Quale futuro per il Monaco?

Un'altra stagione in chiaroscuro per il Monaco. La squadra del Principato, che si è da poco affidata all’ex CT della Spagna Robert Moreno, naviga neanche troppo tranquillamente a metà classifica in Ligue 1. Non certo la posizione che ci si aspetta da un club che negli ultimi anni è riuscito a combattere lo strapotere del Paris Saint-Germain.

Anzi, che per certi versi ha anche fatto meglio dei capitolini, visto che nel 2016/17 ha addirittura disputato le semifinali di Champions League, un risultato che la squadra di proprietà del fondo di investimento del Qatar, per il momento, non ha mai raggiunto con la nuova gestione.


Tutto bene... fino al divorzio del Presidente - Sorpresa, dunque, ma fino ad un certo punto. Nell’ultimo decennio la storia del Monaco è stata simile a una corsa in ascensore. O, meglio ancora, sulle montagne russe. Basterebbe pensare che nel 2011, poco prima dell’acquisto dei due terzi della società da parte del magnate russo Rybolovlev (l’altro terzo appartiene alla famiglia regnante dei Grimaldi), il Monaco era sprofondato in Ligue 2, arrivando diciottesimo in campionato.

L’anno successivo neanche la nuova società era riuscita a riportare subito il club nella massima serie, ma si è dovuto attendere l’arrivo di un vero esperto: Claudio Ranieri ha fatto vincere ai monegaschi il campionato cadetto e l’anno successivo li ha portati al ritorno in Champions League, con il secondo posto in Ligue 1.


Poi però l’ascensore ha ricominciato a muoversi verso il basso. Colpa… del divorzio di Rybolovlev, che ha costretto il club a dismettere un patrimonio di calciatori davvero importante. In compenso, al posto di Ranieri è arrivato Leonardo Jardim, che in capo a tre anni è riuscito in un vero e proprio miracolo. Nella stagione 2016/17, quella che vede sbocciare il giovane fenomeno Mbappè, il Monaco vince il suo ottavo titolo di Francia e arriva a un passo dal giocarsi la finale di Champions League, venendo eliminato dalla Juventus di Allegri.

Poi però qualcosa si rompe di nuovo, al punto che nella stagione 2018/19 il club vede da vicino l’incubo di una nuova retrocessione e licenzia Jardim, chiamando Henry. Le cose vanno ancora peggio e il portoghese torna in sella, arrivando diciassettesimo. Ma la stagione attuale dimostra che le montagne russe non hanno ancora finito la loro corsa.


Che plusvalenze - Nel corso degli anni, comunque, al Louis II sono passati fior di campioni, che spesso si sono affermati in biancorosso per poi essere rivenduti a prezzo d’oro. È certamente il caso di James Rodriguez, che arriva dal Porto nella stagione 2013/14 per 45 milioni e dopo appena un anno vola verso il Real Madrid per 75 milioni. I migliori affari, però, vengono decisamente dalla cantera e da calciatori acquistati da altre squadre francesi.

Tra Mbappè (180 milioni incassati dal PSG), Lemar (70 milioni spesi dall’Atletico Madrid), Martial (60 milioni dallo United), Mendy (58 milioni dal City) e molti altri il Monaco ha incassato oltre un miliardo di euro dalle cessioni ad altri club tra il 2010 e il 2020.


Anche con gli acquisti, però, nel Principato si sono dati da fare. Molti dei grandi colpi (e delle grandi cessioni successive) sono arrivati grazie all’influenza di Jorge Mendes. Nel corso degli anni il procuratore portoghese ha spesso lavorato fianco a fianco con il Monaco, curando affari come l’arrivo di Falcao dal Porto (altra società a lui molto vicina), quello di Bernardo Silva dal Benfica e quello del già citato James Rodriguez, anche lui dal Porto.

Tra gli altri assistiti dell’agente di CR7 che hanno vestito la maglia del Monaco ci sono anche Fabinho, ora al Liverpool e Joao Moutinho, attualmente alla squadra più portoghese della Premier League, il Wolverhampton.


Quanta Italia al Monaco - Sarà la vicinanza dal confine, ma nel corso degli anni ci sono stati anche parecchi italiani che hanno vestito la maglia del Monaco. Dopo che Andrea Raggi, una vera istituzione nel Principato (è stato anche capitano), ha lasciato il club nella scorsa stagione, al momento l’unico connazionale è Pietro Pellegri, arrivato giovanissimo dal Genoa, ma che al Monaco è stato martoriato da infortuni. Sempre lo scorso anno, in prestito, è anche arrivato Antonino Barreca. Guardando ancora più indietro, spuntano altri protagonisti tricolori.

Morgan De Sanctis, arrivato al Louis II dopo l’esperienza alla Roma, o Stephan El Shaarawy, preso in prestito dal Milan ma mai riscattato nonostante le buone prestazioni. E poi, andando più indietro nel tempo, Bobo Vieri, con una toccata e fuga, Marco Di Vaio, protagonista di una buona stagione, Marco Simone, uno dei primi italiani ad andare a giocare in Francia, e Flavio Roma, portiere con una militanza più che decennale nel Principato.

Complicato al momento attuale capire se l’ascensore possa ricominciare a salire. L’ultima nidiata di giovanissimi non ha ancora portato ad emergere nuovi potenziali fenomeni e l’arrivo di calciatori di esperienza ma non più giovanissimi (Keita Baldé, Fabregas o Jovetic) non lascia presagire un futuro migliore di un presente da metà classifica.

Ma si parla comunque di una delle squadre più vincenti della storia della Ligue 1 (8 titoli, come il PSG che scommesse e quote per il calcio danno tra le favorite della Champions 2020, uno in meno del Marsiglia e due meno del Saint-Etienne).

E anche del club che in panchina ha lanciato Wenger, Deschamps. Una squadra che all’Italia sta a cuore, un po’ per vicinanza geografica un po’ per dei piccoli pezzi di storia. Il miglior marcatore di sempre con 221 reti, è Delio Onnis, nato in Ciociaria e volato in Argentina da bambino. Il calciatore con più presenze è Jean-Luc Ettori, che volendo poteva giocare con la nostra nazionale. E poi, oltre a Ranieri, ci sono stati altri tre tecnici tricolori. Prima Angelo Grizzetti, colui che ha regalato per la prima volta la Ligue 1 al club nel 1953.

Poi Francesco Guidolin, che nel 2005 ha sostituito Deschamps, facendo però male. E infine Marco Simone, che nel 2011 non è riuscito a tirare fuori i monegaschi dai meandri della Ligue 2. Anche per gli italiani, il Monaco è un ascensore. E capire a che piano si fermerà è sempre una bella scommessa.

*La foto di apertura dell'articolo è di Daniel Cole (AP Photo).

February 7, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Un Paese senza capitale sportiva

 

Non esiste una capitale d’Italia dello Sport. E’un dato che emerge prendendo in considerazione le cinque discipline più diffuse sul territorio nazionale: calcio, basket, pallavolo, rugby e pallanuoto. Le grandi città come Roma e Milano si si difendono su più fronti, anche se mancano clamorosamente in alcuni campionati di primo livello; la capitale d’Italia non è rappresentata nella pallavolo, mentre da questa stagione - dopo anni di assenza - ha ritrovato la squadra di basket in grado di rappresentarla degnamente.

Le compagini romane sono saldamente presenti anche negli altri sport più diffusi del Paese: nel Rugby c’è la Lazio a tenere alta la bandiera capitolina, l’altro sodalizio è rappresento da un gruppo militare (Le Fiamme Oro) presente sul territorio. Nella Pallanuoto c’è addirittura il derby (Lazio-Roma) in grado di rappresentare al meglio una tradizione che va avanti almeno dai tempi delle Olimpiadi di Roma 1960. Il calcio, naturalmente, resta il primo amore per il popolo della capitale che ha il cuore diviso tra Lazio e Roma.

La Milano da... canestro - Milano dopo i ruggenti anni ’90 sta provando a rialzare la testa; le due squadre di calcio restano il punto di riferimento di una città che in passato era riuscita ad abbracciare una cultura polisportiva grazie all’avvento di Silvio Berlusconi; durò pochissimo la Mediolanum, società in grado di primeggiare anche nel volley e nel rugby.

