Le 5 sconfitte più clamorose nella carriera di Guardiola!

Nel calcio bisogna saper perdere, anche se ci si chiama Josep Guardiola i Sala e se si è tra i migliori allenatori degli ultimi venti anni (e non solo). Vero, il catalano ha guidato delle vere e proprie corazzate. Il Barcellona del primo Triplete, poi un Bayern Monaco così forte da vincere la Bundesliga a marzo e nel 2020 è da quattro stagioni sulla panchina del Manchester City e ha portato a casa due volte la Premier League.

Come da statistiche del nostro account Twitter, in carriera Guardiola ha vinto 487 partite, ne ha pareggiate 107 e ne ha perse solamente 76. Eppure anche per lui sono arrivate sconfitte inattese, amare o semplicemente clamorose, per il risultato o per il significato della partita…

1. Inter - Barcellona 3-1

Complicato trovarne una con il Barcellona, che con Guardiola in panchina ha vinto tre campionati, due coppe di Spagna, tre supercoppe spagnole, due supercoppe UEFA e due mondiali per club. Eppure c’è una sconfitta che sicuramente rappresenta una cicatrice nella carriera blaugrana di Pep. Il palcoscenico è San Siro, il 20 aprile 2010. Di fronte ci sono il Barcellona, detentore della Champions, e l’Inter: Guardiola contro Mourinho. Le due squadre si sono scambiate i centravanti, con risultati misti. Eto’o è diventato imprescindibile ad Appiano Gentile, Ibrahimovic cozza con Guardiola e con Messi.

Nella semifinale di andata, tutto sembra andare per il meglio per i catalani. Pedro segna al minuto 19 e il viaggio verso la finale di Madrid sembra una formalità. Ma Pep non ha fatto i conti con uno tsunami nerazzurro: Sneijder (30’), Maicon (48’) e Milito (61’) tramortiscono un Barcellona totalmente incapace di reagire alle folate. Mourinho dirige l’orchestra, che caccia a pedate i campioni uscenti dalla Scala del Calcio. Al ritorno, poi, l’Inter fa una partita difensiva perfetta e vola verso la gloria, per la rabbia di Pep che di perdere con Mourinho proprio non ci sta.

2. Bayern Monaco - Real Madrid 0-4

Anche le delusioni dell’era Bayern Monaco arrivano tutte in Champions. In Bundesliga i bavaresi sono dei veri e propri rulli compressori, ma quando si tratta di giocare in Europa la macchina perfetta si inceppa con una certa facilità. E se quando era in Spagna Pep Guardiola ha regalato notti da incubo al Real Madrid (compresa una manita entrata nella leggenda), i Blancos gli rendono pan per focaccia al suo primo anno sulla panchina dei bavaresi.

Anche in questo caso il Bayern è detentore del trofeo e arriva in semifinale contro Ancelotti e Cristiano Ronaldo. Al Bernabeu l’andata finisce 1-0 con gol di Benzema. Ma chi pensa che i tedeschi possano ribaltare la questione all’Allianz Arena ha decisamente capito male. Le Merengues passeggiano su un Bayern che arriva scarico all’appuntamento clou dopo aver vinto il titolo con sette giornate di anticipo. Finisce 0-4, con doppiette di Sergio Ramos e di Cristiano Ronaldo, che poi saranno protagonisti anche del derby in finale contro l’Atletico Madrid.

3. Barcellona - Bayern Monaco 3-0

Se perdere contro il Real Madrid è un brutto colpo per Guardiola, forse può non esserlo arrendersi al “suo” Barcellona. Ma la semifinale della Champions League 2014/15 conferma che in Europa Pep ha parecchi problemi se non guida i blaugrana. Anche in questa stagione il Meisterschale viene conquistato praticamente senza un minimo di competizione e, come l’anno prima, il Bayern ne risente in Champions.

Il destino gli riserva un tuffo nella memoria, dopo che i suoi hanno eliminato abbastanza agevolmente lo Shakhtar e il Porto. Il ritorno al Camp Nou, però, è disastroso. Il match di andata termina con un secco 3-0, cortesia di un certo Leo Messi, che aspetta l’ultimo quarto d’ora di partita per accendersi e dimostrare al suo ex tecnico che anche senza di lui sa fare magie. Due reti (77’ e 80’) e l’assist per il prezioso sigillo di Neymar a tempo abbondantemente scaduto.

E anche stavolta i bavaresi la finale la vedono dal divano, perché all’Allianz vincono 3-2 salvando la faccia, ma sapendo già al momento dell’1-2 di O Ney che non avrebbero ribaltato la doppia sfida.

4. Liverpool - Manchester City 3-0

Insomma, la Champions League regala delusioni a Guardiola da quasi una decina d’anni. E anche sulla panchina del Manchester City non è mancato un regalino indesiderato. Nella stagione 2017/18 il Manchester City passa il girone con cinque vittorie e una sconfitta e poi ha tranquillamente la meglio sul Basilea agli ottavi.

Guardiola segue, sconsolato, la gara in piedi

Ai quarti però c’è uno scontro tutto inglese, con il Liverpool di Klopp. I Citizens vengono accolti ad Anfield a colpi di lacrimogeni sul pullman e lo shock evidentemente se lo trascinano sul campo. Salah (12’), Oxlade-Chamberlain (21’) e Manè (31’) schiantano i campioni d’Inghilterra nel giro di una mezz’ora davanti a cinquantamila tifosi in delirio.

Il City, che pure in campionato termina con 100 punti e nel match di andata in Premier ne aveva fatti 5 alla squadra di Klopp all’Etihad, deve arrendersi e “accontentarsi” di un campionato da record, anche per le scommesse e quote per il calcio.

5. Manchester City - Manchester United 2-3

E che il 3-0 di Anfield sia un colpo duro, lo si capisce appena tre giorni dopo. In un Eithad strapieno, il City può festeggiare il titolo di Premier League contro i cugini dello United, guidati da Mourinho. Sembra una formalità e il parziale all’intervallo lo conferma: Citizens avanti per 2-0 con reti di Kompany e Gundogan.

Ma lo Special One e i suoi non ci stanno a fare da vittime sacrificali. Dagli spogliatoi i Red Devils escono… indiavolati e in capo a dieci minuti di secondo tempo pareggiano con doppietta di Pogba. Il colpo di grazia arriva dal goleador che non ti aspetti; Chris Smalling al minuto 69 trova il gol che vale una rimonta clamorosa che fa impazzire i calciatori dello United e lo stesso Mourinho.

Certo, alla fine i Citizens devono aspettare solo una settimana per aggiudicarsi il loro primo titolo nazionale con Pep in panchina, perché lo United dopo l’impresa perde con il WBA e consegna il titolo ai cugini. Ma questo match è la dimostrazione che, anche nelle annate migliori, persino Guardiola non è immune dagli scivoloni. E si sa, più in alto si sale, più rumorosamente si cade…

*Le immagini dell'articolo, distribuite da AP Photo, sono di Matthias Schrader e Jon Super.

June 20, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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I colpi di mercato saltati all'ultimo istante!

"Disdetta!". Se si potesse riassumere in una parola un affare di calciomercato saltato all'ultimo momento o, perché no, all'ultimo secondo, probabilmente si ridurrebbe tutto a questa esclamazione. Talvolta si è consapevoli di rischiare con una trattativa intavolata in netto ritardo, in altre occasioni si rispettano rigorosamente i tempi del mercato, ma a un certo punto interviene un imprevisto, più o meno incalcolabile, o qualche volta anche la volontà dei tifosi, che blocca tutto. In un caso specifico, addirittura, ci si sono messi anche la fede religiosa e i cattivi presagi.

Ma quali sono le operazioni di calciomercato saltate, per un motivo o per l'altro, all'ultimo respiro? Ne abbiamo selezionate: iniziamo con questo articolo con le primi sei, in ordine cronologico.


1. Platini e l'embargo

Michel Platini, calciatore di classe e bandiera della Juventus anni '80, avrebbe potuto diventare un giocatore-simbolo... dell'Inter! Già, perché, nell'estate 1979, il fantasista francese sta per arrivare in nerazzurro da Nancy. Ma bisogna bloccare tutto a causa dell'embargo: i club italiani non possono acquistare calciatori stranieri.

