allenato in Argentina dal 2007 al 2015.

Attilio Lombardo, prezioso rincalzo di quella Lazio, è tra i collaboratori tecnici del ct azzurro Mancini, con cui aveva lavorato già nel Manchester City. Oltre a Nesta e Mihajlovic, altri quattro difensori della Lazio 2000 sono diventati allenatori: Negro, Gottardi, Pancaro e Couto.

I primi due si sono dedicati ai settori giovanili, il terzo ha guidato Juve Stabia, Catania, Catanzaro e adesso siede sulla panchina della Pistoiese in Serie C, mentre il portoghese ha lavorato come secondo nello Sporting Braga dal 2012 al 2014. In Ucraina, nell'Arsenal Kiev, l'ultima avventura (negativa) di Fabrizio Ravanelli.

E Dejan Stankovic? Allena anche lui, ovviamente: gli è stata affidata la Stella Rossa, la più prestigiosa squadra di Serbia, quella in cui è cresciuto.

*La foto di apertura dell'articolo è di Roland Weihrauch.

February 13, 2020
Giulio
Body

Giulio è nato giornalista sportivo, anche se di professione lo fa “solo” da 30 anni. Dal 1997 è l'esperto di calciomercato del quotidiano La Repubblica.

Dal '90 segue (senza annoiarsi mai) le vicende della Lazio: collabora anche con Radiosei e dirige il sito Sololalazio.it. Calcio e giornalismo sono le sue grandi passioni. L'unico rimpianto che lo tormenta è aver smesso di dare spettacolo sui campi di calcetto.

 

factcheck
Off
hidemainimage
show
Hide sidebar
show
Fullwidth Page
Off

Stadi, quante curiosità!

Che spettacolo allo stadio! Ma in certi casi, a dirla tutta, lo spettacolo…è lo stadio stesso! In giro per il mondo ci sono diversi impianti capaci di lasciare a bocca aperta e non solo per la bellezza o la modernità della struttura. Esistono tanti motivi per cui uno stadio diventa leggenda e alcuni sono legati a curiosità che, in fondo, con il calcio in sé hanno poco a che vedere. Eppure anche questi piccoli (o enormi) particolari sono parte del clamoroso fascino dello sport più amato del mondo.


Del resto, andare a vedere la partita non significa per forza di cose dover rinunciare ad ammirare le bellezze naturali o cittadine. Per informazione chiedere agli abitanti di Como, che hanno uno stadio…vista lago. Il Giuseppe Sinigaglia è, infatti, a pochi metri dall’acqua e una delle tribune dà direttamente sul lungolago. E dall’alto l’effetto scenografico è certamente assicurato. Così come non può non esserlo per il Pier Luigi Penzo, la casa del Venezia.

Difficile non farlo vicino alla Laguna, ma per renderlo ancora più particolare è stato costruito sull’isola di Sant’Elena, celebre per la chiesa omonima e incorporata nel tessuto cittadino giusto nel periodo in cui è stato tirato su l’impianto.


Tra Portogallo e... Monaco - Anche all’estero ci si diletta a costruire stadi o campi in posizioni abbastanza particolari. Impossibile non pensare, ricordando gli Europei del 2004 in Portogallo, allo Stadio comunale di Braga, ricavato dalla cava di Monte do Castro. E infatti, per ricordare le origini dell’impianto, una delle curve non è stata costruita e dietro una porta c’è…la parete della montagna.

A proposito di montagna, particolare anche l'Ottmar Hitzfeld Stadium di Gspon, un villaggio nelle Alpi Svizzere: incorniciato dalle montagne a 2000 metri di altezza, non è raggiungibile in macchina e dà su uno strapiombo. Normale dunque che la squadra di casa abbia perso oltre mille palloni in una quarantina di anni. Va forse anche peggio a chi gioca all’Eidi Stadium, nelle Isole Far Øer, un impianto circondato dal mare: se il pallone finisce nel fiordo, può essere un problema.

E infine, per chi gioca al Monaco, un bel bonus; la squadra del Principato si allena a La Turbie, un centro sportivo sospeso tra le terrazze della Riviera. Mica male!

Le torri - Anche le strutture esterne hanno le loro peculiarità. Gli stadi di Firenze e Bologna, costruiti nello stesso periodo, hanno entrambi una torre, la torre di Maratona, che sta a simboleggiare lo spirito di competizione e la volontà di eccellere. Quella del Franchi è più slanciata, quella del Dall’Ara, invece, richiama altro esempi celebri. Così, viene in mente anche la doppia torre di Wembley, e un altro modello può essere quello dello Stadio Olimpico di Stoccolma, con l’entrata che somiglia a quella di un castello e da cui si intravede il campo.

Anche i nuovi impianti presentano strutture esterne molto particolari. È il caso del ponte costruito appositamente per l’accesso all’Emirates Stadium di Londra, casa dell’Arsenal.


Una volta entrati negli impianti, le particolarità non finiscono mica. In Italia è storico il primo anello del vecchio Stadio delle Alpi, che in cooperazione con la pista di atletica (fondamentale per ottenere i finanziamenti del CONI per la costruzione), rendeva così difficoltosa la visione del campo da far nascere la leggenda che il progetto fosse stato affidato a qualcuno che non aveva mai visto una partita di calcio in vita sua.

Problemi di visibilità, ma stavolta per chi guarda da casa, per un altro stadio simbolo di Italia 90, il San Nicola di Bari. Le postazioni per le telecamere a metà tribuna della celebre ”astronave” ideata da Renzo Piano rendono le inquadrature perennemente aeree. A Crotone, invece, la partita si può vedere anche dal palazzo adiacente allo Ezio Scida...


Il Rayo e la T dello sponsor di telecomunicazioni bavarese - Per quello che riguarda curve e tribune, c’è l’imbarazzo della scelta. Lo stadio di Vallecas, la casa del Rayo Vallecano, è perfettamente inserito all’interno del quartiere. Peccato che evidentemente non ci fosse spazio per costruire una delle due curve per la vicinanza di altri edifici, quindi dietro una delle due porte c’è un semplice muro. E tanto per fare di necessità virtù, è riempito di pubblicità che almeno fanno guadagnare il club spagnolo.

Una delle tribune più celebri d’Italia è invece quella del Menti di Vicenza, un vero stadio all’inglese, tutto scoperto tranne i posti della tribuna centrale e di quella d’onore, diventata ormai un vero simbolo del club veneto e una complicazione importante per i registi televisivi. E parlando di tribune, impossibile non citare lo… sponsor umano del Bayern Monaco, con un gruppo di tifosi di bianco vestiti che hanno creato la T, simbolo dell’azienda che sponsorizza il club, come si fa solitamente con i seggiolini.


Curiosità... acustiche - Anche una volta che si è preso posto, da altre curiosità non ci si salva. In Giappone, al vecchio National Stadium di Tokyo, hanno lavorato così bene sull’acustica che ogni edizione della Coppa Intercontinentale era accompagnata dall’assordante rumore delle trombette tanto care ai nipponici, che però davano parecchio fastidio ai calciatori.

I calciatori della Juventus festeggiano l'Intercontinentale!

Stesso problema anche ai Mondiali 2010 in Sudafrica, quando ogni match era giocato sulle note delle vuvuzelas, le trombette ad aria tipiche di quella Coppa del Mondo. In Sudamerica poi le peculiarità non mancano.

Chiunque si sia imbattuto in un match di Superliga argentina non può non aver notato i rotoli di carta e i coriandoli che volano in campo prima delle partite. Un altro particolare sconosciuto ai più?