Il calcio rimase l’unico vettore in grado di restituire un ritorno di immagine roboante al magnate lombardo che tentò - invano - di acquistare anche la squadra di basket. L’Olimpia Milano resta una realtà molto solida, grazie anche all’intervento dello stilista Giorgio Armani che evitò il fallimento della squadra dalla scarpette rosse. Milano tiene strada anche nel Volley, mentre per gli altri sport non si hanno tracce del rugby, e della pallanuoto, disciplina questa, mai amata all’ombra del Duomo.

Al di là del bipolarismo Roma-Milano, le altre grandi città italiane non riesco a tenere il passo, vuoi per cultura sportiva, vuoi per quella crisi economica che ha mandato all’aria progetti sportivi decennali. Torino - grazie alla Juventus - da quasi un decennio domina il mondo del calcio, una tirannia sportiva che non trova riscontri in altre discipline; niente basket, niente volley, niente rugby, niente più pallanuoto di livello: la prima - storica - capitale d’Italia deve accontentarsi - negli altri sport - di spettacoli di seconda visione.

Genova, Firenze e Bologna - Per restare nel triangolo industriale, non va meglio a Genova, aggrappata alle sue due squadre di calcio, in questa stagione neanche troppo performanti. A tenere alto l’onore del popolo ligure c’è la pallanuoto con la Pro Recco, straordinario sodalizio nazionale e internazionale, ma ciò non basta a legittimare l’eccellenza dello sport sotto la Lanterna.

Se scendiamo lungo lo Stivale, va decisamente meglio a Firenze che oltre al calcio, vive di pallanuoto e di rugby; la Fiorentina è un’indelebile passione per tutti i fiorentini, ma la tradizione in vasca permane intatta, con la Florentia capace di difendere il gonfalone gigliato anche in piscina. La prima visione dello sport nazionale riguarda anche il rugby con il sodalizio dei Medicei, chiaro riferimento alla famiglia de Medici.


Bologna è da sempre un feudo cestistico: Virtus e Fortitudo basket infiammano le domeniche degli sportivi felsinei, la passione per il pallone a spicchi va di pari passo con quella del calcio, e accoglie gli stessi appassionati del futbòl. A Napoli la passione per il calcio lascia poco spazio alle altre discipline; c’è la pallanuoto, e non potrebbe essere altrimenti con due squadre che si danno battaglia: la piscina Scandone è una sorta di San Paolo in miniatura, dove la passione sportiva ribolle da decenni.

Quando la provincia si fa rispettare - Le grandi città, come abbiamo visto, non sempre riescono a tenere il passo nelle maggiori discipline sportive del Paese. La provincia italiana è quella che riesce a portare avanti i maggiori progetti, con discreto successo; Brescia - in tal senso - è uno degli esempi virtuosi. Il calcio è tornato da quest’anno nella massima serie, ma ci sono anche il basket e la pallanuoto ad accompagnare le domeniche sportive dei cittadini bresciani.

Basket e pallanuoto primeggiano anche a Trieste, dove il calcio vive un momento di oscurantismo, Padova si fa bella nel volley e nel rugby aspettando giorni migliori dal punto di vista calcistico, a Trento primeggiano basket e pallavolo, i due sport più praticati nelle scuole secondarie italiane, Verona - oltre all’Hellas - può godersi lo spettacolo della Serie A di pallavolo.

Un’altra provincia illustre dal punto di vista sportivo è quella di Treviso; oggi la squadra di calcio è precipitata di categoria, la formazione di volley ha perso quell’appeal dei giorni migliori mentre resiste la grande tradizione rugbistica (Mogliano) e sotto i tabelloni della pallacanestro.

In Italia non c’è una vera e propria capitale dello Sport: le grandi città provano a tenere il passo senza affermare un’egemonia totalitaria nei campionati degli sport più diffusi. Alla fine, la fotografia è quella del Paese dei mille campanili, sportivamente “medievale”, ricchissimo di passione e di sogni.

*La foto di apertura dell'articolo è di Antonio Calanni (AP Photo).


 

February 7, 2020
simone pieretti
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Giornalista, scrittore, innamorato di futbol. Scrive per trasmettere emozioni e alimentare sogni. Il calcio è una scienza imperfetta: è arte, è musica, è poesia. E' un viaggio nel tempo che ci fa tornare bambini ogni qual volta diamo un calcio a un pallone.

 

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Quando il Borussia era... il Mönchengladbach!

C'era una volta il Borussia Mönchengladbach dei miracoli. E, forse, oggi c'è ancora. I tifosi biancoverdi sognano ad occhi aperti: per chi c'era, ripensando alle gesta epiche degli anni '70; per i più giovani, l'emozione di vivere in prima persona, finalmente, i racconti tramandati dai padri, che parevano una leggenda circoscritta a un tempo irripetibile.

Vedere la squadra lassù, in Bundesliga, riempie il cuore d'orgoglio dei 260mila abitanti della Renania Settentrionale-Vestfalia, quell'importante centro tessile a pochi passi dall'Olanda. Un tempo, a tremare dal calore del pubblico, erano gli spalti del vecchio Bökelbergstadion, ribollente casa dei "Fohlen", i "Puledri", fino al 2004.

Oggi, invece, sono i seggiolini del Borussia Park, forse il più avveniristico degli stadi in Germania, situato all'interno del Parco Nord di Mönchengladbach, nel mezzo di un'area di 209.072 metri quadrati totalmente dedicata allo sport che comprende, oltre a numerosi campi di allenamento, anche una stazione dei treni, il Warsteiner HockeyPark, uno degli stadi di hockey su prato più belli al mondo. E' cambiato il mondo o, forse, tutto sta ritornando.

L'eliminazione a sorpresa per le scommesse calcio dal girone della Roma di Europa League non può cancellare l'ottima stagione fin qui disputata dai ragazzi di Marco Rose: Pléa, Marcus Thuram, Stindl, là davanti c'è da stropicciarsi gli occhi, per non parlare della retroguardia, sempre attenta in campionato. Sognare ad occhi aperti non costa nulla.

Una decade di titoli - E, per farlo, bisogna salire sulla macchina del tempo e tornare a quei magnifici anni '70, in cui Allan Simonsen e Jupp Heynckes segnavano a raffica, ispirati da Günter Netzer - l'anti-Cruyff nemico di tutti: del collega rifinitore del Colonia Wolfgang Overath e del gruppo Bayern Monaco, rivale in campionato e che, il capobranco Franz Beckenbauer arrivò a mettere ai margini della nazionale tedesca. Erano i tempi delle zazzere lucenti, dei basettoni e dei giocatori bandiera, quelli che non si sarebbero mai sognati di cambiare squadra di appartenenza, figuriamoci al Borussia Mönchengladbach. Come il rude ma estremamente efficace difensore Berti Vogts.

I biancoverdi erano guidati da Hannes Weisweiler, meticoloso e innovativo tecnico classe 1919 che raccolse la squadra nel 1964 in Regionalliga Ovest (la seconda serie prima della costituzione del massimo campionato tedesco) e la condusse in "Bundes" con un calcio frizzante, ricco di gol (i biancoverdi detengono ancora oggi la miglior vittoria in Bundesliga: un 12-0 contro il Borussia Dortmund nel 24 aprile 1978) e che tanto assomigliava a quello che la vicina Olanda, avrebbe proposto di lì a poco con la nazionale di Cruyff.

Il problema, inizialmente, era la difesa: il 'Gladbach, infatti, subiva troppi gol. Tuttavia, una volta sistemato questo aspetto (con la crescita di Vogts, per l'appunto), arrivarono 5 titoli tedeschi, dal '70 al '77, anno quest'ultimo in cui il guizzante puntero danese Simonsen alzò al cielo del Bökelbergstadion il Pallone d'Oro. Coi Puledri, 76 reti in 178 partite, prima di passare nel 1979 al Barcellona, club che lasciò tre anni dopo con "l'avvento" di Diego Maradona.

Qui nasce un'altra storia: si fece cedere al Charlton Athletic, nella Second Division Inglese, per la quale Simonsen era un autentico lusso. Tanto che gli Addicks si resero ben presto conto di non potergli pagare l'ingaggio. L'attaccante dal gol facile e dal piede raffinato, tornò nel suo club natale, il Vejle, prima di spendersi da commissario tecnico per le difficili cause di Isole Fær Øer e Lussemburgo.