L'allora plenipotenziario dell'Inter Ivanoe Fraizzoli decide di pagargli lo stipendio per un anno per poi acquistarlo l'anno successivo. Tuttavia, temendo che l'embargo duri di più, lascia perdere e tutto saltò. Nel 1982, dopo le semifinali con la Francia nei Mondiali di Spagna, arriva la Juventus...

2. Signori al Parma? I tifosi si oppongono

Forse il primo, vero caso in cui l'opinione dei tifosi influisce in maniera decisiva sulla trattativa. E' l'estate 1995 e i patron di Lazio e Parma Cragnotti e Tanzi stanno per definire il passaggio di bomber Beppe Signori in gialloblù per 25 miliardi di lire. I tifosi protestano per le vie del centro della Capitale: il presidente Dino Zoff, quindi, blocca l'affare.

3. Quel "pasticciaccio" di Luis Figo

Corre sempre l'anno 1995 e la Serie A è il campionato più ambito al mondo. In cui girano un sacco di soldi. Luis Figo, in procinto di lasciare lo Sporting Lisbona, sta per raggiungere l'Italia dieci anni prima della sua firma all'Inter. Il talento portoghese firma da svincolato sia con Juventus che col Parma.

Ovviamente intervengono Lega e Fifa: l'affare non può che essere bloccato. E tra i due litiganti, il terzo gode: ad aggiudicarselo, quell'estate, sarà poi il Barcellona, prima di passare - tra polemiche, minacce - al Real Madrid: rigorista infallibile nei Galacticos per gli esperti di scommesse live.

4. Taffarel all'Empoli? No, per colpa di una "premonizione"

Salto al 2004. Claudio Taffarel, ormai a fine carriera dopo le ultime esperienze al Galatasaray e di nuovo al Parma, a 38 anni suonati decide di accasarsi all'Empoli. Tutto bene, fintanto che, nel viaggio verso il centro toscano, la sua automobile si ferma per un guasto. Il portiere, campione del mondo dieci anni prima col Brasile, è molto religioso e sente che quell'inconveniente può trattarsi di un segnale premonitore, divino.

Decide quindi in quell'istante non solo di declinare l'offerta dell'Empoli (scusandosi con la società), ma anche di ritirarsi dal calcio giocato.

5. Le sliding doors di Dejan Stankovic

Estate 2008. Roberto Mancini lascia la panchina dell'Inter per fare spazio a José Mourinho. Il centrocampista Dejan Stankovic ha parecchi dubbi sul suo impiego da parte dello Special One e decide di ascoltare l'offerta della Juventus, per la quale era un vecchio pallino già prima di passare, giovanissimo, alla Lazio. I tifosi bianconeri insorgono, tuttavia, per alcune uscite poco apprezzate del serbo nei confronti proprio della Juve.

"Deki" restò quindi all'Inter e con "Mou" finì per vincere tutto da grande protagonista, di solito come dodicesimo uomo in campo, decisivo nei secondi tempi, vinti dai nerazzurri per le scommesse calcio!

6. "Non si vende Kakà"

Ancora tifosi, come per Signori, per bloccare una cessione. E' un vero plebiscito quello che convince la dirigenza rossonera, nel gennaio 2009, a trattenere Ricardo Kakà, in procinto di trasferirsi al Manchester City per la cifra record (per i tempi) di 105 milioni di euro! 

Berlusconi decide di assecondare le richieste dei sostenitori rossoneri, ma alla fine sbagliò: il brasiliano lasciò, come prevedibile per le scommesse sul mercato, comunque il Milan, appena sei mesi dopo, per il Real Madrid e, soprattutto, per la metà dei soldi...

Nel prossimo articolo, ricorderemo... i denti di Cissokho, il conto in banca di Axel Witsel ed altre cinque incredibile storie di calciomercato!

*L'immagine di apertura dell'articolo è di Luca Bruno (AP Photo).

June 19, 2020
Stefano Fonsato
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Stefano collabora da anni come giornalista freelance per il portale web di Eurosport Italia, per il quotidiano La Stampa e con la casa editrice NuiNui per la quale è stato coautore dei libri "I 100 momenti magici del calcio" e "I 100 momenti magici delle Olimpiadi".

E' amante delle storie, dei reportage e del giornalismo documentaristico, ma il suo "pallino" resta, su tutti, il calcio d'Oltremanica.

 

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Van Hooijdonk: il mago dei calci piazzati!

Crescere sognando di giocare a calcio. Entrare nel vivaio della propria squadra del cuore, solo per vedersi tagliare e finire a giocare tra i dilettanti. E poi tornare a casa, andarsene di nuovo, diventare un idolo in giro per il mondo, ma andarsene spesso da indesiderato. Segnare ovunque, giocare con i migliori e aiutarli a diventare grandi, ma senza ottenere quasi mai nulla per se stesso

Tutto questo e molto, moltissimo di più e Petrus Ferdinandus Johannes Van Hooijdonk: un nome da nobile olandese dei secoli andati, la storia di una vita difficile, calcisticamente e non.

Van Hooijdonk cresce a Welberg, a una quarantina di chilometri da Breda. Lì c’è il NAC, l’amore di una vita, la squadre del cuore di quel ragazzino riccioluto. Che col pallone ci sa fare e che ad appena 11 anni viene inserito nelle giovanili del club di cui è tifoso. Ma nonostante l’amore, il NAC non lo riesce a valorizzare. Lo fa giocare da esterno destro e quando a 14 anni ci sono da fare valutazioni, la sua è tremenda: non abbastanza forte. E dopo l’abbandono paterno, per Van Hooijdonk arriva anche quello calcistico.

Si parte dai dilettanti

Ma non è abbastanza per farlo smettere di sognare. Il giovane Pierre decide di tentare la scalata partendo dal calcio dilettantistico e soprattutto cambiando ruolo: diventa centravanti e fa la scelta che gli cambierà la carriera. A dargli fiducia è l’RBC Roosendaal, che in piena crisi finanziaria lancia il classe 1969 dal primo minuto ad appena vent’anni. I gol arrivano a grappoli, così come l’interesse delle grandi squadre olandesi. 

Ma bastano tre lettere per convincere Van Hooijdonk di quale sarà il suo futuro: il NAC ha decisamente cambiato idea nei suoi confronti e lo riacquista per 400mila fiorini. Denaro speso benissimo, perché in capo a quattro anni i suoi gol (81) catapultano la squadra di Breda in Eredivisie e le permettono anche di ottenere uno splendido settimo posto in campionato.

Quanto basta perché anche dall’estero si accorgano del suo talento. A gennaio 1995 lo acquista il Celtic, sempre molto attento al mercato olandese. Il primo anno e mezzo è all’insegna dei gol, ma con un'unica soddisfazione di squadra, la Coppa di Scozia vinta con una sua rete. Nella stagione 1995/96 è capocannoniere del campionato, ma va a litigare con il presidente del club per un aumento non ricevuto.

Di conseguenza finisce sempre più spesso in panchina e, una volta ricevuto dal CT Hiddink la perentoria indicazione che senza un minutaggio consistente nel Celtic non avrebbe ricevuto la convocazione in nazionale, Van Hooijdonk va più a sud. A inizio 1997 diventa un calciatore del glorioso Nottingham Forest, ma non può impedire la retrocessione dei Garibaldi Reds. Quello che può fare (e lo farà benissimo) è riportare immediatamente il club in Premier League a suon di gol, guadagnandosi il pass per i 23 convocati di Hiddink per Francia ‘98.

Anche in riva al Trent, però, i rapporti con la dirigenza non vanno benissimo e, dopo un litigio per promesse di mercato non mantenute e il mancato inserimento nella lista dei trasferimenti, l’olandese entra in sciopero. È l’inizio della fine. Nonostante venga reinserito in squadra, non può impedire la seconda, prevedibile per le scommesse calcio, retrocessione in tre stagioni del Forest e anche i rapporti con i compagni vengono incrinati dallo scontro frontale con il club. L’unica soluzione è tornare a casa.

Un nuovo inizio

Non al NAC, ma pur sempre in Olanda, al Vitesse. Ma basta una stagione per attrarre di nuovo gli occhi delle big. Stavolta è il turno del Benfica, dove resta solo un anno. Poi la patria chiama di nuovo e stavolta ha il bianco e il rosso del Feyenoord. Le due stagioni al De Kuip sono molto prolifiche e portano in dote la Coppa UEFA 2001/02, vinta con una sua doppietta nel primo tempo nel pirotecnico 3-2 sul Borussia, con i tedeschi sempre sotto nelle scommesse live!