Le basi del palo dipinte di nero del Monumental di Buenos Aires, in occasione del Mondiale 1978. Un gesto di protesta contro la dittatura militare, che però porta anche fortuna all’Albiceleste. Proprio su un palo si infrange, a recupero appena iniziato, il tiro di Rob Rensenbrink che potrebbe valere la Coppa per l’Olanda. E quindi si va ai supplementari e vincono i padroni di casa. Una delle tante curiosità dello splendido e pazzo mondo del calcio.

*La foto di apertura dell'articolo è di Luis Vieira (AP Photo).

February 13, 2020
Ermanno Pansa
Body

Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

factcheck
Off
hidemainimage
show
Hide sidebar
show
Fullwidth Page
Off

Buffon, Miura e i 10 vecchietti del calcio mondiale


In questi giorni è circolata la notizia che la EFA, la federazione egiziana, ha concesso un certificato di idoneità sportiva a un certo Ezzeldin Bahader, tesserato dal Giza, formazione locale di terza divisione, che a novembre compirà 75 anni. Se dovesse scendere in campo in una partita ufficiale, l’egiziano entrerebbe nel Guinness dei Primati, superando l’israeliano Isaak Hayik che tre anni fa ha difeso la porta dell’Ironi Or Yehuda in una partita di Serie D israeliana con il Maccabi Ramat Gan, all’età di 73 anni e 95 giorni.

Per il blog italiano di 888sport abbiamo raccolto la top 10 degli Over 40 che ancora sono in attività nel calcio, in particolare nei campionati professionistici di prima divisione in tutto il mondo. Il record appartiene a una vecchia conoscenza del calcio italiano, il giapponese Kazuyoshi Miura, che i tifosi genoani ricordano ancora con simpatia: a 52 anni gioca ancora nel massimo campionato nipponico.
 

Kazuyoshi Miura (Yokohama FC), 53 anni - Il 26 febbraio compirà 53 anni, ma già nel 2018 è diventato il calciatore più anziano nella storia del calcio professionistico, avendo superato il portiere inglese Kevin Poole che si è ritirato nel 2014 a 51 anni, dopo l’ultima stagione disputata con la maglia del Burton Albion FC. Miura ha iniziato la sua carriera con la maglia del Santos, per poi girare il mondo: nel 1994 è stato ingaggiato dal Genoa, diventando il primo giapponese nella storia della Serie A, dove rimane una sola stagione.

Realizza il suo unico gol in Italia nel derby contro la Sampdoria.

Hilton (HSC Montpellier), 42 anni - Vitorino Hilton da Silva, difensore e capitano del Montpellier, è arrivato al Bastia nel 2004 proveniente dagli elvetici del Servette, e non si è più mosso dalla Francia. Ha vinto due Ligue 1, una con l’Olympique Marsiglia e l’altra con la sua attuale squadra, oltre a due Coppe di Lega e una Supercoppa francese.

Gianluigi Buffon (Juventus), 42 anni - Una vera e propria leggenda del calcio. Campione del mondo con la maglia azzurra a Berlino nel 2006, l’attuale secondo portiere della Juventus ha compiuto 42 anni lo scorso 28 gennaio: scendendo in campo il 18 dicembre 2019 a Genova contro la Sampdoria, ha eguagliato il record di 647 presenze in Serie A di Paolo Maldini ed è pronto a superarlo.

Grazie alla presenza collezionata nella Champions League 2019/20, è diventato il secondo più anziano ad aver giocato la massima competizione continentale: il record assoluto appartiene a un altro portiere italiano, Marco Ballotta, sceso in campo con la Lazio a 43 anni e 253 giorni.
Per le nostre scommesse calcio, l’eventualità che Buffon diventi nuovamente campione d’Italia con la Juventus è quotata @1.65.

Shunsuke Nakamura (Yokohama FC), 41 anni - Un’altra vecchia conoscenza del calcio italiano: attuale compagno di squadra di Miura in uno Yokohama poco incline alla linea verde, Shunsuke Nakamura ha disputato tre stagioni con la maglia della Reggina: tra il 2002 e il 2005;il centrocampista nipponico ha collezionato 80 presenze, tutte in Serie A, mettendo a segno 11 gol. Beniamino dei tifosi del Celtic, con gli scozzesi il 13 settembre 2006 diventa il primo giocatore giapponese a segnare in Champions League.

Claudio Pizarro (Werder Brema), 41 anni - Il centravanti peruviano ha speso gran parte della sua carriera in Bundesliga, indossando le maglie di Bayern Monaco, Colonia e Werder Brema, a più riprese. Nel 2001-02 si concede una parentesi in Premier League con la maglia del Chelsea. Claudio Pizarro è il secondo miglior realizzatore straniero di tutti i tempi nella Bundesliga, alle spalle di Robert Lewandowski, con 197 reti e il quarto miglior marcatore nella storia della nazionale peruviana, con 20 gol in 85 partite.

Razundara Tjikuzu (SK Windhoek), 40 anni - Nato a Swakopmund, sulla costa occidentale della Namibia, Razundara Tjikuzu ha giocato da mediano tra Germania e Turchia, collezionando 140 presenze in Bundesliga e 104 in Super Lig. Ha indossato, tra le altre, le maglie di Werder Brema e Trabzonspor, con cui ha conquistato una Coppa di Turchia nel 2010. Dal 2012 è tornato in Namibia e oggi gioca con il SK Windhoek, nel massimo campionato locale.

Yasuhito Endo (Gamba Osaka), 40 anni - Un altro giapponese, ennesimo esempio di longevità calcistica dei giocatori del Sol Levante. Endo è considerato uno dei più forti di tutti tempi nel suo Paese e non ha mai provato un’esperienza all’estero. La sua carriera è legata a doppio filo alla maglia nerazzurra del Gamba Osaka, che indossa ininterrottamente dal 2001.

La leggenda racconta che da bambino non avesse giocattoli, ma solo un pallone da calcio. Vicecampione ai Mondiali Under 20 nel 1999, ha vinto due Coppe d’Asia con la sua nazionale, nel 2004 e nel 2011.

Lee Dong-guk (Jeonbuk Hyundai Motors FC), 40 anni - Attaccante sudcoreano, Lee Dong-guk (o gook, a seconda della traslitterazione) ha sempre giocato in patria, con l’unica eccezione della parentesi inglese con il Middlesbrough. Tra il 2006 e il 2008, Lee collezione 2 gol in 29 presenze in Premier League, risultando trentesimo nell'antipatica classifica dei 50 peggiori attaccanti che abbiano mai giocato nel massimo campionato inglese.

Florent Balmont (Dijon FCO), 40 anni - Di professione centrocampista, Balmont ha messo il 4 davanti alla sua età il 2 febbraio 2020. Proveniente dal settore giovanile del club, esordisce in Ligue 1 con il Lione, con cui conquista il titolo nel 2003. Lo vincerà un’altra volta con il Lille nel 2011, stagione in cui il club delle Fiandre realizza uno storico double con la Coppa di Francia.

Artur Boruc (Bournemouth), 40 anni - Soprannominato King Artur nel calcio inglese, l’estremo difensore polacco compirà 40 anni il 20 febbraio: noto soprattutto per le sue 5 stagioni trascorse in Scozia con il Celtic, con cui vince tre campionati, Boruc ha giocato in Italia tra il 2010 e il 2012 con la maglia della Fiorentina. Da Firenze, ha raggiunto l’Inghilterra, prima al Southampton e, dal 2014, al Bournemouth.