Le campagne europee - Non solo 5 campionati di Bundesliga: il 'Gladbach alzò al cielo anche una coppa domestica (la DFB Pokal) nel 1973, che brilla in bacheca insieme a quelle datate 1961 e 1995. E alla Supercoppa di Germania, datata 1977. In Europa, poi, due Coppe Uefa: una nel 1975 contro gli olandesi (Germania-Olanda era un vero classico del calcio nel decennio dei pantaloni "a zampa") del Twente, 0-0 e 5-1 nel doppio confronto di andata e ritorno. L'altra, nel 1979, contro la Stella Rossa di Belgrado (1-1 e 1-0), che risultò il canto del cigno di quella squadra fantastica, tornata poi a una dimensione provinciale e alle faticose battaglie per non retrocedere. 

E in Coppa Campioni? La fortuna non assistette mai i Puledri, in questa competizione, dalla "partita della lattina" del 20 ottobre 1971, in cui il 'Gladbach avrebbe battuto 7-1 l'Inter con la gara che, però, venne annullata per l'oggetto (identificato da Mazzola da una lattina di Coca-Cola, che all'arbitro, tuttavia consegnò un fac-simile) che colpì Boninsegna dagli spalti del Bökelbergstadion. All'incubo Liverpool: gli inglesi, dopo aver prevalso sui biancoverdi nella finale di Coppa Uefa, li batterono 3-1 anche nella Coppa delle grandi orecchie nella finalissima di Roma del '77.  
 
*L'immagine di apertura dell'articolo è di AP Photo.

February 6, 2020
Stefano Fonsato
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Stefano collabora da anni come giornalista freelance per il portale web di Eurosport Italia, per il quotidiano La Stampa e con la casa editrice NuiNui per la quale è stato coautore dei libri "I 100 momenti magici del calcio" e "I 100 momenti magici delle Olimpiadi".

E' amante delle storie, dei reportage e del giornalismo documentaristico, ma il suo "pallino" resta, su tutti, il calcio d'Oltremanica.

 

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L'isola del tesoro... calcistico!

Tante trasferte scomode ogni stagione. Problemi logistici per i tifosi. Ma anche un’atmosfera che pochi possono sognare. E un senso di appartenenza che difficilmente ha rivali. Quando la loro casa è su un’isola, le squadre hanno un qualcosa di speciale.

Magari non quelle inglesi o irlandesi, visto che su un’isola ci vivono tutti gli abitanti. Ma quando ci sono nazioni con piccole e grandi realtà insulari, è sempre interessante vedere cosa combinano quelli che, per utilizzare un termine tipico, devono viaggiare verso “il continente” per affrontare la maggior parte delle avversarie.


Sardegna e Sicilia - In Serie A, al momento, di isolana c’è solo il Cagliari di Maran. E nonostante un momento non proprio entusiasmante, la squadra di Nainggolan e soci sta decisamente tenendo alto l’onore della Sardegna con alcuni risultati imprevedibili per le scommesse calcio come il 5-2 rifilato alla Fiorentina, rendendo orgogliosa un’isola che non ha mai avuto un’altra compagine in grado di arrampicarsi nelle serie superiori.

Al massimo c’è stata la storica Torres, che ha lanciato Gianfranco Zola, ma che non è mai riuscita a superare lo scoglio della Serie C. Per il Cagliari, invece, ben 40 campionati di A, una meravigliosa semifinale di Coppa UEFA (nella stagione 1993/94) e soprattutto uno scudetto, quello della stagione 1969/70, l’unico conquistato da una squadra isolana nella storia del calcio italiano.


Le altre classiche isolane di Serie A sono le squadre siciliane. E nonostante ora nessuna sia nella massima divisione, nel corso degli anni molte si sono fatte onore. Quella più abituata a vedersela con le grandi è il Palermo, con ben 29 stagioni in A e qualche qualificazione alla Coppa UEFA e all’Europa League, oltre a tre finali perse di Coppa Italia, l'ultima all'Olimpico contro l'Inter.

Per 17 volte si è invece presentato ai nastri di partenza il Catania, capace di 8 partecipazioni consecutive tra il 2006/07 e il 2013/14. L’altra siciliana di A è il Messina, che ha giocato nella massima serie per cinque stagioni, due negli anni Sessanta e per altre tre tra il 2004 e il 2007. Anche in B, però, la Sicilia ha saputo dire la sua. Oltre alle tre squadre già menzionate, hanno conosciuto la cadetteria il Siracusa, il Trapani (attualmente in B), l’Acireale e il Licata.


Isole... spagnole - Anche altrove le isole sanno farsi rispettare e prendere spesso parte alla massima serie nazionale. È il caso della Spagna, dove le Baleari e le Canarie hanno regalato belle storie di calcio. È il caso del Maiorca, che si è giocato contro la Lazio l’ultima finale della storia della Coppa delle Coppe. Per i rossoneri 28 stagioni nella Liga, compresa quella attuale, con in bacheca una coppa di Spagna e una Supercoppa spagnola.

Stankovic in azione nell'ultima finale di Coppa delle Coppe!

A proposito di Lazio, sempre contro i biancocelesti c’è stato un incrocio storico in Coppa UEFA per il Tenerife, con la squadra capitolina che viene addirittura eliminata dalla squadra delle Canarie, che vanta 13 partecipazioni al massimo campionato.

La squadra isolana più abituata alla Liga è però quella che non ti aspetti: il Las Palmas, con ben 34 partecipazioni, comprese quelle degli anni Sessanta quando per poco i gialloblù non portavano il titolo nazionale a Gran Canaria. Tra le altre, di tradizione minore, impossibile non nominare l’Ibiza, che ha regalato le ultime presenze alla carriera di Marco Borriello.

Segui i gironi di ritorno dei principali campionati europei anche con le scommesse calcio di 888!


Portogallo, Francia e Grecia - La prima divisione più isolana d’Europa è quindi la Primeira Liga, considerando che ci sono ben due squadre che non provengono dal Portogallo continentale. Dalle lontane Azzorre, dal bel mezzo dell’Atlantico, arriva il Santa Clara, unica squadra nella storia dell’arcipelago ad aver preso parte al massimo campionato nazionale, con 5 partecipazioni.

Va meglio all’isola di Madeira, che oltre ad aver dato i natali a un certo Cristiano Ronaldo può schierare ben due squadre capaci di raggiungere la prima divisione. In questa edizione la distinzione tocca al Marítimo, che può anche vantare ben 40 presenze in Primeira Liga, la prima alle spalle delle grandi classiche del calcio portoghese. È invece retrocesso nella scorsa edizione il Nacional, la squadra che ha lanciato CR7, e che ha giocato nella massima serie per 19 stagioni.

E se l’Italia ha la Sardegna, alla Francia non possono mancare le squadre della Corsica, anche se nessuna rappresenta l’isola di Napoleone nella Ligue 1. Chi lo ha fatto più spesso è il Bastia, che vanta 34 partecipazioni al massimo campionato transalpino. Ad Ajaccio invece ci sono ben due compagini capaci di arrampicarsi fino ad affrontare le big del continente. La squadra storica della città è l’AC Ajaccio, con 13 presenze in Ligue 1.

L’ultima però a riuscire nell’impresa è il Gazélec Ajaccio, che ora milita nella terza divisione ma che nel 2015/16 ha giocato con i grandi e si è anche tolto la soddisfazione di vincere due volte il derby corso con il Bastia.

Impossibile dimenticare anche la Grecia, che di isole ne ha parecchie. Non sono tantissime le squadre capaci di raggiungere la prima divisione, ma tra quelle quasi sempre presenti nella Souper Ligka Ellada c’è l’OFI Creta, che per un periodo è stato allenato da Ringhio Gattuso.

Per la  squadra bianconera ben 41 presenze nel massimo campionato. Sempre da Creta arriva l’Ergotelīs, rivale storico dell’OFI, ma che vanta solamente 9 partecipazioni alla massima serie. E persino Corfù ha conosciuto il top del calcio greco per tre stagioni grazie al Kerkyra.

Insomma, non è necessario essere “in continente” per diventare grandi e fare sognare i tifosi. In fondo, il Cagliari insegna. In questa stagione e…in generale.

*La foto di apertura dell'articolo è di Antonio Calanni (AP Photo); la seconda di Adam Butler (AP Photo).