In gol su rigore!

Va anche meglio al Fenerbahce, con cui vince due campionati in altrettante stagioni. Tanto è l’amore dei tifosi turchi che riceve anche il soprannome di Aziz Pierre, che da quelle parti… sta per “santo”. Le ultime due stagioni in carriere sono divise tra due grandi amori. Prima il NAC, poi di nuovo il Feyenoord, per chiudere nel 2007 dopo 375 gol in 634 partite. Non male, per chi non nasce centravanti.

La specialità della casa

Ma cosa aveva di così speciale Pierre Van Hooijdonk? Un’eleganza molto particolare, per chi faceva del fisico e del colpo di testa le proprie armi migliori. Ma soprattutto un’abilità innata che ha poi trasmesso ai suoi eredi: i calci di punizione. Da fermo, l’olandese è assolutamente una sentenza ed un'ottima opzione per le scommesse 888sport: nel video, Buffon neanche si muove... E i segreti del mestiere fa in tempo a passarli a un certo Wesley Sneijder.

 

I due si incontrano in nazionale quando il trequartista è giovanissimo e il centravanti si diverte ad allenarlo sui calci di punizione. Nel corso degli anni Ajax, Real Madrid, Inter e l’Olanda intera avranno ottimi motivi per ringraziarlo di questi insegnamenti.

A proposito di nazionale, la storia di Van Hooijdonk con la maglia dell'Olanda merita un capitolo a parte. Per lui, 46 presenze e 14 reti. Non male, se si considera che, dati alla mano, le volte in cui parte da titolare sono appena 5. Per tutti i CT dell’epoca, Aziz Pierre è l’arma segreta da utilizzare a partita in corso, quasi sempre con buoni risultati.

Sfortuna però vuole che nel 2000 Rijkaard non gli regali neanche un minuto all’Europeo casalingo, mentre nel 2002, quando con il Feyenoord è in forma smagliante, gli arancioni non si qualifichino neanche per i mondiali in Corea e Giappone. Un peccato, perché un calciatore della sua eleganza avrebbe meritato palcoscenici ancora più importanti.

*La foto di apertura dell'articolo è di Peter Dejong; la seconda di Thomas Kienzle. Entrambe sono distribuite da AP Photo.

June 18, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Le nuove frontiere del merchandising

Il mercato del merchandising calcistico è uno dei più affascinanti dello sport-business. Mettendolo a confronto con lo scenario di appena 10 anni fa emergono molto differenze. Il principio guida attuale è “allargare”, per quanto possibile, stagione dopo stagione, il catalogo delle referenze disponibili. Oggi, a farla da padrone, sono soprattutto i partner tecnici, che decidono tipologie di prodotto, distribuzione e reti di vendita. 

In media i piccoli-medi club hanno aumentato il loro catalogo del 100%, i top team del 300% (dal “ciuccio” per i neonati, passando per le borracce, fino ai frigoriferi o al sopra tuta). Allargare il numero di “referenze” significa infatti generare maggiori ricavi. 

Il problema, soprattutto per le società di calcio di piccole dimensioni, è, ancora oggi, garantire agli sponsor tecnici livelli minimi di vendite in quasi tutte le tipologie. Questo crea un vero e proprio effetto “fisarmonica” e non genera opportunità di crescita per le realtà in esame. 

Le squadre di calcio sono divise in 3 fasce: “A” (top club), “B” (medie dimensioni) e “C” (piccole dimensioni).  

Crescita esponenziale dei prodotti negli store

Il Barcellona, uno dei team più attivi sul fronte del merchandising, nel rapporto con Nike (attuale sponsor tecnico) può contare su un catalogo di oltre 500 prodotti co-branded (ovvero a marchio FC Barcellona-Nike); un club di seconda fascia circa la metà; uno di terza fascia infine non supera le 100-150 categorie di items
Se poi si passa ad analizzare i prodotti a licenza, il numero di prodotti di una realtà calcistica (del livello dei blaugrana) supera le 2-3mila referenze (anche in questo caso 10 anni fa si era in una dimensione molto più ridotta: circa il 50% in meno). 

Sono aumentati i prodotti, in base ai gusti-esigenze dei tifosi, ma anche ne sono mutati alcuni, in funzione del marketing e delle necessità di gioco o televisive. Un caso per tutti è la maglia gar utilizzata solo a manica corta. L’esplosione dei prodotti in lycra per i sottomaglia ha fatto sì che i giocatori decidessero di utilizzarli e i produttori iniziassero a non produrre più casacche con le maniche lunghe.

Anche perché i sottomaglia hanno sempre più seguito gli aspetti cromatici della divisa di gioco, per cui non entravano in contrasto (a livello di colore) con il prodotto principale (appunto la maglia). 

In primo piano, maglie e sottomaglie del Bayern!

I rapporti tra società e sponsor tecnici

I club più importanti ormai hanno due linee di prodotti: la prima è estremamente tecnica ed è destinata esclusivamente alla squadra, la seconda (simile per caratteristiche tecniche e grafiche alla prima, ma non identica al 100%) è rivolta al grande pubblico. 

Sotto il profilo commerciale, gli sponsor tecnici, oltre a pagare per poter produrre e fornire materiale tecnico, riconoscono royalties sulle vendite ai club tra il 7 e il 13% (sulla base dei volumi di vendita e al raggiungimento dei target commerciali). Nel contempo tutti i principali marchi (Nike e Adidas in pole position) forniscono dei royalties report periodici sugli introiti. Non comunicare dati veritieri o non consentire controlli (da parte del club) può portare anche alla risoluzione dei contratti in essere. 

Se si analizzano poi le vendite delle maglie, da sempre gli attaccanti o i calciatori più iconici delle singole squadre trascinano le vendite del merchandising. Nell’AS Roma, ad esempio, il “22” di Niccolò Zaniolo e il “9” di Edin Dzeko sono i numeri di maglia più gettonati dai fan giallorossi. 

Nonostante i miglioramenti in atto il campionato di calcio italiano è ancora molto lontano dai numeri di altri campionati. Anche perché, al netto della presenza di Cristiano Ronaldo, la stragrande maggioranza dei top player è da cercare in Premier League, Liga e Bundesliga. 

ManCity e PSG i brand da seguire nel futuro

Soprattutto Manchester City e Paris Saint-Germain sono i club con i maggiori margini di crescita (se si guarda al futuro), entrambi tra i favoriti per la Champions 2020 per i bookmakers di 888sport. Il PSG è riuscito a coniugare l’immagine di una squadra vincente con quella iconica della città d’oltralpe e ha sviluppato una serie di collezioni con stilisti e star dello sport come Michael Jordan.

Neymar durante la presentazione al primo giorno a Parigi!

Da questo punto di vista nessun club tricolore, nonostante il processo di rebranding della Juventus (compiuto alcuni anni fa scegliendo solo una lettera, la “J”, al posto del tradizionale logo con l’immagine della zebra) è riuscito a diventare così attrattivo negli ultimi anni. Manca poi un sistema centralizzato, sui mercati internazionali, e questo non facilità lo sviluppo del merchandising del football tricolore.

Al di fuori del circuito dei top team (Juventus, Inter e Milan) spicca la crescita del brand AS Roma, che, già nel 1999, poteva contare su un negozio monomarca di proprietà (a via Vittorio Colonna di fronte a Palazzo Chigi, nel cuore della capitale). Il club di Trigoria ha fortemente rivoluzionato la sua rete vendita, negli ultimi anni, e ha potenziato il catalogo prodotti affidandosi ad un colosso dello sportswear del calibro di Nike. 

Neonati atalantini già vestiti di nerazzurro

Punta invece sulla fantasia, creatività e legame con la propria fan base, l’Atalanta calcio. Il club bergamasco, da oltre 10 anni, “veste” i neonati venuti al mondo negli ospedali del capoluogo lombardo (più di 120 mila negli ultimi due lustri). Il progetto è stato ribattezzato “Neonati atalantini” e ha permesso all’Atalanta di essere conosciuta e diventare popolare in ogni angolo del mondo, perché i neonati di cui parliamo non appartengono soltanto a famiglie del territorio. 