*La foto di apertura dell'articolo è di Remy de la Mauviniere (AP Photo).

February 12, 2020
Emanuele Giulianelli
Body

Scrittore e giornalista freelance, collabora regolarmente con il Corriere della Sera, con La Gazzetta dello Sport, con Extra Time, Rivista Undici, Guerin Sportivo e con varie testate internazionali come Four Four Two, Panenka e Tribal Football. Scrive per B-Magazine, la rivista ufficiale della Lega Serie B.


I suoi articoli di calcio internazionale e geopolitica sono stati pubblicati, tra gli altri, su FIFA Weekly, il magazine ufficiale della federazione internazionale, su The Guardian, The Independent e su Eurasianet. Ha lavorato come corrispondente sportivo dall’Italia per Reuters.


Ha pubblicato tre libri, l'ultimo dei quali, "Qarabag. La squadra senza città alla conquista dell'Europa" edito da Ultra Sport, è uscito nel 2018.
 

factcheck
Off
hidemainimage
show
Hide sidebar
show
Fullwidth Page
Off

Le lunghe mani di Jorge Mendes nel Famalicão: non chiamatela favola

 

A inizio anno si pensava potesse essere nato un nuovo Leicester City, una favola su cui speculare fiumi di parole retoriche. Che beninteso, sono anche l'essenza delle belle storie di sport, inutile nascondere ciò da cui ci si vuole fare emozionare. Il fatto è che il piccolo club lusitano del Famalicão, nulla centra con tutto ciò.

E quel che si era "subodorato" qualche tempo fa, si sta puntualmente verificando: a fronte di una partenza sorprendente da neopromossa (dopo un'assenza dalla Primeira Liga che perdurava dalla stagione 1993-94), fatta di sei vittorie e un pareggio nelle prime sette giornate di campionato, ecco puntualmente verificarsi il crollo, coinciso lo scorso weekend con lo 0-7 interno (!) patito dal Vitória Guimarães, di seguito le immagini.

 

Risultati sempre meno lusinghieri, che hanno portato la squadra biancoblù (che nel frattempo è uscita dalla semifinale di Coppa di Portogallo contro il Benfica) ad abbandonare inizialmente il primato di graduatoria, poi la zona Champions e, da qualche tempo la zona Europa in generale.

Un calo di rendimento che, in sé, per una neopromossa può anche essere considerato "fisiologico". Il punto è che il Famalicão non era una favola prima e, oggi, non è nemmeno una formazione che rischia di sprofondare nelle sabbie mobili. Bensì, semplicemente, un prodotto della nuova economia del calcio che oggi, in sostanza, vuole evitare di continuare a dare nell'occhio dopo aver acceso su di sé i riflettori nazionali e internazionali.

La vera storia - La storia non parla di una  comunità (Vila Nova de Famalicão) di 127mila abitanti nel nord del Paese (siamo dalle parti di Braga) risalita alla ribalta a braccetto con la squadra.

In realtà c'è scollamento tra le due realtà: il Famalicão ha cominciato, infatti, da quando - da un paio di anni a questa parti, è diventato un "deposito calciatori" di Jorge Mendes (il procuratore calcistico più potente al mondo). Il quale, da tempo, era alla ricerca di un club tra i big del calcio europeo per entrare nei suoi asset societari in tutto e per tutto e incrementare il suo volume d'affari nella turnazione dei giocatori controllati.

Mendes ha ricevuto tanti "No, grazie", mantenendo comunque un'influenza "ufficiosa" in vari team in giro per il Vecchio continente, primo fra tutti il Wolverhampton, in Inghilterra, quotato subito prima della Roma per le scommesse calcio tra le favorite delle Europa League 2020!

E' riuscito nei suoi intenti, invece, col Famalicão, seguendo per certi versi l'esempio del mondo Red Bull applicato al pallone: scegliere cioè un club nelle divisioni inferiori, senza particolari pretese e, ancor meglio con le casse da risanare, e portarlo secondo le proprie regole - a quel punto incontestabili - a vette calcistiche inedite fino ad allora. Nessuna tifoseria "caliente" con cui fare i conti e condizioni ideali per fare maturare i propri affari manageriali. E così è stato.

Al Famalicão, Jorge Mendes si è affiancato al patron Idan Ofer, businessman con svariati interessi nell'industria dei trasporti, logistica navale e attività estrattive. E nel calcio di un certo livello, dal momento che Ofer detiene il 32% di quote dell'Atletico Madrid.

Società amiche  - E, guarda un po', dal club dei materassai sono arrivati Nicholás Schiappacasse (ex trequartista uruguaiano del Parma) e il centrale difensivo argentino Nehuén Pérez. La squadra è imbottita, poi da giocatori provenienti dai club amici di Mendes: Wolverhampton (Roderick Miranda e Pedro Gonçalves), Sporting Braga (João Neto e Fábio Martins), Benfica (Diogo Gonçalves e Guga), Valencia (Uroš Račić e Álex Centelles) che sfiderà l'Atalanta in Champions in un confronto davvero equilibrato per le scommesse calcio...

Tutti prestiti o ingaggi a parametro zero: si compra - a zero -, si dona un banco di prova importante ai giocatori da lanciare nel grande calcio, si rivende a peso d'oro. Questo, insomma, il meccanismo del Famalicão. I contorni sono quelli di una favola? Più che altro sono quelli dettati da un calcio geneticamente modificato dei nostri tempi.

Per buona pace di quei sei ragazzi (José Alves Marinho, Floriano Portela, Hildebrando Portela, Luis Pinto, Joaquim Mesquita Jr. e Vergílio Pinto de Azevedo) che, invece, una visione nobile ce l'avevano e che nel 1931 - gli anni di tutte le rivolte dal Minho all'Algarve - fondarono il club partendo dal mitico, polveroso Campo da Berbéria.

*La foto di apertura dell'articolo è di Darko Vojinovic (AP Photo).
 

February 12, 2020
Stefano Fonsato
Body

Stefano collabora da anni come giornalista freelance per il portale web di Eurosport Italia, per il quotidiano La Stampa e con la casa editrice NuiNui per la quale è stato coautore dei libri "I 100 momenti magici del calcio" e "I 100 momenti magici delle Olimpiadi".

E' amante delle storie, dei reportage e del giornalismo documentaristico, ma il suo "pallino" resta, su tutti, il calcio d'Oltremanica.

 

factcheck
Off
hidemainimage
show
Hide sidebar
show
Fullwidth Page
Off

Fair Play Finanziario: tutto cambia affinché nulla cambi

 

Sarebbe dovuto servire a rendere il calcio più equilibrato, alla luce dei fatti ha aumentato ancor più il divario tra grandi e piccoli club. Il Fair Play Finanziario finora è stato utile per risollevare le sorti del calcio europeo e a evitare il naufragio dei piccoli club, ma non ha in alcun modo reso più equilibrato il movimento calcistico continentale.

Dal 2011 a oggi soltanto Manchester City e PSG hanno avuto modo di fare il loro ingresso nell’aristocrazia del calcio europeo, grazie al contributo dei proprietari arabi e qatarioti: entrambe sono non a caso favorite per le scommesse calcio relative alla Champions 2020!

La disciplina del FPF aveva istituito obblighi carattere economico-finanziari come il il pareggio di bilancio (break even), il deposito del bilancio relativo all’ultimo anno precedente la data di presentazione della domanda di rilascio della licenza UEFA, sottoposto a revisione da parte di una società di revisione contabile, l’assenza di debiti scaduti relativi al trasferimento di calciatori, la regolarità nel pagamento degli emolumenti ai dipendenti con relativi versamenti di ritenute e contributi.

