Un uomo squadra da oltre 400 presenze in A: la carriera di Massimo Gobbi 

Tanta corsa, spirito di sacrificio, grandissima continuità di prestazioni ed un sinistro piuttosto educato. Queste le caratteristiche che hanno portato Massimo Gobbi nella classifica dei primi cento giocatori per numero di presenze in Serie A, ad appena sei gettoni di distanza da Nesta. Entrato nel settore giovanile del Milan all’età di undici anni, dopo sette anni con i rossoneri va a giocare in Serie C con la maglia del Pro Sesto.

A vent’anni arriva l’esordio in Serie B con la maglia del Treviso, ma dopo sole sette presenze i veneti decidono di cederlo in prestito in Serie C. Due stagioni da titolare, la prima con la maglia del Giugliano, la seconda da assoluto protagonista con l’Albinoleffe, raggiungendo la storica promozione in Serie B. In quel di Bergamo, Gobbi riesce ad affermarsi, giocando in una squadra che ha fatto crescere diversi calciatori arrivati poi in Serie A.

Da Biava a Carobbio, da Raimondi allo stesso Gobbi, l’Albinoleffe conquista la promozione in Serie B, battendo ai tempi supplementari il Pisa nella finale dei Playoff.

Gobbi chiude la stagione con sette reti e cinque assist, risultando essere il miglior terzino sinistro della Serie C. A 23 anni arriva la consacrazione nella serie cadetta nuovamente a Treviso, dove rimarrà solamente una stagione. In Veneto, Gobbi colleziona 44 presenze, realizzando anche cinque reti in Serie B con il Treviso che riesce a raggiungere la salvezza con 4 punti rispetto alla zona playout. Al termine della stagione arriva la chiamata del Cagliari, che decide di portare Massimo Gobbi in Serie A.  

L'esordio in Serie A

I sardi lo acquistano in prestito con diritto di riscatto nell’estate del 2004. In rossoblu Gobbi mette in mostra la sua duttilità, giocando sia da mezzala che da terzino sinistro dimostrando di essere subito utile. L’esordio in Serie A arriva il 12 settembre del 2004, quando viene schierato dal primo minuto dal tecnico Daniele Arrigoni nel match vinto 1-0 contro il Bologna.

Il primo gol arriva nel giorno della Befana del 2005 nella vittoria per 2-1 del Cagliari contro il Messina al Sant’Elia. Dopo due stagioni in Sardegna, viene acquistato a titolo definitivo dalla Fiorentina per poco meno di 4 milioni di euro. Nel 2006 si guadagna anche la convocazione in Nazionale subito dopo il successo al Mondiale tedesco.

Il 16 agosto del 2006 il neo ct azzurro Roberto Donadoni lo fa esordire nella prima amichevole post Mondiale. All’Armando Picchi di Livorno gli Azzurri perdono 2-0 contro la Croazia e Gobbi entra a 15 minuti dalla fine prendendo il posto di Massimo Ambrosini. In maglia viola l’esterno mancino gioca oltre cento gare di cui 81 in campionato, facendo anche l’esordio in Champions League sempre con la Fiorentina di Prandelli.

Dieci presenze tra preliminari e fase a gironi nella massima competizione europea tra il 2008 e il 2010. Dopo quattro anni in quel di Firenze, i viola decidono di non rinnovare il contratto a Gobbi che lascia la Fiorentina.  

Una vita al Parma

Il Parma decide di offrirgli un contratto e con i Ducali Gobbi si rivela uno dei terzini più solidi e affidabili del campionato. La miglior stagione con il Parma è sicuramente quella del 2011/12, quando Gobbi, oltre a realizzare due gol, è uno dei titolari inamovibili nel 3-5-2 di Roberto Donadoni. Il Parma chiude a soli due punti dalla zona europea, concludendo la stagione con un'incredibile, per le scommesse Serie A sequenza di sette vittorie consecutive.

Cinque stagioni in Emilia e 155 presenze in Serie A, segnando anche quattro gol e servendo dieci assist. A 35 anni l’esterno sinistro firma un contratto di tre anni con il Chievo Verona: con i clivensi colleziona altre 88 presenze in Serie A. Nell’estate del 2018 per inseguire le 400 presenze nella massima serie, decide di tornare a Parma per finire la carriera lì dove ha giocato ad alti livelli per cinque stagioni ed aggiunge 16 presenze nella stagione 2018/19.