Le “regine” del merchandising

Secondo i dati stimati dall’agenzia Euromericas Sports Marketing, a trionfare sul podio è, ancora una volta, il Manchester United, con più di 3,2 milioni di maglie vendute nel mondo. I Red Devils sono seguiti dal Real Madrid (3,0 milioni) e da Bayern Monaco (2,5 milioni). Il club bavarese è la vera novità del merchandising mondiale, perché, ormai, è considerato un brand di successo sportivo in ogni angolo del pianeta. Barcellona e Liverpool sono infine al quarto e quinto posto con più di 2 milioni di maglie vendute.

La prima delle realtà italiane è la Juventus (sesta in assoluto) con 1,6 milioni di pezzi in tutto il mondo. Nella top ten infine ManCity e PSG, con oltre 1 milione di maglie (nel futuro saranno le avversarie, sul fronte del merchandising, da tenere maggiormente sotto controllo). 

*Il testo dell'articolo è stato curato da Marcel Vulpis, direttore di SportEconomy; l'immagine di apertura è di Michel Euler (AP Photo).

 

June 17, 2020
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The 888sport blog, based at 888 Towers in the heart of London, employs an army of betting and tipping experts for your daily punting pleasure, as well as an irreverent, and occasionally opinionated, look at the absolute madness that is the world of sport.

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Un ricambio infinito di calciatori talentuosi!

Il finale inatteso della Ligue 1 ha offerto attraverso la classifica una visione abbastanza inusuale. L’Olympique Lyonnais sembrerebbe fuori dalle coppe europee, per la prima volta dal 1997. E, beffa nella beffa, con una finale di Coppa di Lega da giocare, che avrebbe potuto spedire la squadra di Garcia perlomeno in Europa League.

E invece non se ne farà nulla, a meno di un miracolo pazzesco: a ben pensarci, i transalpini possono ancora vincere la Champions League. Assurdo pensarci ora, ma ci sono stati momenti in cui la terza città francese ha potuto davvero sognare l’impresa. Il tutto, grazie a un modello molto particolare, basato sul territorio.

Il vivaio

Anzi, su un serbatoio, quello locale, della regione dell’Alvernia-Rodano-Alpi, il vero e proprio serbatoio dell’OL. Quasi otto milioni di abitanti per cui il calcio è una religione, ma anche, è davvero il caso di dirlo, una capacità innata. E sul talento dei ragazzi nati in città o nelle zone limitrofe, la società del presidente Aulas ha costruito un vero e proprio impero calcistico.

Già, Jean-Michel Aulas, che dell’Olympique Lyonnais è ormai numero uno da quasi trentacinque anni. Pioniere del settore informatico, il classe 1949 ha trasformato il club da squadra di secondo livello a presenza fissa nelle competizioni continentali, con tanto di semifinale raggiunta nell’edizione 2009/10. In mezzo, i clamorosi sette titoli di Francia consecutivi anche per le scommesse, gli unici nei sette decenni di storia dell’OL, conquistati a cavallo tra 2002 e 2008.

Il tutto grazie a un mix perfetto tra calciatori di talento sfuggiti alle big o in rampa di lancio (Juninho Pernambucano, Edmilson, Sonny Anderson, Källström, Essien, Toulalan) e i celebri “enfants du pays”. Grazie a quei ragazzi nati o cresciuti nei dintorni di Lione, è nata una vera e propria dinastia. Nelle rose che hanno conquistato i sette titoli consecutivi ce ne sono moltissimi.

Il portiere Coupet, saracinesca del club per undici anni. Abidal, che da Lione è partito alla conquista del mondo, vincendo tutto con il Barcellona. Ben Arfa, che non è nato da quelle parti, ma che l’OL ha portato nel suo vivaio giovanissimo. Govou, che alla Gerland ha passato praticamente tutta la sua carriera. Remy, destinato poi a finire ai grandi rivali del Marsiglia. E poi forse il più celebre di tutti, quel Karim Benzema che il Real Madrid ha comprato a peso d’oro, non pentendosene neanche per un attimo.

E il centravanti francese dei Blancos non è l’unico ad aver lasciato Lione in cerca di gloria e di uno stipendio più alto. L’OL, del resto, nonostante i trionfi in patria e una gestione economica virtuosa non ha mai avuto seriamente la possibilità di trattenere i suoi giovani rampanti. Ma allo stesso tempo si è fatto forte di un vivaio quasi infinito e della bontà dei calciatori nati e cresciuti nella sua regione.

Ecco perché il club di Aulas non ha mai avuto paura di rivoluzionare la sua rosa, continuando ad attingere a piene mani dal serbatoio locale. E, spesso e volentieri, trovando altri calciatori in grado di fare la differenza e di spiccare poi il volo verso realtà molto più importanti. La bacheca, però, negli ultimi dodici anni piange.

Colpa, se così si può dire, degli sceicchi del Paris Saint-Germain. L’acquisizione da parte del fondo sovrano del Qatar del club della capitale ha modificato di parecchio gli equilibri della Ligue 1, che da una decina d’anni, salvo alcune clamorose eccezioni (il Montpellier di Giroud o il Monaco di Mbappè) è diventato un vero e proprio feudo parigino.

Anche gli allenatori sono di casa

Il Lione non si è lasciato spaventare e ha continuato a fare quello che sa fare meglio: produrre talenti. I risultati non sono stati quelli degli anni precedenti, ma il Lione non ha mai smesso di fare capolino in Europa. Il tutto grazie a dei tecnici decisamente legati a doppio filo al club e alla città. Garde e Fournier sono entrambi nati nella regione ed ex calciatori dell’OL, così come Bruno Genesio, che invece è lionese purosangue.

A seguire le indicazioni di questi “enfants du pays” che si sono presi la panchina dell’Olympique Lyonnais c’è stata la seconda generazione di ragazzi cresciuti nel club o nelle società minori della zona. E anche stavolta i nomi sono di una certa rilevanza internazionale… Lasciato andare Benzema, il Lione ha trovato un altro attaccante letale in Lacazette, che attualmente è il centravanti dell’Arsenal.

A centrocampo è brillato, anche se per poco, il talento fragile di Grenier, che ha passato qualche mese alla Roma, Stesso percorso per il capitano di quel Lione, Gonalons, che al club ha dato ben 17 anni della sua carriera tra giovanili e prima squadra. E ancora un certo Umtiti, campione del mondo 2018, che giovanissimo è stato acquistato a peso d’oro dal Barcellona. Con lui, a vincere il mondiale in Russia con addosso la maglia dell’OL c’era Fekir, che ora brilla in Liga con la maglia del Betis Siviglia.

Anche in questo caso, molti sono andati via. E altrettanti continueranno a seguire questo percorso, perché il vivaio continua a produrre campioncini in erba. E per un Fekir, un Gonalons e un Lacazette che se ne va, nascono degli Aouar, dei Gouiri e do quel Rayan Cherki, 2003 più forte del mondo, destinati a prendere il testimone dei vecchi “enfants du pays” e a trascinare l’Olympique Lyonnais in Francia e in Europa.

Anche se, per la prima volta dopo tanto tempo, il palcoscenico continentale probabilmente non potrà godersi la nuova nidiata nata all’ombra della vecchia e gloriosa Gerland e del nuovo, modernissimo Groupama Stadium. Ma, vista la storia recente, dovrebbe essere solo un intoppo temporaneo. Il modello Lione nel calcio è ormai una sicurezza. Basta chiedere ai club che hanno comprato da Aulas. Quasi tutti molto soddisfatti…

*La foto di apertura dell'articolo è di Laurent Cipriani (AP Photo).

June 16, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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I sei pub sportivi più affascinanti

Sono lontani, ahinoi, i tempi dei pub stipati di tifo appassionato in compagnia di una pinta, una ciotola di arachidi e uno schermo in alta definizione, fianco a fianco ai propri amici o, come spesso accadeva, a perfetti sconosciuti.

Esultare per un gol della propria squadra con un abbraccio, urlarsi in faccia, il pavimento appiccicoso dalla birra inavvertitamente rovesciata... In attesa di tornare a vivere certi momenti (magici), tuffiamoci in una breve lista dei più affascinanti (ma vale sempre il concetto di "de gustibus") pub sportivi, in Italia e in Europa.

Il "4-4-2" a Milano

Ubicato in via Procaccini 61, in zona Sempione, il FourFourTwo è imbattibile, dal punto di vista dell'esperienza complessiva. Una selezione infinita di birre (non solo "draft"), schermi che circondano tutto il locale, un evento sempre in trasmissione (e non solamente) calcistico e sciarpe di ogni colore ed estrazione. Per chi ama il calcio britannico, è quasi commovente vedere esposti i vessilli da tifo del Chesterfield o del Doncaster Rovers.