 

February 6, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Mauro Boerchio: Conte, la OFC Champions League e lo scudetto in India


Mauro Boerchio è nato a Broni, in provincia di Pavia, ad agosto del 1989. Di professione portiere, è cresciuto nelle giovanili del Bari: con la squadra di Antonio Conte conquista la promozione in Serie A nel 2009, pur senza scendere in campo. Dopo le esperienze in Lega Pro e Serie D con Nocerina, Renate, Lecco, Pro Sesto, Verbano e Savona, intervallate con un breve ritorno a Bari, arriva l’opportunità di volare a Vanuatu, in Oceania, per un nuovo inizio della sua carriera, a 16 mila km dall’Italia.

Quando l’arcipelago down under è colpito dall’uragano Pam, Boerchio è in prima fila per aiutare la popolazione locale in difficoltà; prosegue poi la sua nuova vita da giramondo a Malta, con lo Gżira United, in Mongolia con l’Ulaanbaatar City, con cui vince la coppa nazionale, alle Maldive con il Maziya e in India, prima con il Neroca, poi con il Chennai City, con cui l’anno scorso ha vinto il campionato.

L’abbiamo intervistato in esclusiva sul blog italiano di 888sport, per farci raccontare il suo incredibile viaggio e la scelta, non convenzionale, di preferire il giro del mondo alla sicurezza delle serie inferiori italiane.


A Bari hai respirato il grande calcio con Antonio Conte. Un rimpianto non aver mai esordito in A? 
“È stata una bellissima annata, ricca di esperienze che mi hanno aiutato a crescere e migliorare, conclusa con la vittoria della Serie B. L'anno della Serie A con Giampiero Ventura è stato un anno particolare. Le difficoltà iniziali nel fare risultati non hanno aiutato. Ho avuto l’opportunità di andare diverse volte in panchina, ma mai quella di esordire. Un po' di rammarico nel non essere riuscito ad esordire in Serie A c’è e credo sia normale. Giocare in Serie A è il sogno di tutti i ragazzi che aspirano a fare i calciatori”.

Conte: ce lo descrivi a parole tue?
“Mister Conte è maniacale, non lascia nulla al caso, cura ogni particolare e pretende sempre il massimo dai suoi giocatori. È un vincente”.

Può vincere lo scudetto con l'Inter?
“Glielo auguro. Vincere non è mai facile, soprattutto il primo anno. Gli acquisti di gennaio daranno una maggiore qualità e soluzioni ad una rosa già competitiva. Sarà sicuramente una bella corsa tra Juve e Inter per il titolo”.

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Sei diventato un portiere giramondo, dopo tanta gavetta. Nelle ultime 4 stagioni hai giocato in 5 Paesi diversi, in 3 continenti. Come hai preso questa decisione, abbastanza inusuale per i nostri calciatori?
“Ho sempre desiderato di giocare all’estero, così appena si è presentata l'occasione l'ho afferrata. Erano passati pochi giorni dalla finale Playoff Lega Pro di 1^ divisione con il Savona. Inaspettatamente mi arrivò una chiamata da un allenatore italiano proponendomi di andare a giocare la OFC Champions League per un club delle Isole Vanuatu”. 

Vanuatu: che esperienza è stata? 
“Bellissima. Mi ha dato modo di crescere molto a livello umano. Rapportarmi con usi e mentalità completamente diverse dalle nostre, mi ha aperto la mente e reso molto più tollerante. Si, purtroppo quell'anno gran parte delle isole sono state colpite dal ciclone Pam. Noi stranieri della squadra e tutti i turisti presenti nelle varie isole siamo stati evacuati. Al rientro da Sydney trovammo una situazione disastrosa.

Quando succedono queste calamità naturali la prima cosa a cui bisogna fare attenzione è l’acqua, così grazie al presidente, che è proprietario dei supermercati di Port Vila, abbiamo iniziato a distribuire acqua in bottiglietta in tutti i villaggi attorno alla città. Organizzammo anche partite nei vari villaggi portando vestiti, quaderni, penne e cibo. Vedere i loro sorrisi, mi ha dato una grande emozione”.

Che ricordi hai della OFC Champions League?
“Giocare la OFC Champions League è stato molto bello, ripensare a quella musichetta mentre si entra in campo mi dà ancora ora delle forti emozioni. Abbiamo giocato a Suva (Fiji) il primo anno e a Auckland (Nuova Zelanda) il secondo, purtroppo in entrambe le stagioni non siamo riusciti a passare i gironi”.

Per quanto riguarda Malta, si parla di un calcio ricco di contraddizioni, ma in crescita. Cosa puoi raccontarci?
“Malta è stata un’esperienza non molto positiva dal lato calcistico. Ho trovato poca coerenza e serietà. È un campionato nel quale ci sono validi giocatori con ottime qualità che può migliorare ancora tanto”.

La Mongolia, una scelta davvero inusuale. Hai vinto la Coppa nazionale, cosa ricordi?
“La scelta di accettare la proposta dell'Ulaanbaatar City Football Club in Mongolia è arrivata dopo un lungo ‘interrogatorio’ fatto a Giacomo Ratto, che è stato il primo italiano a giocarci. Il club era stato fondato solo un paio di anni prima da un presidente molto ambizioso. Pensavo di arrivare in una nazione molto diversa da quella che poi ho trovato.

Una capitale in continua crescita con un’economia fiorente. Il campionato era composto da 10 squadre e si svolgeva su quattro campi, uno era quello della federazione gli altri erano quelli di proprietà di tre società partecipanti al campionato.

Quell'anno arrivammo secondi in campionato a soli 3 punti dalla prima e vincemmo la Coppa Nazionale. La partita più complicata fu quella della semifinale, sfidavamo la squadra con la quale lottavamo anche per il titolo in campionato. Fu una partita molto combattuta giocata ad alti ritmi che ricordo con molto piacere perché l'ottimo lavoro di squadra ci ha permesso di prevalere su una squadra più esperta della nostra”.

Hai preferito girare il mondo piuttosto che rimanere in Italia in serie inferiori: lo rifaresti? 
"Certo, lo rifarei e sono felice delle scelte fatte”. 

Il tuo successo più importante, in queste esperienze?
“A livello calcistico il successo più importante è sicuramente la vittoria del campionato in India con il Chennai City, che ha permesso la partecipazione alla Asian Champions League di quest’anno”.

E umanamente, l'esperienza che ti ha più segnato?
“L’India è stata l’esperienza più significativa e più bella. Ho avuto modo di vedere, conoscere e vivere situazioni lontanissime da noi che mi hanno arricchito. Consiglio a chiunque di andare e visitare l'India. Torneranno diversi da quando sono partiti”.

Hai smesso di giocare? Potresti ripartire per qualche altra meta? Dove ti piacerebbe ancora andare?
“Ora sto svolgendo i corsi UEFA per poi allenare. Ho già conseguito il corso di Allenatore di Portieri e a settembre inizierà un progetto per portieri. Il sogno rimane l'Indonesia, magari da allenatore, chi lo sa”.

Segui il girone di ritorno con le scommesse serie A!

*La foto di apertura dell'articolo è di Aijaz Rahi (AP Photo).
 

 
February 5, 2020
Emanuele Giulianelli
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Scrittore e giornalista freelance, collabora regolarmente con il Corriere della Sera, con La Gazzetta dello Sport, con Extra Time, Rivista Undici, Guerin Sportivo e con varie testate internazionali come Four Four Two, Panenka e Tribal Football. Scrive per B-Magazine, la rivista ufficiale della Lega Serie B.


I suoi articoli di calcio internazionale e geopolitica sono stati pubblicati, tra gli altri, su FIFA Weekly, il magazine ufficiale della federazione internazionale, su The Guardian, The Independent e su Eurasianet. Ha lavorato come corrispondente sportivo dall’Italia per Reuters.


Ha pubblicato tre libri, l'ultimo dei quali, "Qarabag. La squadra senza città alla conquista dell'Europa" edito da Ultra Sport, è uscito nel 2018.
 

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Una decade di plusvalenze record: la Top 11 2010-2021 dei talenti dell'Udinese



Le recenti attenzioni riversate su Granada (prima) e Watford in seguito, hanno di fatto diluito la concentrazione di grandi talenti, rivenduti nella storia a peso d'oro, in casa Udinese. Ma, senza risalire alla pantagruelica era Zaccheroni, quanti campioni sono passati dallo stadio Friuli-Dacia Arena da mister Alberto Guidolin, ovvero dal 2010, in poi!