I principi del FPF - L’architrave per Fair Play Finanziario è quella relativa al pareggio di bilancio, da intendersi come differenza tra ricavi rilevanti (relevant income) e costi rilevanti (relevant expenses). Tuttavia, nel corso degli anni, i club hanno talvolta aggirato il FPF grazie ad alcuni escamotage come i finti prestiti utilizzati per mascherare l’acquisto di un calciatore, o gigantesche sponsorizzazioni atte a celare finanziamento indebito, oppure ai rapporti tra club riconducibili allo stesso proprietario.

Le tre riforme apportate dall’Uefa - l’ultima nel 2018 - hanno limitato questo tipo di iniziative, senza tuttavia portare efficaci benefici al mondo del calcio. Alla fine, il divario tra grandi e piccoli club è ulteriormente aumentato; se nelle ultime stagioni i ricavi medi dei club che partecipano ai campionati europei è aumentato del 57%, le società più blasonate hanno avuto modo di incentivare i propri ricavi sfondando il tetto dell’80%, e quindi allungando il passo grazie anche ai mercati orientali e asiatici che hanno garantito nuova linfa attraverso ricche sponsorizzazioni.

Il Fair Play Finanziario così applicato cristallizza le gerarchie di un calcio dove i club in difficoltà faticano a risalire la corrente. L’UEFA ha messo fine al modello della ricapitalizzazione, utile per rimpinguare le casse dei club che - in passato - erano arrivati a spendere più di quanto erano in grado di fatturare. In questo momento sono proprio questi club che faticano a riemergere, ancora vincolati dal giogo delle norme del FPF che limitano la ripartenza di queste società.

Il caso Milan - Il Milan, in tal senso - appare l’esempio più lampante: nonostante l’arrivo di una buona proprietà, il club rossonero sta faticando a risistemare i conti. Da qui, la necessità di costruire un nuovo stadio, indispensabile per accrescere il fatturato. Per affrontare un investimento del genere, sarebbero necessari ricavi certi come quelli che garantisce la partecipazione alla Champions League, ma per ottenere tale risultato sarebbe inderogabile il reale rafforzamento della squadra che passa per un calciomercato dispendioso e non di seconde scelte.

Segui il girone di ritorno del Milan anche con le scommesse sportive di 888sport!

Le regole - fin troppo rigide - frenano lo sviluppo di un nuovo piano industriale che avrà bisogno di tempo per essere portato a compimento.

Gli accorgimenti presi nel 2018 con l’ultima riforma non hanno ancora ridato slancio ai club sottoposti al regime di FPF; sono cambiati i parametri utilizzati per verificare la sussistenza del requisito del pareggio di bilancio e i parametri relativi al debito sostenibile: i club dovranno avere un debito rilevante non superiore a 30 milioni di euro e che non superi di 7 volte la media dei ricavi del club nei tre periodi monitorati al fine del rilascio della licenza.

Per quanto riguarda il debito sostenibile, i club non dovranno superare un deficit nel saldo acquisti-cessioni dei calciatori di oltre 100 milioni di euro al termine di ogni finestra di calciomercato all’interno della stagione per la quale si è richiesta la licenza.

La strada per dare equilibrio al calcio europeo appare tutta in salita. Nella fattispecie, i club italiani sono ancora lontani dalla programmazione di un piano industriale lungimirante, atto a sviluppare investimenti a medio-lungo termine. Gli investimenti per i settori giovanili e per le strutture sono scorporati, e non vengono considerati all’interno del calcolo preso in esame nel rispetto del break even rule.

Gli obiettivi delle società italiane sono improvvisati - principalmente a breve termine - e senza pianificazione la strada si fa ancor più in salita. In una recente intervista Michael Platini - ideatore del Fair Play Finanziario - è tornato a parlare della sua iniziativa. “Il principio ispiratore era imporre ai club di spendere soltanto in rapporto alle loro possibilità - ha sottolineato l’ex presidente dell’UEFA - il FPF doveva servire anche da stimolo per l’auto-sostenibilità, per la crescita delle strutture, dei settori giovanili.

Come e perché le cose siano cambiate va chiesto all’attuale Presidente Ceferin, non a me”.

*La foto di apertura dell'articolo è di Rui Vieira (AP Photo).

February 12, 2020
simone pieretti
Body

Giornalista, scrittore, innamorato di futbol. Scrive per trasmettere emozioni e alimentare sogni. Il calcio è una scienza imperfetta: è arte, è musica, è poesia. E' un viaggio nel tempo che ci fa tornare bambini ogni qual volta diamo un calcio a un pallone.

 

factcheck
Off
hidemainimage
show
Hide sidebar
show
Fullwidth Page
Off

Al Teatro dei Sogni... non si sogna più!

Mino Raiola ci andò giù duro, in un'intervista natalizia per Repubblica: “Il problema di Pogba è il Manchester United: è un club fuori dalla realtà, senza un progetto sportivo. Oggi non porterei più nessuno là, rovinerebbero anche Maradona, Pelè e Maldini”.

Una sintesi brutale della crisi che attanaglia ormai da anni una delle società più ricche e gloriose del mondo. In disperata ricerca di identità, lo United non ha mai veramente superato il trauma dell'abbandono di Sir Alex Ferguson, il “guru” che ha guidato la squadra per 27 anni portandola a vincere 13 Premier, 2 Champions League, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Uefa, una Coppa Intercontinentale, una Coppa del Mondo per club, 5 Coppe d'Inghilterra, 4 Coppe di Lega e addirittura 10 Community Shield.

Da quando l'allenatore scozzese ha lasciato i Diavoli Rossi, nel 2013, è iniziata una lenta e inesorabile discesa verso l'anonimato, la condanna peggiore per un club che ha fatto la storia del calcio.

In questa stagione naviga, per esempio, intorno all'ottavo in classifica, a distanza siderale dal Liverpool capolista. Inaccettabile per i tifosi del Manchester, che in questi anni hanno anche dovuto assistere ai trionfi dei “cugini” del City, sempre più potenti e forti. Nel mirino di pubblico e critica è finito soprattutto l'amministratore delegato Ed Woodward, oggetto di una contestazione a volte perfino violenta.

Ricavi top... acquisti flop - Eppure il fatturato resta a livelli top (785 milioni di dollari), il valore del club supera i 3000 milioni (secondo la rivista Forbes) - per questi numeri il Manchester è dietro solo a Real Madrid e Barcellona nella classifica delle società più ricche del mondo (ma fino al 2017 era addirittura al numero 1) - e il monte ingaggi è il più alto di tutta la Premier League (188 milioni di euro): nonostante tutto questo, lo United fatica perfino a qualificarsi per le Coppe europee.

Un disastro figlio dell'incoerenza con cui è stato portato avanti il progetto sportivo dopo l'addio di Ferguson, con quattro gestioni tecniche molto diverse tra loro: non ha funzionato la “soluzione interna” Moyes, messo sotto contratto addirittura per sei anni ma serenamente licenziato dopo uno, e la conseguente strategia conservativa della rosa.

Stesso risultato con le stagioni delle spese pazze – subito stanziati 250 milioni di sterline per il primo mercato - per accontentare il suo successore Van Gaal; un po' meglio, ma solo un po', con Mourinho, anche perché gli acquisti furono più mirati, con l'arrivo di Ibrahimovic e Pogba; ma appena i risultati sono venuti meno, l'impalcatura creata dal tecnico portoghese è crollata.