Un'ulteriore curiosità: i panini sono stati ribattezzati coi nomi dei campioni più leggendari. Si può ordinare quindi un "Ronaldo", uno "Zico", un "Maradona", un "Beckenbauer", un "Cruijff" oppure un "Ruud Krool" che, nella fattispecie, è farcito con scamorza, prosciutto affumicato e senape. Insomma, da provare.

"The Royal Oak" a Londra

La lista dei pub adibiti alla trasmissione di eventi sportivi è quasi infinita nella capitale inglese. E', in fondo, in questa parte del mondo che nasce la tradizione. Per questo, vi proponiamo qualcosa di ricercato e particolare. Siamo a sud est e, prima delle partite casalinghe del Charlton Athletic, è obbligatoria una tappa al "The Royal Oak" (Andover SP10 4AJ, una perpendicolare di Floyd Road dove ha sede lo stadio "The Valley"), piccolo ma accogliente locale (con cortile interno), dove i tifosi degli Addicks si ammassano già due ore prima del calcio d'inizio.

Un tavolo da biliardo, il "necessaire" per una classica partita a freccette, partite in tv a ripetizione e di ogni estrazione calcistica e servizio senza fronzoli. Insomma, il massimo per gli intenditori del calcio uk ancora "genuino". Post scriptum: a differenza del "tepore" della birra dei pub del centro, qui la "spremuta di luppolo" viene servita ghiacciata!

Il "Café Football" a Manchester

Il nome dice tutto e anche a Ryan Giggs piace passare un po' di tempo libero da queste parti, come testimoniano le foto orgogliosamente esibite dallo staff del locale. Che come motto ha "Love food, love football". Birre (di ogni tipo), hamburger, "scrambled eggs", tortini d'anguilla tipicamente inglesi e quell'atmosfera di nord inglese, che mescola tradizione, passione e working class heroes.

Dalla colazione alla pinta serale "della staffa" partite di cartello e non, trasmesse sugli schermi a muro. Il massimo della libidine, per i cultori. La sede di Manchester (perché ce n'è un'altra anche a Singapore) è, neanche a dirlo, in "Matt Busby Ways". Ovvio, quindi, che il piano inclinato penda in direzione United...

L' "Ados" a Bilbao

Come a Londra, abbandoniamo anche qui le classiche vie di Madrid, Barcellona e Siviglia e abbracciamo la più alternativa Bilbao e il suo "Ados". Non è Spagna, sono i Paesi Baschi e non serve la particolare tappezzeria - composta da bandiere, maglie e sciarpe dell'Athletic -, del locale in Poza Lizentziatuaren 48. Non siete riusciti a trovare un biglietto per la partita dei Leones Rojiblancos, meglio, dei Leohiak Zurigorriak?

Può starci, il San Mames - quando non è costretto alle porte chiuse - è sempre pieno e ribollente di entusiasmo. Niente paura: anche qui dentro l'esperienza è suggestiva, anzi, indimenticabile, sulle note dell'"Athletic-en himnoa" di Juan Antón Zubikarai, urlato a squarciagola. E i cocktail, in cui il bar è specializzato, sono da urlo...

Oltre il calcio: l'Offside Sports Pub e il Six Nations Murphy's Pub"

Torniamo a Milano: l' "’Offside Sports Pub"  è il tempio dello sport, lo si intuisce già dal nome. La location è quella di viale Losanna: qui le birre si accompagnano ai maggiori eventi sportivi in diretta: MotoGP, Formula Uno, basket, rugby, tennis. A disposizione dei clienti, la bellezza di 7 schermi: in sostanza, qualsiasi posto a sedere (o in piedi) è buono per un'ottima visuale degli eventi quotati da 888sport!

A circa 120 chilometri di distanza, menzione d'obbligo per il torinese "Six Nations Murphy's Pub", specializzato, per l'appunto nella palla ovale. Si trova in corso Vittorio Emanuele II e qui - in un'atmosfera unica nel suo genere - i litri di bionda spillati, la quantità di cibo consumato, gli abbracci e le pacche sulle spalle (per quando si potranno restituire), acquisiscono una certa abbondanza...
 

*L'immagine di apertura dell'articolo è di Andrea Comas (AP Photo).

June 15, 2020
Stefano Fonsato
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Stefano collabora da anni come giornalista freelance per il portale web di Eurosport Italia, per il quotidiano La Stampa e con la casa editrice NuiNui per la quale è stato coautore dei libri "I 100 momenti magici del calcio" e "I 100 momenti magici delle Olimpiadi".

E' amante delle storie, dei reportage e del giornalismo documentaristico, ma il suo "pallino" resta, su tutti, il calcio d'Oltremanica.

 

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Torna il campionato dopo 102 giorni di attesa

Quando l’arbitro avrà modo di fischiare il calcio d’inizio di Torino-Parma, saranno passati 102 giorni dall’ultima partita di campionato, come da conto alla rovescia del nostro account Twitter. L’esultanza di Caputo dopo il gol segnato al Brescia aveva provato a rassicurare tutti: “State a casa, andrà tutto bene”.

Proprio tutto bene, non è andato, ma il messaggio di speranza dell’attaccante del Sassuolo è impresso nella nostra mente come ultima immagine positiva: quasi quindici settimane senza calcio, un periodo lungo, ma non il più lungo in assoluto. Anzi, a guardar bene i numeri (dal secondo dopoguerra a oggi) l’astinenza estiva - tra un campionato e l’altro - è stata ben più lunga.

La seconda Guerra Mondiale aveva diviso in due il Paese, la linea gotica aveva impedito per un paio di anni il normale sviluppo dei campionati; l’ultima partita della stagione 1942-43 si giocò il 25 aprile, quando si tornò a giocare dopo lo sbarco degli Alleati e la fine delle ostilità, erano passati 902 giorni.

Lo scudetto del '46!

La data di rinascita fu il 15 ottobre 1945, l’Italia era ancora divisa, interrotti i collegamenti tra Nord e Sud, al punto da costringere la Federazione a proporre - unica volta nella storia dal 1929 in poi - un format con due gironi: Alta Italia e Centro-Sud. Il raggruppamento al di sotto della Linea Gotica, era composto da squadre di Serie A e squadre di Serie B, in un girone misto.

La prima giornata di quel campionato propose il derby della Mole vinto dalla Juventus. Il torneo si concluse in piena estate, con l’ultima giornata programmata il 28 luglio 1946; la formula del torneo prevedeva un secondo e successivo girone, composto otto squadre (le prime quattro dell’Alta Italia e le prime quattro provenienti dal Centro-Sud) che furono protagoniste di un altro mini campionato che si risolse nel rush finale.

Le squadre sono appaiate, ma alla terzultima la Juventus vince, il Torino perde: il distacco di due punti viene colmato la giornata successiva quando i granata vincono il derby si misura grazie a un gol di Gabetto.

Il pareggio esterno della Juve nell’ultima giornata regala il trionfo al Grande Torino che - vincendo largamente contro il Livorno - conquista il terzo scudetto granata.

La lunga astinenza da calcio - tra una stagione e l’altra - è stata solitamente scandita dalle manifestazioni internazionali, Mondiali ed Europei di calcio - oppure - le Olimpiadi; nell’estate del 1962, nel pieno boom economico del Paese, fu necessario attendere 153 giorni, ovvero 22 settimane. Una privazione calcistica così lunga arriverà anche nell’estate del 1970; Messico e nuvole, Riva e la partita del secolo, Rivera che manda a casa i tedeschi, Pelè che resta appeso in cielo e infila Albertosi nella finale dell’Azteca.

 

Quando si riprende, il Cagliari ha lo scudetto sul petto, ma anche qui - tra la fine della stagione precedente e l’inizio del nuovo campionato passano 153 giorni. E’ una distanza temporale significativa, ma anche dovuta al formato del campionato di Serie A che prevede soltanto 16 squadre.

Negli anni ’70, i tempi di attesa si allungano, il torneo parte a ottobre; la stagione 1973-74 si chiude il 19 maggio: la Lazio ha vinto lo scudetto sette giorni prima, ma per vedere il tricolore sulla propria maglia dovrà attendere fino al 6 ottobre 1974: sono trascorsi 139 giorni dall’ultima giornata del campionato precedente. Le venti settimane di sosta si ripetono anche nelle due stagioni successive, poi la partenza del torneo viene anticipata al mese di settembre, e l’astinenza torna ad assottigliarsi.