Un autentico squadrone di pedine fenomenali che, scomposte dalla scacchiera bianconera, sono andate a fare la fortuna delle "big" italiane ed europee. Si potrebbe buttare giù un "Best 11" di calciatori stranieri di quest'ultima decade, acquistati grazie all'incredibilie capacità di scuoting; li abbiamo disposto secondo i dettami di un 3-4-1-2 equilibrato e fantasioso allo stesso tempo.

Difficile fargli gol - In porta, ovviamente, ci sarebbe Samir Handanovic: l'attuale estremo difensore dell'Inter, specialista nel neutralizzare i calci di rigore, a Udine - dopo i prestiti con Treviso, Lazio e Rimini - ha difeso i pali da titolare tra il 2007 e il 2012, totalizzando 182 presenze in Serie A e guadagnandosi l'appellativo di "Batman" per la sua affidabilità. Al club meneghino - di cui oggi è bandiera e capitano - è stato ceduto il 9 giugno 2012 per una cifra pari a 15 milioni e, oggi, è considerato uno dei migliori portieri al mondo.

Il terzetto difensivo sarebbe composto da Dušan Basta, Mehdi Benatia e Cristián Zapata. Il primo, prodotto del settore giovanile della Stella Rossa di Belgrado, conta 105 gettoni e 9 gol coi bianconeri dal 2009 al 2014, prima di diventare baluardo arretrato della Lazio per una cifra complessiva di 10,5 milioni. Oggi, il serbo classe 1984, dopo una stagione di scarso impiego alla corte di Simone Inzaghi, ha appeso gli scarpini al chiodo.

Benatia, nazionale marocchino scoperto nel 2010 in Francia al Clermont-Ferrand, da cui è stato prelevato per 1,2 milioni di euro, è stato rivenduto dopo tre stagioni alla Roma per 13,5 milioni. Da qui, i vari passaggi a Bayern Monaco, Juventus e, oggi, il "buen retiro" qatariota all'Al-Duhail.

Poi c'è Cristián Zapata, classe 1986, prelevato 19enne dai colombiani del Deporivo Cali per una cifra pari a 500mila euro (nel 2005) e rivenduto per 9 milioni al Villarreal, trampolino di lancio prima del suo trasferimento al Milan. Oggi sta cercando il Genoa nella difficile lotta salvezza.

Parola a centrocampo, composto da Piotr Zielinski e Allan, titolarissimi del Napoli dei giorni nostri. Il polacco classe 1994 fu scovato nel 2011 nell'Under 19 dello Zagłębie Lubin: 50 mila euro per portarlo in Friuli: 19 presenze in bianconero tra il 2012 al 2014. Il suo exploit arriva con Marco Giampaolo in prestito all'Empoli: nell'estate 2016 la famiglia Pozzo lo vende ad Aurelio De Laurentiis per 15 milioni (più il prestito di Juan Camilo Zuniga al Watford). Oggi il suo cartellino ne vale 40, di milioni...

Muscoli e velocità a centrocampo - Gli occhi in tutto il mondo del capo-scout Andrea Carnevale (ex attaccante di Napoli, Roma, per l'appunto Udinese e nazionale italiana) hanno portato al "Friuli" anche il brasiliano Allan, nel 2014, dal Vasco Da Gama. Tre stagioni all'Udinese, dal 2012 al 2015: arriva per 3 milioni, parte per 12 più il prestito di un altro Zapata colombiano, l'attaccante Duván. Oggi, all'ultima stagione in azzurro, è inseguito da mezza Europa col PSG, tra le favorite per la Champions per le scommesse calcio in prima fila.

Sugli esterni, spazio a Juan Cuadrado, sulla destra, e a Kwadwo Asamoah sulla mancina. L'estroso colombiano classe '88 approdò in Friuli nell'estate 2009 dall'Independiente Medellín per 800mila euro e rivenduto nel 2012, dopo il proficuo prestito al Lecce per la bellezza di 20milioni. 

Un tridente tutto sudamericano - Come mezzapunta, un talento tuttora nel roster bianconero: Rodrigo De Paul. L'argentino classe 1994 non convinse - tra il 2014 e il 2015 - al Valencia, che lo rimandò in prestito al Racing Club di Avellaneda, team che lo crebbe e da cui lo prelevò. L'Udinese lo compra nell'estate di 3 anni e mezzo fa per 3 milioni: De Paul è ambito da Inter, Milan, Napoli e dalle "big" europee, ma la famiglia Pozzo non intende svenderlo. Il suo cartellino, infatti, oggi vale almeno 25 milioni di euro (ma per assicurarselo ce ne vorranno di più).

Le due punte? Non considerando Di Natale, da una parte Luis Muriel e, dall'altra, Alexis Sánchez. Altre due perle preziose sudamericane che hanno fatto risuonare le casse friulane. Il colombiano, oggi nell'Atalanta di Gasperini, è cresciuto anch'egli nel Deportivo Cali: a Udine arrivò per 1,5 milioni nel 2010, subito i prestiti a Granada e Lecce, dopodiché, tre stagioni piene in bianconero dal 2012 al 2015 e la cessione alla Sampdoria per 12 milioni.

"El Niño Maravilla" fu un autentico capolavoro: scoperto nel 2006 in patria, al Cobreloa, cui andarono 3 milioni di euro e dopo i prestiti al Colo Colo e al River Plate, l'Udinese se lo coccolò per bene fino al 2011 (95 presenze, 20 reti e numeri da circo) prima di cederlo al Barcellona per oltre 25 milioni. Il suo cartellino arrivò a valerne la bellezza di 70 quando, nel gennaio 2018, il Manchester United lo prelevò dall'Arsenal. Oggi è anch'egli alla corte di Antonio Conte all'Inter, rivale a sorpresa della Juventus per le scommesse sportive!

*La foto di apertura dell'articolo è di Franco Debernardi (AP Photo). Prima pubblicazione 5 febbraio 2020.

December 30, 2020
Stefano Fonsato
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Stefano collabora da anni come giornalista freelance per il portale web di Eurosport Italia, per il quotidiano La Stampa e con la casa editrice NuiNui per la quale è stato coautore dei libri "I 100 momenti magici del calcio" e "I 100 momenti magici delle Olimpiadi".

E' amante delle storie, dei reportage e del giornalismo documentaristico, ma il suo "pallino" resta, su tutti, il calcio d'Oltremanica.

 

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Sancho, il prezzo è giusto?!

A gennaio, il Cies – l'Osservatorio internazionale che studia il calcio in tutti i suoi aspetti, in collaborazione con la Fifa – ha pubblicato la valutazione dei migliori calciatori under 20 dei 5 principali campionati europei, cioè Premier, Liga, Serie A, Bundesliga e Ligue 1.

L'elenco è molto interessante, tra “prezzi giusti" e altre volte eccessivi. In testa c'è quel piccolo fenomeno di Jadon Sancho, talento che il City si è lasciato sfuggire e ora dà spettacolo al Borussia Dortmund: secondo i parametri utilizzati dal Cies, il 19enne inglesino dal dribbling ubriacante vale già 168,9 milioni di euro: siamo quasi ad altezza Neymar, insomma.

Proprio la sfida tra i due gioeilli incendierà uno degli ottavi di Champions che vede favorito il PSG per le scommesse calcio!

Magari ci si poteva fermare a 100, però effettivamente le doti del ragazzo sono incredibili e se si pensa ai 150 milioni, bonus compresi, pagati per Dembelé, pure lui del Borussia Dormund, quando nel 2017, a 20 anni appena compiuti, fu acquistato dal Barcellona, la valutazione di Sancho diventa plausibile.

Nessun dubbio che il prezzo sia giusto per i due fuoriclasse del Real Madrid che occupano seconda e terza posizione: Rodrygo (87,1 milioni) e Vinicius (84,5). Anzi, in questo caso forse il Cies si è tenuto basso, visto l'enorme talento dei due attaccanti esterni e la squadra in cui giocano.

Quarto posto meritato per il 19enne Callum Hudson-Odoi, corteggiatissima punta del Chelsea e della nazionale inglese: 70,2 milioni e un futuro da top player assicurato.

Le ipervalutazioni degli italiani - Finora deludente invece il rendimento in Premier di Moise Kean, 20 anni il 28 febbraio, ceduto la scorsa estate dalla Juve all'Everton: il ct Mancini puntava molto su di lui, lo vedeva come potenziale centravanti titolare al prossimo Europeo, ma poi l'evoluzione del ragazzo si è bloccata.