Solskjaer, che ha raccolto l'eredità di Mou, è partito benissimo (14 vittorie in 17 partite), convincendo il club a rinnovargli il contratto e a rinunciare così ad affidarsi ad Allegri (in ballo comunque per il prossimo anno), ma poi la squadra è tornata a balbettare, per poi perdersi di nuovo in questa stagione.

Il risultato globale del dopo Ferguson? Sei stagioni senza vincere il campionato, nove senza raggiungere la finale di Champions League. Né i rari successi (una Europa League con Mourinho, una Community Shields, una Coppa d'Inghilterra e una Coppa di Lega) hanno placato l'ira dei tifosi, che accusano la famiglia Glazer, gli americani proprietari del club, di concentrarsi sugli aspetti commerciali, sulla valorizzazione del brand, trascurando in modo decisivo la gestione sportiva.

Che confusione sul mercato - Manca per esempio un direttore sportivo, una figura che faccia da raccordo tra società e squadra e che si occupi del mercato. In estate sono stati spesi 92 milioni – record assoluto per un difensore - per lo stopper Maguire, con il chiaro intento di “imitare” l'operazione Van Dijk del Liverpool, ma l'ex Leicester finora non ha risposto alle aspettative. Né i giovani McTominay e Greenwood, sicuramente dei talenti, sono ancora in grado di imporsi con il carisma degli Scholes o dei Giggs.

Troppo frettolosa, poi, la cessione di giocatori d'esperienza come Lukaku e lo stesso Sanchez, finiti entrambi all'Inter, il cileno addirittura in prestito secco. Delude perfino il portiere de Gea, per anni corteggiato dal Real Madrid: era una sicurezza e adesso invece commette errori incredibili. E Pogba resta ingolfato tra infortuni e voglia di fuga, come ha fatto capire in quella intervista il suo agente Raiola.

“Il nostro obiettivo finale è vincere trofei giocando un calcio entusiasmante, con un una squadra che unisce giocatori della nostra Academy con acquisti di livello mondiale”, è il piano ribadito da Ed Woodward alla presentazione del bilancio relativo al primo trimestre della stagione 2019-2020.

Nonostante i buoni propositi e tanti giocatori interessanti (il 22enne Marcus Rashford, centravanti della nazionale inglese, è sicuramente un fuoriclasse), all'Old Trafford, lo stadio dei sogni, non si sogna più. Possibile che i Red Davils affidino a Max Allegri l'ennesima ricostruzione per la Premier League, ma dovranno prima convincerlo che il progetto sia concreto e poi lasciargli carta bianca nelle scelte tecniche e di mercato.

*La foto di apertura dell'articolo è di Jon Super (AP Photo).

February 11, 2020
Giulio
Body

Giulio è nato giornalista sportivo, anche se di professione lo fa “solo” da 30 anni. Dal 1997 è l'esperto di calciomercato del quotidiano La Repubblica.

Dal '90 segue (senza annoiarsi mai) le vicende della Lazio: collabora anche con Radiosei e dirige il sito Sololalazio.it. Calcio e giornalismo sono le sue grandi passioni. L'unico rimpianto che lo tormenta è aver smesso di dare spettacolo sui campi di calcetto.

 

factcheck
Off
hidemainimage
show
Hide sidebar
show
Fullwidth Page
Off

La carriera di Jürgen Klinsmann tra vittorie e... fughe!

Capelli biondi, movimenti felini e il sorriso sul volto di chi non appena lo lasci libero un secondo segnerà. Questo, per oltre quindici anni, è stato Jürgen Klinsmann, attualmente allenatore dell’Hertha Berlino. Un attaccante letale, che non ha mai deluso le squadre che hanno puntato su di lui. Tra club e nazionale il classe 1964 ha vinto quasi tutto il vincibile.

La sua firma è su un mondiale e un europeo di quelli che la Mannschaft ha in bacheca e il suo fiuto del gol lo ha portato a terrorizzare le difese di mezza Europa, considerando che il tedesco si è messo alla prova in ben quattro dei cinque campionati più importanti del Vecchio Continente, in anni nei quali spostarsi continuamente non era così frequente.


Quando la famiglia si trasferisce a Stoccarda da Göppingen, il giovane Jürgen comincia a giocare per la seconda squadra cittadina, i Kickers, in seconda divisione. Però papà Siegfried fa il panettiere e vuole che il suo ragazzo impari il mestiere prima di gettarsi a capofitto a correre dietro a un pallone. Detto, fatto e nel 1982 Klinsmann può inseguire il suo sogno. Di corsa, perchè il ragazzino è nella sostanza un atleta prestato al calcio quasi per caso: le sue capacità sono da sprinter e non per niente le affina con un allenamento personalizzato con uno degli allenatori della nazionale tedesca di atletica.

L’esperienza con i Kickers dura poco, perché lo Stoccarda, quello “vero”, nota quel biondino che riesce a correre i 100 metri con tempi da velocista. E quella velocità lui la applica con il pallone tra i piedi. Arrivano i gol, tanti, fino a diventare capocannoniere della Bundesliga e a portare lo Stoccarda alla finalissima di Coppa UEFA, persa contro il Napoli di Maradona.


L'avventura in Italia - Un talento del genere non può sfuggire al calcio italiano, anche perché ha due compagni di nazionale che sono già all’Inter. E quindi nel 1989 i nerazzurri decidono di lasciare andare Ramon Diaz, protagonista dello Scudetto dei record dell’anno precedente, per dare a Klinsmann il posto di terzo straniero. Assieme a Matthäus e Brehme forma il trio dei Panzer, che si contrappone a quello dei Tulipani del Milan.

In Italia non riesce a conquistare il campionato, ma nel 1990 la Coppa del Mondo non gli sfugge. E neanche la Coppa UEFA 1990/91, vinta in finale contro la Roma. I tifosi nerazzurri si innamorano, nonostante la perfida Gialappa’s Band decida di regalargli il soprannome di “Pantegana Bionda” per un clamoroso liscio sottoporta, non proprio da bomber consumato.


Lascia l’Italia nel 1992. Dovrebbe andare al Real Madrid, ma finisce per accasarsi al Monaco e anche in Ligue 1 continua a fare quello che gli riesce meglio: segnare, trascinando anche la squadra del Principato alle semifinali di Champions League. Poi qualcosa si rompe e nel 1995 il tedesco decide di andare in Inghilterra, al Tottenham. Al di là della Manica lo accolgono con l’etichetta di simulatore, per il rigore non proprio solare conquistato nella finale di Italia ’90.

Lui, per tutta risposta, alla prima partita con gli Spurs segna di testa ed esulta con un bel tuffo sull’erba. Da tuffatore a leggenda, il passo è brevissimo. Ancora oggi, dalle parti di White Hart Lane, Klinsmann è un mito, nonostante abbia giocato una sola stagione da quelle parti. Ma 29 gol in 50 presenze parlano da soli.


Torna in Germania, al Bayern Monaco, dove si toglie la soddisfazione di vincere un’altra Coppa UEFA e l’unico campionato della sua carriera, intervallati dall’Europeo ’96. Si fa rivedere brevemente in Italia, con la maglia della Samp, ma quando sente il peso degli anni che passano decide di chiudere con mezza stagione al Tottenham.

Anzi no, perché si trasferisce negli Stati Uniti e, tra un corso da allenatore e l’altro, si fa rivedere sotto falso nome (Jay Göppingen, come la sua città di nascita) in una squadra di quarta serie in California.