Per trovare un periodo di rinuncia così esteso, bisognerà arrivare al 1986: durante l’estate ci si riempie gli occhi con le magie di Maradona che porta a spasso mezza Nazionale inglese, elimina il Belgio e punisce la Germania nella finale di Città del Messico. Il campionato si era concluso in maniera rocambolesca il 27 aprile 1986 e quando si riparte - il 14 settembre 1986 - sono passati 139 giorni: Maradona è l’Imperatore del Mondo, e si appresta a diventare anche Re di Napoli.

Van Basten ed i soli 62 giorni

I margini temporali tornano a dilatarsi due anni dopo, nel 1988 quando ci sono in programma gli Europei e le Olimpiadi di Seul; l’estate ci regala il diamante di Van Basten che annichilisce Dasaev: l’URSS del colonnello Lobanovski cede di fronte alla corazzata olandese, dopo aver eliminato la giovane Italia di Azeglio Vicini.

Dall’altra parte del mondo, Ben Johnson vince una medaglia carica di steroidi sui 100 metri piani; verrà squalificato per doping, l’oro olimpico di Seul finirà nelle mani di Carl Lewis, il figlio del vento.

Il calcio italiano resta fermo per 146 giorni, l’Inter domina il campionato, la stagione seguente presenta una novità significativa: cambia il format della Serie A, si passa a un torneo con 18 squadre. In termini algebrici, sono 4 giornate in più, in termini temporali si guadagna un mese di calcio: diventa necessaria l’introduzione dei turni infrasettimanali di campionato, un tempo riservati unicamente alla Coppa Italia, e alle Coppe Europee.

Per questo motivo, l’estate del 1989 segna il periodo più breve di sospensione tra una stagione e l’altra: per vedere il calcio d’inizio del campionato 1989-90 se devono attendere soltanto 62 giorni anche perché a fine stagione - proprio in Italia - ci sono i Mondiali.

Anche negli ultimi trent’anni, i Mondiali, gli Europei e le Olimpiadi hanno scandito il tempo di gioco; il Mondiale del 1994 oscura il campionato per 125 giorni, quello francese del 1998 lo blocca per 119 giorni. Ma anche le Olimpiadi fanno la loro parte: quelle di Sydney - nell’estate 2000 regalano 138 giorni di attesa prima della ripresa delle ostilità. Oltre quattro mesi, un’enormità.

Ma dal 2004-05, la distanza tra una stagione e quella seguente si affievolisce perché la riforma dei campionati aggiunge altre due squadre al campionato portando la massima divisione da 18 a 20 squadre ed allargando a dieci il numero di partite in palinsesto per le scommesse Serie A settimanali. La concomitanza con le manifestazioni sportive internazionali continua abitualmente ad allungare l’attesa, ma non si va mai oltre le 15 settimane.

*L'immagine di apertura dell'articolo è di Kienzle (AP Photo).

June 15, 2020
simone pieretti
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Giornalista, scrittore, innamorato di futbol. Scrive per trasmettere emozioni e alimentare sogni. Il calcio è una scienza imperfetta: è arte, è musica, è poesia. E' un viaggio nel tempo che ci fa tornare bambini ogni qual volta diamo un calcio a un pallone.

 

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L’Uruguay, la nazione più calcistica del mondo.

Nel corso della storia del calcio, solo otto nazionali sono riuscite a vincere la Coppa del Mondo. Dal 1930, anno della prima edizione dei mondiali, la questione è sempre stata ristretta a una manciata di selezioni. Uruguay, Italia, Germania (in versione Ovest e unificata), Brasile, Inghilterra, Argentina, Francia e Spagna, in ordine cronologico rispetto alla prima vittoria.

Il Maestro Tabarez

Le due Coppe

Il Rinascimento della Celeste

Dando un’occhiata ad alcuni dati, però, ne spunta uno davvero particolare. Sette nazioni su otto superano ampiamente i 40 milioni di abitanti. Il Brasile, poi, esagera, arrivando addirittura i 210 milioni. E poi, incastonato due volte nel basamento della Coppa (1930 e 1950) c’è un piccolo Davide tra i Golia del pallone: l’Uruguay, la nazione più calcistica del mondo.

Le parole del Maestro

Un paese di appena tre milioni di abitanti in cui, come ha spiegato di recente Oscar Tabarez, CT della Celeste dal 2006, sono più i bambini che sanno giocare a pallone che quelli che sanno la storia o la geografia. Non un complimento nell’ottica del tecnico, che ci tiene affinché il calcio sia un mezzo per il riscatto sociale e non un fine. Ma una fotografia che riassume benissimo il sentimento che il popolo uruguaiano mette ogni qual volta che un pallone rimbalza in mezzo a un campo da gioco.

Il calcio porta via dalla strada, crea aggregazione e offre una speranza, seppur tenue, di sfondare. Già, perché tra i tantissimi ragazzi che sognano di diventare grandi, sono pochi quelli che ce la fanno. Ma chi arriva al top ha un marchio di fabbrica inconfondibile: la garra.

Proprio quella capacità di lottare in ogni istante, anche quando la sconfitta è certa, che gli uruguaiani prendono dai loro antenati, quei Charrùa che si sono opposti ai Conquistadores spagnoli e che, pur essendo stati integrati nel tessuto coloniale, non hanno mai perso la loro identità. Se c’è da scendere in campo con il coltello tra i denti, per dare tutto e anche di più per la maglia, niente di meglio di un calciatore uruguaiano: non uscirà mai dal campo senza aver sudato il possibile.

Guai però a pensare che la Celeste sia una nazionale di portatori d’acqua e di picchiatori. C’è sempre stato chi fa legna, innegabile, ma di talento, dalle parti del Rio della Plata, ne è passato davvero tanto. 

Le due Coppe

Non per niente il primo mondiale si gioca proprio a Montevideo, perché negli anni Venti l’Uruguay ha vinto gli unici tornei internazionali di un certo spessore: i Giochi Olimpici di Parigi (1924) e di Amsterdam (1928) e tre volte la Copa America. Quella squadra ha la garra, rappresentata da capitan Nasazzi, uno dei migliori difensori di tutti i tempi, e la classe, quella di Scarone, per tutti “El Mago”, che per cinquant’anni sarà recordman di marcature in nazionale.

La finale del mondiale 1930 è un affare tutto rioplatense, perché al Centenario di Montevideo, costruito per l’occasione, arrivano i cugini argentini. Il clima è pazzesco, al punto che l’arbitro, il belga Langenus, chiede una nave pronta a salpare per l’Europa, in caso di scontri tra tifosi. La paura che qualcosa succeda c’è, perché a un certo punto gli argentini sono avanti per 1-2, ma non hanno fatto i conti con la garra.

Finisce 4-2 per i padroni di casa, con la firma finale di Hector “El Manco” Castro, uno che non si è fermato neanche davanti a un incidente sul lavoro che gli fa perdere la mano destra in giovane età.

Nel 1950, quando l’Uruguay gioca di nuovo il mondiale, lo fa da imbattuta. Nel 1934 e nel 1938 la Celeste non si presenta, un po’ perché il viaggio in Europa è costoso e un po’ per rendere la pariglia alle selezioni del Vecchio Continente che avevano disertato nel 1930. Molto più comodo andare in Brasile, magari seguendo la stessa formula dei decenni precedenti. E infatti ecco la garra di Obdulio Varela, il capitano senza paura, e il talento pazzesco di Schiaffino e Ghiggia.

Proprio loro due segnano le reti che regalano il secondo titolo mondiale alla Celeste, in una partita che passa alla storia. Al Maracanà al Brasile basta pareggiare per laurearsi campione, ma evidentemente i verdeoro hanno voglia di strafare. Vanno in vantaggio, ma si fanno riacciuffare e al minuto 79 Ghiggia ammutolisce lo stadio e un paese intero, pizzicando l’angolo al lato di Barbosa e realizzando un miracolo leggendario.