Ora Ancelotti sta provando a rigenerarlo, ma in Premier finora ha segnato solo un golletto in 18 partite. Insomma la valutazione del Cies, 56,1 milioni, appare esagerata per un attaccante pagato in estate 27,5 milioni: non ha fatto nulla, finora, perché il suo valore venga considerato addirittura raddoppiato.

Però almeno Kean ha mostrato le sue potenzialità con la Juve e l'Italia, nella scorsa stagione. Ci sono casi invece di giovani iper valutati, che al momento restano talenti inespressi. Come Gianluca Scamacca, considerato un predestinato quando era nel vivaio della Roma, ma che poi si è fatto notare più nelle nazionali giovanili che nei vari club dove ha giocato. Adesso è nell'Ascoli, in Serie B, e a quanto pare a gennaio è stato corteggiato da Milan, Benfica e dalla stessa Roma: i rossoneri in particolare avrebbero offerto 10 milioni.

Scamacca con la maglia della Under 20!

Stesso discorso per il centravanti Pinamonti, anche lui classe '99, che sembrava destinato a una carriera super quando era il gioiello della Primavera dell'Inter: si è fermato, al Genoa non ha convinto (appena 2 gol nonostante le tante opportunità di giocare titolare), anche se in estate il club di Preziosi dovrebbe in ogni caso riscattarlo per 18 milioni di euro. Due ragazzi in cerca di identità, che comunque avranno tempo per rifarsi e adeguare il loro rendimento a queste valutazioni.

Come - un altro esempio - il 23enne difensore Bonifazi, pagato 12 milioni dalla Spal (è in prestito con obbligo di riscatto) nonostante sei mesi vissuti tra panchina e tribuna nel Torino, con appena 3 presenze. Non ha fatto una bella figura contro Immobile, nella sfida con la Lazio, ma Semplici è convinto che sarà un elemento fondamentale nella corsa alla salvezza.

Tornando ai “magnifici 10” del Cies, al sesto posto c'è il centrocampista Sessegnon del Tottenham (51,2 milioni), seguito dal 17enne Camavinga, tuttocampista del Rennes che in estate si piazzerà sicuramente in un top club: vale 47,6 milioni.

Lo strano caso di Haaland - Sta già mostrando le sue doti da cecchino il micidiale Haaland, un clamoroso impatto con 7 gol nelle prime 3 gare per il Borussia Dortmund e per le scommesse sportive con una valutazione, ora a quota 44,4 milioni, che a fine stagione toccherà almeno i 100: il norvegese è stato pagato 22 milioni al Salisburgo, più 15 milioni di commissioni per l'agente Raiola, più – a quanto pare – un “gettone” di 8 versati al padre, per un totale di 45, cui vanno aggiunti i 40 netti che il centravanti guadagnerà in 5 anni, insomma al lordo l'investimento del Borussia è di 125 milioni.

Altro che ottavo posto, insomma. Al nono c'è finalmente un difensore, il turco Ozan Kabak dello Schalke (42,6 milioni), e al decimo un regista illuminato e secondo italiano in classifica, Sandro Tonali del Brescia, gioiello conteso da Inter e Juve per la prossima stagione: il Cies lo valuta 41,2 milioni, probabilmente bisognerà arrivare a 50 per convincere Cellino.

* La foto di apertura dell'articolo è di Luca Bruno (AP Photo); la seconda di Sergei Grits (AP Photo).

February 4, 2020
Giulio
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Giulio è nato giornalista sportivo, anche se di professione lo fa “solo” da 30 anni. Dal 1997 è l'esperto di calciomercato del quotidiano La Repubblica.

Dal '90 segue (senza annoiarsi mai) le vicende della Lazio: collabora anche con Radiosei e dirige il sito Sololalazio.it. Calcio e giornalismo sono le sue grandi passioni. L'unico rimpianto che lo tormenta è aver smesso di dare spettacolo sui campi di calcetto.

 

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Rugby, dalle imprese storiche alle difficoltà attuali: la storia azzurra al Sei Nazioni!

Il ventunesimo secolo rappresenta la svolta per il movimento rugbystico italiano. Dopo tanti anni di crescita, finalmente la nazionale azzurra nel 2000 ottiene l’ok definitivo per partecipare al torneo principale per nazioni in Europa.

Fino ad allora chiamato Cinque Nazioni, con l’ingresso degli Azzurri nasce l’attuale Sei Nazioni. L’esordio dell’Italia è straordinario, il 5 febbraio del 2000 al Flaminio di Roma l’Italia gioca la sua prima gara e batte con merito la Scozia,34-20. Quel successo fu decisivo per evitare il famoso cucchiaio di legno, “premio” riconosciuto alla nazione che perde tutte e cinque le gare del torneo.

Il bilancio dell’Italia nel Sei Nazioni è comunque decisamente negativo, frutto della maggiore tradizione verso il Rugby delle altre nazioni partecipanti. A cominciare dall’Inghilterra, unica squadra mai battuta dagli Azzurri in venti partecipazioni al Sei Nazioni. Dopo 100 partite giocate nel principale torneo europeo, lo score dell’Italia registra dodici vittorie, un solo pareggio (18 pari al Millennium Stadium di Cardiff nel 2006) e ben 87 sconfitte. 

I PRIMI ANNI - Dopo lo storico successo all’esordio contro la Scozia, l’Italia ha inanellato addirittura quattordici sconfitte consecutive. La vittoria del 2000 ha negato agli Azzurri lo sgradito cucchiaio di legno, ricevuto poi nel 2001 e nel 2002.

Tre anni dopo l’Italia è riuscita a ritrovare il successo, ancora una volta in casa ma questa volta contro il Galles. Una vittoria per 30-22 che ha permesso agli Azzurri di evitare anche l’ultimo posto in classifica, per la prima volta lasciato proprio ai gallesi. Vittoria che l’Italia ha ottenuto anche nel 2004, questa volta contro la Scozia per 20-14.

Azzurri che però nel 2005 perdono tutte le gare del Sei Nazioni in una stagione deludente che costa la panchina al CT John Kirwan. Nel 2006 arriva l’unico pareggio della storia azzurra e soprattutto il primo risultato positivo lontano da Roma. Il 18 pari del Millennium Stadium di Cardiff regala all’Italia una consapevolezza nuova che portò gli Azzurri a un ciclo molto positivo.

Nel 2007, infatti, arriva il primo successo esterno, un vero e proprio dominio a Edimburgo contro la Scozia. Dopo la decorosa e tutto sommato positiva sconfitta di Twickenham per 20-7 contro l’Inghilterra, gli Azzurri, sfavoriti per Rugby League stendono 37-17 la Scozia uscendo dal campo con gli applausi del pubblico dello Stadio di Murrayfield. Quel successo fu seguito da un’altra bella vittoria dell’Italia  a Roma contro il Galles, regalando un vero e proprio sogno al mondo azzurro del Rugby.

All’ultima giornata Italia-Irlanda poteva regalare addirittura agli Azzurri il titolo, anche se serviva una vera e propria impresa. Gli irlandesi dimostrarono di essere più forti battendo l’Italia nettamente, ma quell’edizione del Sei Nazioni ha rappresentato sicuramente la miglior versione dell’ItalRugby. Nei quattro anni successivi l’Italia ottenne solamente due vittorie, una delle quali però entra nella storia. Per la prima volta nella storia del Sei Nazioni gli Azzurri battono la Francia 22-21 al Flaminio di Roma.

L’ultima edizione di alto livello dell’ItalRugby risale al lontano 2013, quando l’Italia allenata da Jacques Brunel vinse due partite tra cui l’unico successo nella storia degli Azzurri contro l’Irlanda. 

LE DIFFICOLTÀ ATTUALI - Nel 2014 solo sconfitte per gli Azzurri con l’ennesimo cucchiaio di legno, fortunatamente evitato poi nel 2015, grazie alla vittoria in quel di Edimburgo contro la Scozia per 22 a 19 il 28 febbraio di quell’anno.

Da lì in poi per cinque anni gli Azzurri non hanno fatto altro che raccogliere sconfitte, spesso anche piuttosto rovinose. Decoroso il ko in Francia nel 2016, seguito poi dalle disfatte in Irlanda e Galles con 125 punti subiti in due gare. Pesantissimi anche i 63 punti subiti all’Olimpico contro l’Irlanda nel 2017, sconfitta poi rovinosa replicata dodici mesi dopo a Dublino con 56 punti incassati.