Inizia una nuova carriera - Il destino però è la panchina e neanche una qualsiasi. La Germania sceglie lui per guidare il programma di rinnovamento in vista dei Mondiali casalinghi del 2006. I tanti giovani lanciati e il calcio offensivo praticato spaventano i tradizionalisti tedeschi, ma i risultati non mancano. La squadra di Klinsmann si arrende solo all’Italia Campione del Mondo e arriva terza nella rassegna iridata.

Non basta per evitare le critiche e quindi il CT non rinnova il contratto, preferendo lasciare la panchina al suo secondo Löw. Che, anche partendo dal lavoro del suo predecessore, arriverà a vincere i mondiali nel 2014.


Le altre esperienze da allenatore non sono però entusiasmanti. Klinsmann riesce a essere uno dei pochi tecnici a fallire totalmente al Bayern, che nella stagione 2008/09 termina secondo alle spalle del sorprendente Wolfsburg. Ma il biondo ex attaccante non c’è già più, esonerato nell’aprile 2009 con la squadra al terzo posto.

Segui la lotta al titolo 2020 in Bundesliga!

Nel 2011 chiama anche la sua patria adottiva, gli Stati Uniti. La nazionale a stelle e strisce si comporta bene nel ciclo che porta al mondiale 2014. Nel 2013 gli statunitensi vincono la Gold Cup e in Brasile vengono eliminati dal Belgio agli ottavi di finale, dopo aver portato i Diavoli Rossi ai supplementari. Gli anni successivi però sono deludenti e quando gli USA perdono le prime due partite di qualificazione a Russia 2018, viene esonerato.


Ora sembrava arrivata una nuova opportunità per il tedesco, con l’Hertha Berlino che aveva puntato su di lui dopo aver esonerato Ante Čović. La società della capitale tedesca aveva anche investito tanto nel mercato di gennaio da diventare il club che ha speso di più nella sessione invernale: 76 milioni per Tousart, Piatek, Cunha (bomber del Brasile olimpico) e Ascacíbar.

Per lui 10 settimane di gestione a Berlino e qualche disavventura di troppo, come aver dimenticato in California i documenti per rinnovare la licenza da allenatore, il calcio tedesco ha riaccolto a braccia aperte “Klinsi”, che, anche da allenatore, non perde il sorriso sornione e si dimette, clamorosamente, su Facebook! E che, da buon panettiere, sa sempre trovare la ricetta giusta per far… crescere la sorpresa dei suoi sostenitori!

*La foto di apertura dell'articolo è di Martin Meissner (AP Photo).

February 11, 2020
Ermanno Pansa
Body

Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

factcheck
Off
hidemainimage
show
Hide sidebar
show
Fullwidth Page
Off

Il difensore più forte di sempre

Il ritorno di King Kong. Ma, strano a dirsi, non è un film. In compenso, però, è un momento particolarmente atteso.

Il tormentone Kiricocho

Giorgio Chiellini Capitano

L'inizio sulla fascia

Chiellini leader dello spogliatoio

Chiellini - Bonucci: coppia di mille battaglie

Dopo un infortunio che a 36 anni poteva significare la fine di una carriera lunga e vincente, Giorgio Chiellini vince da protagonista assoluto Euro 2020! 

"L'acquisto" migliore del mercato del Mancio tra le big...

Il tormentone Kiricocho

Prendendo spunto da un tifoso non particolarmente fortunato dell'Estudiantes, squadra argentina conosciuta in Italia per il magico destro di Veron, Chiello grida Kiricocho ad ogni tentativo di trasformazione di rigori degli inglesi nella finale di Wembley. Alla facciaccia degli scaramantici...

Giorgio Chiellini Capitano

Per King Kong è stata la prima grande competizione da capitano, considerando che fino alle sciagurate qualificazioni per il mondiale 2018 la fascia era sul braccio di Gigi Buffon.

Poi con l’addio del portierone la responsabilità di essere il leader degli azzurri è ricaduta sull’altro veterano juventino, che però ha rischiato di dover rinunciare alla competizione dopo l’infortunio subito a inizio campionato.

I tempi di recupero sono stati quelli previsti e con gran parte del girone di ritorno ancora da giocare Chiellini può presentarsi in forma all’appuntamento continentale.

Chiellini controlla Kane

L'inizio sulla fascia

Centrali affidabili come Re Giorgio, del resto, non è che se ne trovino troppo facilmente. Anche se Chiellini, in fondo, nasce terzino. Ai tempi del Livorno e della Fiorentina, ma anche quando ha esordito in maglia bianconera, il capitano della nazionale si trovava parecchio più a suo agio sulla fascia sinistra.

Poi però Capello, già nel 2005, lo ha dirottato nel bel mezzo della difesa. E, a parte il breve periodo in cui la Juventus di Conte ha adottato la difesa a 4, è sempre rimasto lì.

Proprio la necessità di far convivere King Kong con Barzagli e Bonucci, con cui ha formato la celebre BBC, è stata la spinta che ha convinto il tecnico pugliese a passare al 3-5-2, dando di fatto il via all’epoca d’oro degli otto scudetti bianconeri.

Chiello esulta alla prima stagionale a Parma!

 

Chiellini leader dello spogliatoio

Anche a Torino per diventare capitano Chiellini ha dovuto attendere, perché come in nazionale si è trovato davanti l’amico Gigi Buffon, salvo poi ereditarne la fascia quando il portiere ha deciso di provare l’esperienza al Paris Saint-Germain.

La leadership, però, considerando che Buffon ovviamente non poteva allontanarsi troppo dall’area di rigore, quella è sempre stata di Chiellini. Che sia in campo che nello spogliatoio si è spesso fatto sentire, addrizzando la barra quando la squadra non andava nella giusta direzione e prendendosi la responsabilità di rappresentare i valori bianconeri nei momenti più duri.

La difesa a tre, considerando la storia del tecnico toscano, non sembra una opzione credibile, mentre visti i problemi sugli esterni l’idea di dirottare di tanto in tanto il capitano sulla sinistra come sostituto di Alex Sandro non è da escludere, soprattutto quando la stagione entrerà nel vivo.

Chiellini - Bonucci: coppia di mille battaglie

Con la Nazionale, al netto di una forma da ritrovare, il posto al centro della difesa è invece certamente di Chiellini, sempre al fianco dell’amico Bonucci. Le uniche presenze da terzino risalgono infatti al periodo precedente a Euro 2008. Proprio dalla manifestazione in Austria e Svizzera Chiellini si è preso il posto che è stato di Cannavaro e non lo ha mollato più.

Per lui in azzurro però più dolori che gioie, a partire proprio dal primo grande torneo, quando l’Italia è uscita ai calci di rigore con la Spagna. Va anche peggio nel 2010, quando Chiellini  gioca tutti i 270 minuti del disastro in Sudafrica. Altalenante invece l’Europeo di calcio in Polonia e Ucraina. L’Italia arriva fino alla finale, ma Chiellini è costretto ad abbandonare il campo dopo 21 minuti, con la Spagna in vantaggio solo per 1-0, prima della goleada degli uomini di Del Bosque.

Sempre nel 2012, però, arriva la prima presenza da capitano, in un’amichevole contro la Francia. Da quel momento in poi, ne sono arrivate altre nove. La fascia non era sul suo braccio in Brasile nel 2014, quando Chiellini è protagonista di uno dei momenti indimenticabili del Mondiale: durante il match contro l’Uruguay, lo juventino viene morso da Suarez senza che l’arbitro se ne accorga, mentre la nazionale affonda nel girone, in cui passano i sudamericani e una sorprendente Costa Rica.