Da quel momento in poi, la storia ha un po’ cambiato spartito. Il periodo che va dal gol di Ghiggia al 1981 è fatto di delusioni. Crolla il mito del paese di calciatori, perché il ricambio generazionale colpisce fortissimo e l’Uruguay non riesce a rimanere in scia di Brasile e Argentina, che nel frattempo cominciano a imporsi a livello mondiale. Poi negli anni Ottanta arriva qualche gioia. La prima è il Mundialito, vinto con protagonista quel Victorino di cui, quando arriva a Cagliari, ci si chiederà se in Italia hanno spedito il fratello.

E ci vuole un re, anzi, un Principe per cambiare le cose. Enzo Francescoli è quanto di più vicino agli Scarone e agli Schiaffino che la Celeste riesca a produrre da trent’anni. Guiderà lui l’Uruguay a tre vittorie in Copa America (1983, 1987 e 1995), ma quella degli anni Novanta è l’unica luce in un periodo nero. La Celeste è assente ai mondiali del 1994 e del 1998, nel 2002 esce al primo turno e nel 2006 manca di nuovo la qualificazione, nonostante talenti come El Chino Recoba.

Il Rinascimento della Celeste

Serve qualcuno che torni a insegnare calcio e nessuno può farlo meglio di Oscar Tabarez. Il Maestro passa dalla scuola al pallone con la stessa facilità e, dopo una prima esperienza a Italia ’90, prende di nuovo le redini della nazionale. Che nel frattempo ha trovato una generazione magica. La garra e il talento tornano a convivere, con Godin e Forlan, Suarez e Cavani.

L'esultanza di Cavani e Suarez!

È il rinascimento Celeste, che si sublima in un mondiale 2010 storico. L’Uruguay perde in semifinale da sfavorita per le scommesse calcio contro l’Olanda, ma l’anno dopo vince la quindicesima Copa America, in casa dell’Argentina, superando l’Albiceleste per numero di competizioni continentali vinte.

E le nuove generazioni continuano a seguire la lezione delle generazioni passate e vincenti, sfornando talenti clamorosi per adattamento al calcio europeo (Bentancur e Darwin Nunez) e garra (Valverde). Non male per chi conta appena tre milioni di abitanti. Ma nel paese più calcistico del mondo, tutto è possibile.

Segui il calcio sudamericano con le scommesse 888sport!

*Le immagini dell'articolo, entrambe distribuite da AP Photo, sono di Eugenio Savio e Leo Correa. Prima pubblicazione 15 giugno 2020.

January 5, 2021
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Daniele Massaro: l'uomo in più!

Dopo quella di Petro Vierchowod, raccontiamo la storia di un altro Campione del Mondo... insospettabile! Per chi ha passato gran parte della sua carriera giocando da attaccante, 110 gol in oltre 600 partite non sembrano poi troppi. Ma i numeri, si sa, non sempre raccontano completamente una storia. In questo caso, non lo fa neanche la bacheca, nonostante quella di Daniele Massaro sia piena. Anzi, strapiena. Quattro scudetti, tre Supercoppe Italiane, due Coppe dei Campioni, tre Supercoppe Europee e due Coppe Intercontinentali con la maglia del Milan.

Più una vittoria e un secondo posto ai mondiali con l’azzurro delle nazionale. Ma cifre e trofei sono solo una parte della carriera di un calciatore che ha vissuto tantissime vite sportive. Uno che, per la sua capacità di trovarsi sempre al posto giusto e al momento giusto si è guadagnato un appellativo che è ormai leggenda: Provvidenza.

Forse pochi gol, ma quelli giusti, quelli capaci di sbloccare i match più complicati. Che poi, in fondo, Daniele Massaro non era mica un centravanti vero. Una volta, negli almanacchi, sarebbe finito sotto la voce “jolly”. Escludendo i guantoni da portiere e il numero uno, ha indossato qualsiasi numero di maglia e ha giocato in qualsiasi ruolo.

Centrocampista, trequartista, esterno, terzino, mediano, centravanti. L’importante era scendere in campo. E pazienza se ogni anno le formazioni base a inizio stagione dicevano altro, per Massaro un posto in campo si trovava sempre, fosse dal primo minuto o a partita in corso. E spesso e volentieri, la sua presenza in campo era presagio di eventi felici, anche per chi puntava sulla sua squadra nelle scommesse!

Che il Milan fosse nel suo destino era quasi logico, visto che l’uomo della Provvidenza nasce a Monza nel 1961. Proprio come Adriano Galliani, che non è ancora entrato nel mondo del calcio, ma a fine anni Settanta getta uno sguardo interessato a quel ragazzo che con la maglia biancorossa si fa notare in Serie B. Per Massaro con la squadra della sua città arrivano 60 presenze nella serie cadetta e 10 reti, in perfetta media con quella che sarà la tendenza generale della sua carriera.

Nel 1981 arriva l’occasione: Picchio De Sisti lo vuole alla Fiorentina, di cui diventerà un punto fermo. Con la Viola sfiora lo Scudetto alla sua prima stagione (1981/82) e si guadagna anche la chiamata in Nazionale, esordendo a Lipsia contro la Germania Est. Bearzot lo convoca per i mondiali in Spagna e, anche se non giocherà neanche un minuto, Massaro si laurea campione del mondo. Non male, per un ventunenne.

La chiamata più importante

A Firenze resta fino all’estate del 1986, quando squilla il telefono. Dall’altro capo della cornetta c’è Galliani, che ha una proposta irrinunciabile: Berlusconi ha acquistato il Milan e il dirigente vuole Massaro a Milanello. Una gioia per il venticinquenne, da sempre tifoso rossonero. Nella prima stagione a Milano regala al Diavolo la qualificazione in Coppa UEFA segnando la rete decisiva nello spareggio contro la Sampdoria. La Provvidenza comincia a dare i suoi frutti.

L’anno successivo arriva Sacchi, che lo apprezza parecchio per la duttilità e per capacità tattiche fuori dal comune. Massaro, in una rosa di campioni, è costantemente il primo cambio del tecnico di Fusignano nella cavalcata che porterà allo Scudetto vinto contro il Napoli di Maradona. Poi, nella stagione 1988/89, su richiesta di Liedholm, che l’ha già avuto in rossonero, va in prestito alla Roma, perdendosi la prima Coppa dei Campioni dell’era Berlusconi.

Poco di cui preoccuparsi, perché quando torna a Milanello, il destino ha in serbo per lui parecchie gioie. Nella stagione 1989/90 Massaro gioca quasi sempre da titolare, sfruttando l’infortunio di Gullit. È la sua seconda miglior stagione in carriera in termini realizzativi (15 gol in 48 partite) e l’esordio assoluto in Coppa Campioni coincide con il secondo trionfo consecutivo dei rossoneri, a cui contribuisce con 7 presenze e una doppietta ai finlandesi dell’HJK nei sedicesimi di finale.

Quando nel 1991 Sacchi lascia la panchina del Milan, per Massaro sembrano prospettarsi tempi duri. Ma anche il suo successore, Capello, non può fare a meno della mano (anzi, del piede) della Provvidenza. Tra 1991 e 1993 arrivano due scudetti consecutivi, giocando molto spesso da titolare, prima a fianco di Van Basten e poi, dopo i gravi guai fisici del Cigno di Utrecht, al suo posto. È il Milan degli Invincibili, una squadra cui in sulla carta il brianzolo dovrebbe fare spazio agli altri, ma in pratica la prima maglia che Capello assegna è quasi sempre la sua.

Un finale da applausi

Quella di Massaro sarebbe già una carriera straordinaria, ma è il finale che lascia assolutamente di stucco. All’inizio della stagione 1993/94, l’attaccante ha già compiuto 32 anni e dovrebbe essere in fase discendente. Ma Massaro ha ancora molto da dire e non lascerà che la carta di identità glielo impedisca. E quindi arrivano 47 presenze, il massimo in rosa assieme Donadoni e Costacurta, il titolo di miglior cannoniere della squadra con 16 reti e il terzo scudetto consecutivo.

Ma soprattutto, c’è la notte di Atene, quella in cui il Milan di Capello schianta il Dream Team, il Barcellona di Cruijff, vincendo la Champions League. E a sparigliare le carte c’è proprio Massaro, che nella partita più importante segna le prime due reti di un 4-0 davvero impronosticabile per le scommesse sportive che passa alla storia. La Provvidenza si è decisamente compiuta. E quindi, dopo un altro anno in rossonero, Massaro può andare a chiudere la carriera in Giappone, con la maglia degli Shimizu-Pulse.