L’ultima prestazione abbastanza positiva degli Azzurri è la sconfitta interna del 17 marzo del 2018 contro la Scozia per 29 a 27 con l’Italia era avanti di dodici punti e ha subito il calcio decisivo a due minuti dalla fine. 

*La foto di apertura dell'articolo è di Maurizio Spreafico (AP Photo).

 

February 4, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Panoz: “Ho vinto la Champions con Messi al Getafe! Il futuro di FM è la semplicità”


"Football Manager Stole My Life: 20 Years of Beautiful Obsession" è il titolo di un libro, uscito nel 2012, che tenta di raccontare cosa sia FM, il videogioco manageriale di calcio rilasciato dalla Sports Interactive, che per milioni di appassionati in tutto il mondo rappresenta ormai quasi una religione.

Chiunque ha la possibilità di sedersi sulla panchina di un vero club, gestire il calciomercato grazie a un enorme database al quale lavorano centinaia di ricercatori in tutto il mondo, scegliere le tattiche e portare la squadra sempre più in alto. C’è chi ama giocare con i top club, portandoli a vincere la Champions League e chi preferisce la soddisfazione di arrivare in Serie A partendo dalla D. 

 

Abbiamo intervistato in esclusiva per 888sport.it Alberto Scotta, conosciuto come Panoz, capo della ricerca e responsabile del database italiano di Football Manager, per parlare con lui di questa magnifica ossessione (per citare il libro) e del suo profondo legame con il calcio reale.

Come nasce la tua passione per FM?
Sono appassionato di Football Manager dagli inizi, da quando ho conosciuto Championship Manager: ho iniziato a giocare alle versione 1993-’94. Era il mio gioco preferito. Quando ho avuto la possibilità di diventare responsabile italiano e head researcher all’inizio è stato davvero fantastico.

Ti ricordi la tua prima partita? E la tua impresa più incredibile?
Ricordo che tenevo l’Arsenal, poiché non c’erano squadre italiane nel primo CM a cui ho giocato. La mia vera impresa l’ho fatta con il Getafe, formazione spagnola, che ho portato a diventare una formazione incredibile, con Messi in attacco e Gerrard a centrocampo: con loro, una quindicina d’anni fa, ho vinto Liga, Champions League e Coppa Intercontinentale.

Poi ho portato l’East Fife dalla terza alla prima divisione scozzese, ma il Getafe di Daniel Guiza mi è rimasto nel cuore.

FM ha una rete incredibile di scout in tutto il mondo, da fare invidia alle grandi squadre. Ci spieghi come funziona? E l'assegnazione dei parametri dei calciatori?
Non è semplice spiegare come funziona. Per quanto riguarda l’Italia, siamo un centinaio di persone, ma quelle assidue e sempre presenti sono una cinquantina: siamo strutturati con dei capisquadra, ognuno dei quali segue un club diverso e può ricevere contributi dagli altri ricercatori.

Ci sono poi due responsabili per ogni Serie (A, B e i tre gironi della C), i quali si occupano di ricevere e bilanciare tutti i dati che ricevono dai capisquadra. C’è anche la Serie D, gestita da Massimo Todaro: anche a quel livello abbiamo un gruppo incredibile di osservatori che ci permette di essere fuori dal comune, rispetto a tutte le altre nazioni, dal punto di vista della ricerca. 

Ci sono stati casi di esperti di FM che sono entrati davvero negli staff di squadre di calcio: cosa ne pensi?
Credo che chi ha giocato tanto a Football Manager abbia comunque una base: il calcio reale è diverso, ma il videogioco può essere considerato a tutti gli effetti un simulatore, un po’ come avviene con i piloti d’aereo. Sia dal punto di vista manageriale che da quello tattico ci sono tante cose che si possono imparare da FM: il campo, poi, darà il giusto peso a quello che si è appreso al simulatore.

Tu hai mai avuto questa opportunità?
Sì, ho fatto il player-manager della squadra della mia azienda. Abbiamo vinto un trofeo, giocando alla Juventus Stadium: è stata una delle soddisfazioni più belle che ho avuto nella mia vita calcistica. Le tante partite viste e quelle giocate a FM mi hanno sicuramente aiutato a gestire la squadra, anche dal punto di vista motivazionale.

Hai ancora tempo e passione di giocare a FM o per te è più un lavoro ormai?
Il tempo lo trovo e gioco a FM touch, una modalità semplificata, snobbata da molti, inspiegabilmente. Per me mantiene tutte le basi solide del gioco, ma allo stesso tempo ti permette di disputare più stagioni, soprattutto per persone che non hanno molto tempo.

Durante l’anno riesco a giocare sette o otto stagioni e da un paio d’anni gioco con il Lipsia, che è diventata la mia squadra di riferimento: sono andato a vederla anche a Berlino lo scorso anno per la finale di DFB-Pokal.

Il Lipsia è quotato @31.00 per la vittoria della Champions League sulle nostre scommesse calcio.

Molti talenti su FM sono diventati davvero campioni, il gioco ha anticipato la realtà: che nomi ricordi?
Sono molto legato a quelli del passato, che non sono diventati fenomeni assoluti come Messi e Ronaldo, ma hanno fatto la loro carriera. Parlo degli italiani, poiché mi sono occupato di loro. Alessio Cerci è il mio idolo, in assoluto, di FM: nessuno lo conosceva quando è salito alla ribalta nel gioco; poi ci sono i prodotti del vivaio dell’Atalanta e mi riferisco, in particolare, a Pazzini e Montolivo.

Non possiamo dimenticare Antonio Cassano, fortissimo già nella Primavera del Bari, prima che segnasse quel famoso gol all’Inter.

Chi, invece, ha deluso le aspettative?
Tra tutti, quello per cui mi dispiace di più penso sia Gasbarroni che a Championship Manager era davvero devastante: un grande talento che, a causa di infortuni e di alcune scelte di mercato discutibili, non è esploso. Avrebbe potuto essere un giocatore molto importante, anche per l’Italia.

Stando a FM e ai suoi scout, tre nomi da segnarci per il futuro?
Avete già potuto vedere di cosa è capace Sebastiano Esposito dell’Inter, allora faccio altri tre nomi. Alessio Riccardi della Roma, Emanuel Vignato, appena acquistato dal Bologna (ma rimarrà in prestito al Chievo), Eddie Salcedo del Verona, in prestito dal Genoa: tre talenti, tre giocatori davvero interessanti che potranno fare molto bene. Aggiungerei Manuel Gasparini, portiere dell’Udinese: potrebbe essere il nuovo Meret.

Come ti spieghi il successo di FM?
Quando inizi a giocare a FM, entri in perfetta simbiosi con la tua squadra. A quel punto non puoi fare a meno di giocare, ti crea dipendenza. Credo, però, che abbia bisogno di rinnovarsi un po’, perché le nuove generazioni sono più restie nei confronti di giochi che durano così tanto.

Mi piacerebbe vedere una versione snackable di FM, in cui tu possa interagire ogni tanto durante il giorno, senza passare ore davanti allo schermo. Potrebbe essere una sorta di spin-off del gioco: me lo auguro, perché c’è bisogno che i giovani apprezzino la giocabilità e la passione che c’è dentro FM.

Ci sono calciatori che sono diventati veri miti a FM, mi viene in mente Risso. Chi ricordi con più simpatia?
I giocatori-mito di FM per me, in assoluto, sono stati Kerlon e Vanden Borre: il primo fu anche acquistato dall’Inter, ma non rispettò le aspettative; il secondo, all’epoca, giocava insieme a Kompany ed era una garanzia assoluta in tutti i ruoli.

Kerlon Foquinha con la maglia del Cruzeiro!

FM si è sempre più perfezionato nel realismo di gestione di una squadra. Il prossimo passo?
Come ho accennato, bisogna andare a cercare la semplicità. Non credo ci sia molto d’aggiungere a questo FM: credo sia necessaria una nuova versione più veloce per le nuove generazioni.

Un’ultima domanda: è vero che avete provato ad anticipare nel gioco gli effetti della Brexit?
“Sì, è vero. Già da FM 2019, il gioco aveva al suo interno una decina di scenari per cui, in ogni partita, potevi trovarti a che fare con una tipologia diversa di Brexit, con le sue diverse procedure e opzioni. Adesso che la Brexit è realtà, da FM 2021 ci saranno le condizioni reali dell’impatto sul calcio”.
 