Nel 2016, all’Europeo, arriva la beffa delle beffe. Chiellini gioca sempre (escludendo la partita ininfluente contro l’Irlanda), ma al minuto 120 della semifinale con la Germania viene incredibilmente sostituito… da Zaza, che entra per tirare quel rigore che poi manderà alle stelle.

In Euro 2020 una firma clamorosa sulla vittoria Azzurra: con l'incredibile record di... zero dribbling subiti durante l'intero torneo!

A lui, capitano di lungo curriculum ma di breve corso, il compito di guidare la squadra di Mancini anche in Qatar. E nelle mani di King Kong ci si sente tutti un po’ più tranquilli…

Segui il 2021 di calcio con 888sport!

*La foto di apertura dell'articolo è di Frank Augstein (AP Photo). Prima pubblicazione 10 febbraio 2020

July 15, 2021
Ermanno Pansa
Body

Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

factcheck
Off
hidemainimage
show
Hide sidebar
show
Fullwidth Page
Off

Nicolini e l’incredibile semifinale dell’Atalanta


Nella stagione 1987-’88, l’Atalanta di Emiliano Mondonico si è resa protagonista di un’impresa che è rimasta nella storia del calcio europeo: disputando la Serie B, infatti, si spinse fino alle semifinali di Coppa delle Coppe, la competizione che, fino al 1999, l’Uefa riservava alle formazioni vincitrici delle rispettive coppe nazionali.

L’Atalanta vi si era qualificata come finalista della Coppa Italia 1986-’87, persa contro il Napoli di Maradona che però, in quanto vincitore dello scudetto, andò a disputare la Coppa dei Campioni, lasciando ai bergamaschi il posto in Coppa delle Coppe, adesso ricompresa nella Europa League

Il cammino europeo dell’Atalanta, in un’annata conclusasi con un quarto posto tra i cadetti e la promozione in Serie A acciuffata per un punto, fu tanto sorprendente quanto esaltante: all’eliminazione, con qualche patema di troppo, dei gallesi del Merthyr Tydfil al primo turno, fece seguito quella ai danni dei greci dell’Ofi Creta negli ottavi di finale.

Il vero e proprio capolavoro dei nerazzurri, però, si compì ai quarti: il sorteggio, infatti, riservò il temibile Sporting Lisbona alla squadra di Mondonico che conquistò le semifinali grazie alla splendida vittoria per 2-0 in casa e al pareggio 1-1 in Portogallo. Il cammino europeo dei cadetti nerazzurri si concluse al termine di una doppia e sfortunata semifinale contro i belgi del Malines, che vinsero poi il trofeo a Strasburgo, ma quel risultato rimane tutt’ora il punto più alto raggiunto in una competizione Uefa da una formazione militante in un campionato di seconda divisione.


Abbiamo parlato, in esclusiva per 888sport.it, di quell’incredibile avventura con uno dei protagonisti principali, Eligio Nicolini, centrocampista di quell’Atalanta e autore del gol del vantaggio all’andata contro lo Sporting. Con lui abbiamo ricordato quella grande impresa, mettendola in parallelo con quella che sta portando avanti quest’anno l’Atalanta di Gasperini in Champions League.

Che ricordo hai di quella straordinaria cavalcata in Coppa delle Coppe?
“Fu davvero inaspettata. A inizio stagione, pensavamo di poter fare un buon campionato in Serie B, ma sicuramente non di andare così avanti nelle coppe europee. Per noi è stata davvero una piacevole sorpresa, ma con il passare del tempo e i turni superati, è cresciuta sempre più in noi l’ambizione di poter arrivare fino in fondo”.

Il doppio impegno, per voi e per l’Atalanta di oggi, può diventare un problema da gestire o, addirittura, un impiccio per gli obiettivi da conseguire in campionato?
“Per noi non è stata una scocciatura, ma sicuramente un problema: la nostra rosa era composta da sedici giocatori, quindi cinque o sei di noi dovevano giocare sempre, sia in campionato che in Europa. Oggi, con venticinque o addirittura trenta uomini a disposizione dell’allenatore, è più facile gestire due o anche tre fronti. 

Quale partita di quella Coppa delle Coppe ricordi con più piacere?
“Sicuramente la sfida di ritorno dei quarti a Lisbona perché ci ha convinto che avremmo potuto arrivare fino in fondo. Di fatto quella con il Malines era la finale anticipata: i belgi, infatti, hanno poi trovato l’Ajax che non era la squadra vincente che sarebbe diventata negli anni ‘90. Gli olandesi erano una banda di ragazzi che avrebbe fatto molta fatica a imporsi contro di noi o contro il Malines, come poi è stato”.

La doppia sfida con il Malines fu maledetta. A distanza di anni, è più la gioia per essere arrivati fino a lì o il rammarico per una finale sfumata?
“Prevale il dispiacere. Nel doppio confronto siamo stati sfortunati: all’andata in Belgio abbiamo perso 2-1, ma avremmo potuto tranquillamente pareggiare, mentre al ritorno ci è stato negato un rigore sacrosanto sull’1-1. Poi il Malines ha trovato un gol che capita una volta nella vita, con il difensore Graeme Rutjes che ha infilato il pallone sotto l’incrocio, calciando di sinistro al volo dal limite dell’area”.

Eravate una bella squadra e con voi c’era un fuoriclasse, Strömberg. Che effetto faceva avere un giocatore del genere in Serie B?
“Glenn aveva già esperienza internazionale, avendo vinto la Coppa Uefa con il Göteborg nel 1982 ed era un giocatore affermato a livello europeo che poteva darci qualcosa in più. Ma c’erano molti altri giocatori importanti, come Fortunato, Garlini, Cantarutti e Ivano Bonetti: la nostra squadra era un mix di esperienza e di talento, con l’entusiasmo di un gruppo di ragazzi che volevano arrivare in alto”.

Facendo un parallelo, vedi delle similitudini tra la vostra Atalanta e quella di oggi, che sta facendo grandi cose in Champions League?
“La similitudine si può vedere nella sorpresa, nell’entusiasmo, nella fame e nella voglia di arrivare a ottenere risultati importanti. Penso che, sotto l’aspetto puramente tecnico, la nostra squadra aveva giocatori di qualità migliore. Nell’Atalanta di Gasperini, solamente Gomez e Ilicic sono a livello superiore: se quei due dovessero giocare sempre com’è nelle loro possibilità, tutte le avversarie avrebbero problemi contro i nerazzurri.

Se, però, loro scendono con la qualità e non riescono a esprimersi al meglio, anche l’Atalanta fa fatica”.

Per le nostre scommesse calcio, la vittoria dell’Atalanta in Champions League si può giocare @61.00!

Un altro parallelo: Mondonico giocava un calcio più speculativo, Gasperini è più spettacolare. Concordi?
“Erano altri tempi. All’epoca, Mondonico era uno dei più bravi a leggere le situazioni in campo, come fa Gasperini quest’anno. Sono molto simili anche nel modo di far proporre il gioco alla propria squadra e a cambiare le partite con i cambi dalla panchina. Ma quello era un calcio molto diverso”.

Segui le coppe europee con le quote di 888sport!

*La foto di apertura dell'articolo è di Luca Bruno (AP Photo).

February 8, 2020
Emanuele Giulianelli
Body

Scrittore e giornalista freelance, collabora regolarmente con il Corriere della Sera, con La Gazzetta dello Sport, con Extra Time, Rivista Undici, Guerin Sportivo e con varie testate internazionali come Four Four Two, Panenka e Tribal Football. Scrive per B-Magazine, la rivista ufficiale della Lega Serie B.