Massaro con la maglia del Milan!

Resta però una non trascurabile appendice. In quel 1994 pazzesco, Massaro riceve una chiamata importante: Sacchi lo vuole in nazionale al mondiale negli USA, a otto anni dalla sua ultima partita in azzurro. Massaro parte per gli Stati Uniti, ben sapendo che avrà davanti a sé Baggio e Signori nel 4-4-2 del tecnico di Fusignano. Ma se c’è da cambiare il corso di una partita o, perché no, di un torneo, Sacchi lo sa, nessuno può farlo meglio di Massaro. Che infatti le gioca tutte, tranne la semifinale contro la Bulgaria.

Subentra sia contro l’Irlanda che con la Norvegia, poi nel match contro il Messico entra dopo l'intervallo e in tre minuti segna la rete azzurra nell’1-1 che regala all'Italia il passaggio del turno. Dopodiché gioca per intero il match contro la Nigeria, quello con la Spagna e la finalissima contro il Brasile. Dopo 120 minuti nel caldo di Pasadena, però, anche la Provvidenza può fallire. Il terzo rigore sbagliato, assieme a quelli di Baresi e Baggio, è il suo.

Ma a Daniele Massaro non si può certo rimproverare di aver deciso una partita, per quanto importante, in negativo. Anche perché il saldo, in carriera, è decisamente sbilanciato dall’altra parte…

*Le due immagini dell'articolo sono distribuite da AP Photo: la prima è stata scattata da Doug Mills.

 
June 14, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Il club dei 100: Matteo Brighi!

Inserito nella lista dei 100 giovani calciatori più promettenti del mondo del 2001 da Don Balon, talmente considerato una stella del futuro da diventare uno dei giocatori più forti in parecchi videogiochi dell’epoca, Matteo Brighi sembrava avere davvero tutto per contribuire alla storia del calcio italiano.

E in qualche maniera il centrocampista riminese l’ha fatta, anche se forse non come tutti si aspettavano. Ma in un mondo come quello del pallone, in cui ci vuole davvero poco a ritrovarsi fuori dal giro che conta, la costanza è una dote tanto quanto il talento innato.

E 405 presenze in 17 stagioni di Serie A, abbastanza per attestarsi al cinquantacinquesimo posto della classifica, a pari merito con Giorgio Ferrini, Diego Fuser e Beppe Savoldi, non sono esattamente roba da nulla. Con i numeri fissi, sarebbe stato uno di quegli "otto" tanti cari al nostro account Twitter!

Una vita, quella di Brighi, che non poteva essere che all’insegna del pallone. Secondogenito di quattro fratelli, che hanno tutti quanti fatto i calciatori, il giovane Matteo si mette in luce prima nella squadra della parrocchia e poi in quella della Polisportiva Stella San Giovanni. La chiamata del Rimini, a 15 anni, è la normale conseguenza della sua scalata.

Quando esordisce in prima squadra, Brighi si trova alle prese con il campionato di Serie C2. E se nella prima stagione viene impiegato da centrocampista centrale con velleità offensive, in quella successiva si trasforma in esterno destro, andando a segno addirittura sei volte. Ed è in quell’annata che lo nota la Juventus.

La Signora anticipa tutti e scommette su di lui, facendolo esordire in Serie A nella stagione 2000/01. A 19 anni, Brighi fa 12 presenze complessive nella Juventus, ma evidentemente ha bisogno di giocare e nella stagione successiva viene ceduto in prestito al Bologna, dove trova spazio da titolare, a volte arretrando un po’ il suo raggio di azione. Guidolin lo schiera da centrocampista centrale ma anche da mediano, anticipando quella che sarà la trasformazione tattica del calciatore romagnolo.

Pedina di scambio importante

Nell’estate 2002 torna alla Juventus: giusto il tempo di vincere la Supercoppa e di esordire in nazionale contro la Slovenia, che viene girato in comproprietà al Parma, nell’ambito dell’operazione Di Vaio. Nell’annata al Tardini esordisce in Coppa UEFA e realizza anche il suo primo gol in Serie A, contro il Torino. A fine stagione la comproprietà si risolve a favore della Juventus, ma nell’estate 2003 arriva l’ennesimo prestito, al Brescia. Dopo un inizio stagione in panchina, Brighi si conquista il posto e incamera altre 29 presenze in A.

Il suo legame con la Juventus termina ufficialmente nel 2004, quando viene ceduto alla Roma nell’operazione con cui Emerson si trasferisce in bianconero. I giallorossi, a loro volta, lo prestano al Chievo, da cui stanno acquistando Perrotta. A Verona Brighi trova finalmente una certa stabilità e una maturità tattica importante.

Da centrocampista offensivo a tuttocampista, capace di recuperare una quantità industriale di palloni e allo stesso tempo di essere letale sotto porta, con una capacità di inserimento tra le linee che ha pochi eguali in Italia. Al Chievo si trova talmente bene che il prestito viene rinnovato per ben due volte.

Come uomo chiave del centrocampo gialloblù accumula 89 presenze in campionato con nove reti e si toglie anche la soddisfazione di esordire in Champions League, quando i Mussi Volanti, a sorpresa per le scommesse Serie A , si ritrovano ai preliminari contro il Levski Sofia. Quell’anno, però, i veronesi retrocedono e Brighi torna a Roma. 

Terzo titolare in mezzo a Roma

Le quattro stagioni nella Capitale sono quelle più significative della sua carriera, sia per prestazioni che per risultati. In giallorosso vince una Supercoppa, una Coppa Italia e sfiora lo scudetto sia nel 2008 che nel 2010. Sia per Spalletti che per Ranieri è un’alternativa importante, il primo cambio della coppia De Rossi-Pizarro. Comprensibile, visto che per caratteristiche Brighi può sostituire egregiamente entrambi.

Con la Roma arriva anche il primo gol in Champions League in carriera. Anzi, la prima doppietta, perché sono due le reti che permettono ai giallorossi di battere il Cluj nell’edizione 2008/09. E sempre al periodo nella Capitale, nel 2009, risalgono le altre tre presenze in nazionale, con Lippi che lo schiera in due partite di qualificazione al mondiale 2010.

Nell’estate 2011, all’arrivo della nuova proprietà, la Roma lo manda di nuovo in prestito, stavolta all’Atalanta. L’esperienza in nerazzurro non è molto positiva, anche a causa di un infortunio al perone. Va meglio l’anno dopo al Torino. I granata lo prendono prima a titolo temporaneo e poi, nell’estate 2013, definitivamente, ma a metà di quella stessa stagione lo cedono al Sassuolo.

Brighi in contrasto con Ledesma!

In Emilia resta un anno e mezzo, contribuendo alla prima rocambolesca salvezza della squadra di Di Francesco e regalando buone prestazioni nell’annata successiva. Brighi sceglie la stessa regione anche nel 2015/16, ma cambiando squadra: a fargli firmare un contratto annuale è il Bologna, che lo riaccoglie dopo 14 anni. A fine stagione rimane svincolato e decide di scendere di categoria, accettando l’offerta del Perugia.

Dopo una stagione e mezza al Curi passa all’Empoli, giusto il tempo di ottenere la promozione da outsider per le scommesse calcio e la possibilità di un ultimo ballo in Serie A. La stagione 2018/19, quella conclusiva della sua carriera, termina con 10 presenze e un gol, il che gli permette di superare quota 400 presenze in A e di appendere gli scarpini al chiodo con un traguardo importante raggiunto.

L’azzurro, come spesso accade per chi passa gran parte della carriera senza quasi mai toccare le big, è l’unica delusione per Brighi. Che per quattro anni è pedina fondamentale dell’Under-21, arrivando in semifinale degli Europei 2002 e addirittura laureandosi campione d’Europa nel 2004 con De Rossi, Amelia, Gilardino, Barzagli e Zaccardo. Brighi però è uno dei calciatori tagliati da Gentile per Atene 2004, per le Olimpiadi si possono convocare solo 18 calciatori invece dei classici 22/23.

E, a differenza di molti compagni di Under, la nazionale maggiore la vedrà poche volte. Un peccato, forse anche una delusione per chi ha iniziato la carriera con le premesse del predestinato. Ma la storia del calcio italiano, in fondo, si può fare in tanti modi…

*Le due immagini dell'articolo, entrambe distribuite da AP Photo, sono di Carlo Baroncini e Massimo Pinca.

June 12, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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