A 39 anni Massimo Gobbi chiude la sua carriera con 411 presenze in Serie A e attualmente occupa la 50esima posizione nella classifica dei giocatori con più presenze nella massima serie.  
*L'immagine di apertura dell'articolo è di Marco Vasini (AP Photo).

July 5, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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La Fiorentina di Salah ed Ilicic!

La Fiorentina della stagione 2014/15 è una delle sorprese più liete di quella Serie A. La squadra allenata da Vincenzo Montella si aggiudica in volata il quarto posto, terminando il campionato con 64 punti, figli di 18 vittorie, 10 pareggi e altrettante sconfitte.

Fossimo nell’epoca dei quattro posti in Champions League, i viola si andrebbero a giocare l’Europa che conta, ma purtroppo per loro all’epoca la medaglia di legno vale solamente l’accesso diretto ai gironi di Europa League. Il tutto anche grazie a due calciatori che ora come ora sono delle stelle di primissima categoria, ma che all’epoca erano ancora due misteri del pallone.

All’inizio della stagione 2014/15 Josip Iličić è a Firenze da un anno e non ha impressionato, anzi. Per lui appena 6 reti in 31 partite, non certo i numeri che la Fiorentina si aspetta dopo averlo pagato 9 milioni di euro al Palermo.

Senza contare che davanti Montella non ha le idee molto chiare, schierando lo sloveno in diversi ruoli senza trovargli una collocazione precisa. In quello stesso lasso di tempo, Mohamed Salah sta ancora cercando di adattarsi al campionato inglese, nel Chelsea di Mourinho, che lo ha acquistato per 15 milioni di euro dal Basilea nel febbraio 2014.

L’egiziano però non riesce a ricavarsi il suo spazio a Stamford Bridge e un anno dopo, il 2 febbraio 2015, viene prestato alla Fiorentina. Per quattro mesi, Montella avrà a disposizione una coppia di mancini terribili, destinati a diventare il terrore delle difese di tutta Europa.

L'esordio della coppia

La prima partita in cui i due sono a disposizione è quella contro l’Atalanta dell’8 febbraio 2015. Entrambi partono dalla panchina e solo Salah scende in campo, per 25 minuti al posto dello spagnolo Joaquin. Il match termina 3-2 per la Fiorentina, senza che però né lo sloveno né l’egiziano abbiano voce in capitolo. Tempo una settimana e contro il Sassuolo la storia cambia.

Salah parte titolare e gioca 82 minuti, il tempo di segnare il suo primo gol in Serie A e regalare anche un assist a Babacar. Iličić entra al suo posto e in 8 minuti non riesce a incidere nel 3-1 finale. I primi minuti giocati assieme sono gli ultimi cinque della partita di Europa League contro il Tottenham: Salah gioca tutta la partita, mentre Iličić subentra a Mario Gomez, ma nessuno dei due entra nel tabellino, con il match che finisce 1-1. Stesso risultato in Serie A contro il Torino.

Stavolta è Iličić a giocare 90 minuti, mentre l’egiziano subentra a Diamanti a tre quarti di match. Il suo gol all’ottantacinquesimo non basta però a portare a casa i tre punti. Febbraio si chiude con il ritorno contro gli Spurs, in cui gioca solo Salah, che segna il 2-0 che chiude il match.

Lo sloveno esulta in Viola!

Ancora una rete per l’egiziano contro l’Inter, dopo essere subentrato a Babacar a pochi minuti dall’intervallo. Salah e Iličić, in campo dall’inizio, fanno coppia per tutta la ripresa e la Fiorentina vola grazie alla stoccata dell’ex Chelsea che punisce i nerazzurri. Il primo match, posticipo del lunedì per le scommesse Serie A, in cui i due giocano assieme per novanta minuti è da dimenticare: la squadra di Montella perde malissimo (4-0) contro la Lazio di un ispirato Felipe Anderson.