I suoi articoli di calcio internazionale e geopolitica sono stati pubblicati, tra gli altri, su FIFA Weekly, il magazine ufficiale della federazione internazionale, su The Guardian, The Independent e su Eurasianet. Ha lavorato come corrispondente sportivo dall’Italia per Reuters.


Ha pubblicato tre libri, l'ultimo dei quali, "Qarabag. La squadra senza città alla conquista dell'Europa" edito da Ultra Sport, è uscito nel 2018.
 

factcheck
Off
hidemainimage
show
Hide sidebar
show
Fullwidth Page
Off

Un derby per... milanesi!

Inter contro Milan. Biscione contro Diavolo. Nerazzurri contro Rossoneri. Pinetina contro Milanello. Quando si scontrano le due squadre che giocano a calcio sotto alla Madonnina, è quasi sempre spettacolo. Del resto, la supremazia cittadina è cosa assai importante, soprattutto in un momento storico in cui le milanesi non riescono ancora ad essere assolute protagoniste, guardando agli albi d’oro, come imporrebbe la storia dei due club.

Il mondo intero guarda a San Siro, ma lo fa in particolare Milano. Che nel corso degli anni, anzi, di oltre un secolo, ha regalato parecchi calciatori a entrambe le squadre. Ora come ora, l’unico milanese doc (o quasi) è l’interista Biraghi, nato a Cernusco sul Naviglio e Daniel Maldini, per i rossoneri! Ma spulciando nel passato si trovano nomi di un certo spessore…


A partire da colui che dà il nome allo stadio dove si gioca il Derby Giuseppe Meazza, detto il Balilla ma che per tutti i milanesi resta Peppin. Uno che dalla Madonnina, sotto cui è nato nel 1910, si è preso il mondo. Un ragazzino nato nel quartiere popolare di Porta Vittoria, che sognava di andarsi a comprare i primi scarpini nelle botteghe di Corso Venezia. Complicato pensare che possa esserci in futuro un calciatore che rappresenti meglio la città di Peppin.

Meazza è un mito condiviso, anche se la carriera è comunque più a tinte nerazzurre. Ha giocato e segnato (anche nei derby) con entrambe le maglie ed è stato protagonista anche con quella azzurra, vincendo la Coppa del Mondo del 1934 e quella del 1938. Certo, per il Milan resta uno spauracchio. 12 gol, record della stracittadina per i nerazzurri. E quando segnava lui, come minimo l’Inter il derby lo pareggiava. Come anche nel 1942, anno della sua unica rete all'Inter con la maglia del Milan, un 2-2 realizzato a tempo quasi scaduto.


L’eredità di Meazza, a ben vedere, se la sono divisa (con ottimi risultati) in due. Al Milan, parlando di milanesi, impossibile non pensare a Paolo Maldini. Papà Cesare non era nato sotto la Madonnina, ma quando viene alla luce Paolino è collaboratore tecnico dei rossoneri, di cui è stato capitano. E quindi il futuro terzino (e centrale) rossonero nasce proprio a Milano, dove passerà tutta la sua carriera, diventando un mito del calcio milanista e non solo.

Primatista assoluto di presenze con la maglia del Diavolo (902), esordiente più giovane del club (16 anni e 208 giorni) e tanti altri record, oltre a un palmares sterminato. Basterebbero 7 scudetti e 5 Champions League per raccontare la caratura di Paolo Maldini e la sua importanza per la storia rossonera. Ma anche il numero di derby giocati è da record: 56, tutti con la maglia del Milan.


Dall’altra parte del campo, però, Paolino ha spesso incontrato un omologo importante. A differenza del collega, Beppe Bergomi ha in bacheca un titolo mondiale. Lo conquista nel 1982, da protagonista, ad appena 18 anni. Lo Zio, nato a Settala nel 1963, è un simbolo dell’Inter, seconda favorita per lo Scudetto 2020 dopo la Juve per le scommesse Serie A,  ma poteva finire…al Milan. Peccato che i rossoneri lo scartino per problemi fisici, regalando ai cugini uno dei calciatori più celebri della loro storia.

Come Maldini, Bergomi non tradirà mai la squadra della sua città, giocando vent’anni in maglia nerazzurra. Anche lui è il più giovane esordiente del club (16 anni, 1 mese e 8 giorni) ed è stato capitano dell’Inter dal 1992 al 1999, dopo l’addio di Beppe Baresi. Lo Zio, inoltre, ha un record abbastanza particolare per un difensore. Al suo primo derby, nel 1981 in Coppa Italia, trova subito il gol. Segno premonitore di una carriera stellare.


Nel corso dei decenni, poi, altri calciatori nati a Milano sono stati protagonisti della stracittadina meneghina. C’è chi, come Christian Brocchi, può fregiarsi dello stesso onore di Meazza e dire di aver vestito entrambe le maglie, pur non avendo mai segnato nel derby. Chi invece, come Aldo Maldera, è diventato un simbolo rossonero dopo aver passato gran parte delle giovanili assieme al nerazzurro (ma comasco) Lele Oriali. E il terzino ha deciso il derby del novembre 1978 con un gol di testa. Di recente, pochi milanesi purosangue hanno fatto capolino nelle rose di Milan e Inter.

L’ultimo a lasciare è stato Montolivo, che è cresciuto a Caravaggio, Bergamo, ed è diventato calciatore nell’Atalanta, ma che sulla carta di identità ha F205 nel codice fiscale. Peccato per lui che al suo primo derby, nel 2014, gli venga annullata una rete. Punti bonus ad Abbiati, che non è nato esattamente in città, ma resta in provincia essendo venuto alla luce a, ironia della sorte, Abbiategrasso. Nel 1999 il portiere prova a rovinare il Derby a Ronaldo, ma non riesce a parare il rigore del Fenomeno.


Ma non si può ragionare sui protagonisti milanesi del derby della Madonnina senza citare una leggenda del calcio tricolore. Giovanni Trapattoni, da Cusano Milanino. Il Trap da giocatore veste praticamente solo la maglia rossonera (escludendo una stagione al Varese), ma paradossalmente da allenatore diventa una leggenda della Juventus… e dell’Inter! In realtà comincia guidando il Diavolo, ma dopo due stagioni viene scelto dalla Signora, con cui vince tutto quello che si può vincere. Poi però Milano chiama, stavolta dalla sponda nerazzurra.

Con l’Inter il palmares di Trapattoni non è così sterminato, ma il tecnico classe 1939 riesce comunque a farsi ricordare. Vince la Coppa UEFA 1990/91 battendo in finale la Roma, ma soprattutto regala al club uno scudetto atteso quasi un decennio. Nella stagione 1988/89 l’Inter del Trap batte tutti i record dei campionati a 18 squadre, iscrivendosi nei libri di storia del calcio italiano. Considerando che con il Milan,  da calciatore, ha sollevato due Coppe dei Campioni, impossibile non pensare che tutta la “sua” Milano, in fondo, gli sia parecchio riconoscente.

Nonostante da allenatore abbia fatto piangere entrambe le tifoserie (Milan-Inter 3-0 nel 1975 e Milan-Inter 0-1 nel 1988 sono i derby più celebri).

Segui il derby con le scommesse Serie A di 888sport!

*La foto di apertura dell'articolo è di Antonio Calanni (AP Photo)

February 8, 2020
Ermanno Pansa
Body

Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

factcheck
Off
hidemainimage
show
Hide sidebar
show
Fullwidth Page
Off