* La foto di apertura dell'articolo è di Rob Harris (AP Photo); la seconda di Marcus Desimoni (AP Photo).

February 3, 2020
Emanuele Giulianelli
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Scrittore e giornalista freelance, collabora regolarmente con il Corriere della Sera, con La Gazzetta dello Sport, con Extra Time, Rivista Undici, Guerin Sportivo e con varie testate internazionali come Four Four Two, Panenka e Tribal Football. Scrive per B-Magazine, la rivista ufficiale della Lega Serie B.


I suoi articoli di calcio internazionale e geopolitica sono stati pubblicati, tra gli altri, su FIFA Weekly, il magazine ufficiale della federazione internazionale, su The Guardian, The Independent e su Eurasianet. Ha lavorato come corrispondente sportivo dall’Italia per Reuters.


Ha pubblicato tre libri, l'ultimo dei quali, "Qarabag. La squadra senza città alla conquista dell'Europa" edito da Ultra Sport, è uscito nel 2018.
 

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Gli specialisti dagli 11 metri!

Un rigore contro la paura. Mimmo Criscito si riprende il dischetto nella partita tra Atalanta e Genoa e scaccia via qualche fantasma.

Non solo quelli di mercato, che lo volevano già dalla passata stagione lontano dalla Lanterna, ma anche quelli dagli undici metri.

Ecco la lista dei rigoristi della Serie A.

Nel match contro la Fiorentina, il difensore campano ha infatti sbagliato il primo calcio di rigore della sua carriera, facendosi respingere la conclusione da Dragowski. Fino a quel momento, per lui un ruolino perfetto, 13 gol su altrettanti tentativi. Ora, dopo quello segnato a Gollini e il rigore decisivo nel derby ligure con lo Spezia, Criscito si rimette in carreggiata e ricomincia il conteggio, con 15 trasformazioni su 16 tiri. Un rigorista quasi infallibile. Come molti altri colleghi.

Jorginho

Beppe Signori da fermo

Il destro di Baggio

Nessuno come Le God!


A SuperMario Balotelli, per esempio, si possono dire molte cose, ma non che sia facilmente ipnotizzabile quando va sul dischetto; al secondo ritorno in A non è ancora arrivata la possibilità di segnare da calcio di rigore, ma in carriera l’attaccante classe 1990 ha un ottimo score dagli undici metri e rappresenta, adesso, più che un'opzione dal dischetto per il Monza! Per lui 37 gol su 42 tentativi, con le maglie di Inter, Manchester City, Milan, Liverpool, Nizza e nazionale italiana.

Super Mario freddo dal dischetto.

Dei cinque errori, due sono arrivati in Ligue 1, mentre gli unici portieri che in Serie A non sono stati trafitti da Balotelli sono Bardi, Perin e Pepe Reina. Curiosamente in tutti e tre i casi Balo aveva la maglia del Milan.


Jorginho rigorista... azzurro 

Per le scommesse calcio, un'idea valida sarà quella di puntate su Jorginho, primo marcatore a Euro 2020. Proprio per l’assenza dalla nazionale di SuperMario, Mancini non avrà problemi a definire il rigorista azzurro. Se l’arbitro assegna un rigore all’Italia, sul dischetto ci va sicuramente lui, Jorginho. Il centrocampista italo-brasiliano ha uno score quasi perfetto, avendo trasformato 20 rigori su 21 tentativi tra Verona, Napoli, Chelsea e nazionale.

Un rigore trasformato da Jorginho!

Una tecnica, quella di Jorginho, che è diventata celebre e che prevede un salto prima dell’ultimo passo, che spesso e volentieri spiazza completamente il portiere. L’unico errore per lui è arrivato contro l’Udinese, ma si è…fatto perdonare: quando nel novembre 2017 Scuffet gli para il penalty, lui la mette dentro sulla ribattuta.

Nell'immaginario collettivo, il rigore più pesante realizzato con la maglia azzurra è sicuramente quello di Fabio Grosso a Berlino: incredibile constatare come l'esterno mancino appena 5 anni prima della finale del Campionato del Mondo avesse trasformato una massima punizione in... Prato - Chieti, play - off di serie C2...

 


Segna sempre lui!

Udinese fatale anche un l’altro cecchino della Serie A dagli undici metri. Diego Perotti, con la sua lenta camminata prima di calciare, ha segnato in 23 occasioni su 25 tentativi con le maglie di Siviglia, Genoa e Roma. I due errori, abbastanza curiosamente, arrivano nel giro di pochi mesi. Prima, contro i bianconeri friulani, si fa ipnotizzare da Bizarri nel settembre 2017 e a poi a dicembre si ripete contro il Cagliari di Cragno. Non che la cosa lo abbia spaventato, e tra i due errori ne segna altrettanti contro Crotone e Lazio.


A proposito di Lazio, Ciro Immobile è sulla buona strada per raggiungere un mito biancoceleste. Con i due rigori realizzati contro la Sampdoria, si porta a 42 marcature su 51 tentativi. Davanti a lui, però, c’è una vera e propria leggenda degli undici metri. Beppe Signori, che in carriera ha segnato 56 rigori su 65 tirati.

La sua celebre rincorsa… inesistente ha lanciato una vera e propria moda e dopo di lui, che l’ha accennata con la maglia del Foggia e l’ha perfezionata con Lazio, Samp e Bologna, molti hanno provato a imitarlo. Ma spesso con pessimi risultati, perché il maestro del rigore da fermo resta sempre lui.

Baggio tra Firenze e Los Angeles

Rimanendo sui bomber degli anni Novanta, impossibile non pensare a Roby Baggio, che in carriera ha avvicinato i 100 rigori segnati. Si è fermato a 95 su 111 tentativi, anche se forse una delle immagini più iconiche della sua carriera è proprio un penalty sbagliato, quello contro il Brasile nella finalissima del Mondiale 1994.

Alessandro Del Piero esulta dopo un rigore realizzato!

Poco meno preciso il suo erede con la "10" bianconera Alex Del Piero che, in ogni caso, vanta un prestigioso 14 su 15 in tutte le Coppe, disputate on la Juve.

Altro cecchino pressoché infallibile, tra campionato olandese, Serie A e nazionale Oranje, è stato Marco Van Basten. Per il cigno di Utrecht solo 3 errori in carriera, con 51 gol su 54 rigori calciati con il famoso "saltello", una percentuale che si avvicina al 95%. Peccato che, come nel caso di Baggio, uno sia molto pesante: quello agli Europei del 1992, che elimina la sua Olanda e spedisce in finale la Danimarca.

Nessuno come Le God!

Ma dovendo eleggere il re del calcio di rigore, quello che se ne ha sbagliato qualcuno è…praticamente per caso, la lotta si restringe a due nomi: Cuauhtemoc Blanco e Matthew Le Tissier. Il messicano, celebre anche per la Cuauhtemiña, il dribbling con il pallone tenuto tra i piedi (e poi reso irregolare) è andato sul dischetto ben 73 volte in carriera e ha portato a termine il suo compito in ben 71 occasioni. Anche grazie alla sua celebre rincorsa, talmente lunga che sembrava più per un calcio di punizione che per un tiro dagli undici metri.


Vince però, per qualche punto percentuale (97.95% contro 97,26%) Le Tissier. Le God, come lo chiamavano i tifosi del Southampton, ne sbaglia solo uno facendo 48 su 49. Il giorno dell’errore è il 24 marzo 1993 e l’avversario è il Nottingham Forest. In porta c’è Mark Crossley, che entra nella storia del calcio inglese, neutralizzando il tiro del numero 8.

Video tratto dalla pagina YouTube di Alex Bourouf.

Che, quando gli chiedevano come facesse a non sbagliare praticamente mai, rispondeva: “Li tiro all’angolino e se il portiere intuisce la direzione sono così forti che non fa in tempo ad arrivarci”. Un po’ come il suo contemporaneo Cantona, che spiegava: “Ho un modo infallibile per segnare i rigori: li metto dentro”. In fondo, il metodo migliore!

*Le immagini dell'articolo sono distribuite da AP Photo). Prima pubblicazione 3 febbraio 2020.

October 21, 2021
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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