Va meglio in Europa League contro la Roma. Al Franchi finisce 1-1 e la rete iniziale è di Iličić su imbeccata di Salah. Poi lo sloveno verrà sostituito al minuto 81. Lo sloveno è titolare ma non incide contro il Milan, match che termina 2-1 per i toscani e in cui Salah viene lasciato a riposo. Ruoli invertiti nel ritorno di Europa League contro la Roma, che finisce 0-3, ma in cui l’egiziano non riesce a trovare la porta. Nell’ultimo match di marzo, contro l’Udinese, Iličić trova due assist nel 2-2 finale, prima di lasciare il posto proprio a Salah al minuto 69.

Poi però qualcosa si rompe. Iličić salta per somma di ammonizioni l’unica vittoria in campionato di aprile, quella contro la Samp per 2-0, in cui Salah chiude i conti. Poi in Serie A arrivano quattro sconfitte di seguito. Contro il Napoli (3-0) i due scendono in campo assieme, ma sono impalpabili e lo sloveno esce all’intervallo. Nella sconfitta interna con il Verona (0-1) è quasi staffetta, con Iličić che entra al minuto 55 e Salah che esce sette giri di lancetta più tardi.

Nell’1-3 contro il Cagliari gioca solo l’egiziano, mentre Ilicic si accomoda in panchina, mentre nel 3-2 in casa della Juventus è di nuovo staffetta, con Iličić che entra al minuto 81 al posto di Salah e realizza l’inutile gol che accorcia le distanza. In Europa League la Fiorentina ha la meglio sulla Dinamo Kiev (2-0 e 1-1), ma in entrambi i match c’è minutaggio (90 minuti pieni) solo per Salah.

Finale in crescendo

A inizio maggio Montella decide di tentare il tutto per tutto e li schiera entrambi contro il Cesena. Finisce 3-1 con doppietta di Iličić e 63 minuti assieme. Nella semifinale di andata di Europa League il Siviglia di Emery è troppo forte e né Salah (90 minuti) né Iličić (entrato a dieci dalla fine per Gomez) possono impedire il 3-0 finale.

Meglio il match contro l’Empoli in campionato: nel 2-3 finale al Castellani ci sono le firme di entrambi. Doppietta dello sloveno, primo marcatore dell'incontro per le scommesse calcio e rete dell’egiziano, entrato a inizio ripresa, su assist ancora di Iličić. Il ritorno contro il Siviglia è pessimo, con i due che fanno coppia in attacco e lo sloveno che sbaglia un rigore quando però il risultato è già sullo 0-2 per gli spagnoli. In campionato però la coppia va: 79 minuti assieme contro il Parma, entrambi da titolari, con rete del 3-0 definitivo per Salah.

Alla penultima giornata Iličić fa piangere il “suo” Palermo su assit dell’egiziano (finisce 2-3 per i viola) e il campionato termina con una manita di vittorie consecutive con il 3-0 al Chievo, con partenza di entrambi da titolari e ancora gol di Iličić su assist di Salah.

Poi però il mercato divide la strana coppia. L’egiziano finisce alla Roma, che lo acquista dal Chelsea, mentre lo sloveno rimane a Firenze fino al 2017. Numeri alla mano, forse Montella poteva essere un po’ più coraggioso e schierare più spesso i due assieme e dal primo minuto.

Del resto, in quella stagione Iličić è capocannoniere della squadra con 10 reti, sette delle quali arrivano nell’ultimo mese, mentre Salah contribuisce alle fortune della Viola con sette reti in quattro mesi ed una meravigliosa serata di Coppa Italia a Torino con una vittoria a sorpresa per le scommesse sportive della Fiorentina per 1-2 e la Juve sconfitta in casa dopo quasi due anni! Per i due, quattro reti in “coabitazione”, tre di Iličić  su assist di Salah e una dell’egiziano con l’aiuto dello sloveno.

Certo, con il senno di poi, ora che Iličić segna 4 reti a Valencia, è tra le stelle dell’Atalanta che fa innamorare l’Europa e Salah, valutato 120 milioni di euro dal sito specializzato transfermarkt ha vinto tutto il possibile e non con il Liverpool, sfiorando il Pallone d’Oro, è semplice dire che non ci si era resi conto del potenziale talento dei due mancini. Ma probabilmente, anche all’epoca, analizzando un po’ meglio le loro prestazioni, sarebbe stato il caso di dar loro un pizzico di fiducia in più…

*Le immagini dell'articolo, distribuite da AP Photo, sono entrambe di Fabrizio Giovannozzi.

July 3, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

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Quando l'allenatore è anche compagno di squadra: lo strano caso del player manager!

E' esistito un tempo - e pure assai duraturo in cui non era raro trovarsi di fronte all'enigmatica figura del player-manager o, per dirla all'italiana, dell'allenatore-giocatore. Un ruolo improvvisamente scomparso a un certo punto della storia del calcio: quello attuale, anche a fronte di allenatori "decisionisti" alla Mourinho o Simeone, necessita della presenza di assistenti bravi e coordinati.

Troppi aspetti tecnici da curare, rispetto al passato. In epoca recente, il ruolo di "player-manager"  è stato riesumato in un solo particolarissimo caso, che aveva visto impiegato nel doppio ruolo, al Manchester United, un certo Ryan Giggs. Era alla fine della stagione 2013-2014 e l'esperienza - esplicitamente annunciata a tempo determinato - vide il talento gallese scendere in campo - nella duplice veste - una sola volta, quella contro l'Hull City.

Ottenne una sola sconfitta e un buon bottino di 7 punti come "pezza" alla confusionaria annata di David Moyes, in vera difficoltà da immediato successore di sir Alex Ferguson. Dopodiché, il Mago gallese (oggi commissario tecnica della sua nazionale) iniziò a intraprendere la sua gavetta da allenatore vero e proprio da secondo di Louis van Gaal. Quello di Ryan Giggs si è trattato, ad ogni buon conto, dell'unica circostanza di player-manager al Manchester United, favorito dell'Europa League 2020 per le scommesse sportive 888!

I "pilastri" Giles e Dalglish

Un caso, lo ribadiamo, un po' isolato dall'epoca in cui il ruolo di allenatore-giocatore veniva effettivamente preso in seria considerazione. Un tempo collocabile tra gli anni Settanta e i Novanta. Gli esempi, neanche a dirlo, arrivavano quasi sempre da Oltremanica. In Italia se ne ricordano solo un paio. E parecchi anni fa. Armando Picchi col Varese 1968-69 e il cannoniere Giuseppe Meazza con un'Inter non proprio entusiasmante, ancor prima, nel 1946-47.

In Inghilterra, due solide colonne circa questo tipo di carriera, sono rappresentate da Johnny Giles e Kenny Dalglish. Il primo, tra 1973 e il 1980, lo si vide impegnato (unico caso nella storia di questo sport) ad essere il player-manager sia di una squadra di club, il West Bromwich Albion, che della propria Nazionale, l'Irlanda, con cui andò vicino alla qualificazione ai Mondiali di Argentina 1978.

Centrocampista dai piedi fatati ma dal temperamento sanguigno, era uno dei "cocchi" del maledetto Leeds United di Don Revie e colui che più di tutti - insieme a capitan Billy Bremner - maldigerì la scelta del board in favore di Brian Clough dopo l'investitura di Revie a ct inglese. Lo stesso Giles, infatti, si aspettava - così come il resto della squadra - di giocare e allenare a Elland Road. Abbandono prematuramente ogni velleità di tecnico nell'estate 1985 per dedicarsi alla vita di commentatore tecnico.

Non può essere un caso che quasi tutti i player-manager abbiano abbandonato completamente l'attività di allenatore (dopo quella di giocatore) prima dei 50 anni. E' stato così anche per Kenny Dalglish, che nel doppio ruolo, dopo aver sostituito il vecchio tecnico Joe Fagan subito dopo la tragica notte dell'Heysel, contribuì a rimpinguare la bacheca dei trofei del Liverpool, vincendo peraltro l'ultimo campionato - nel 1990 - prima di quello conquistato proprio in questi giorni da Jürgen Klopp.

Fu sconvolto dalla tragedia di Hillsborough, nel 1989, in cui rischiò di perdere il figlio Paul allora dodicenne (poi calciatore di Norwich, Wigan e Kilmarnock ed attuale direttore generale del Miami Fc in MLS). 

Hoddle, Gullit, Vialll e la tradizione Chelsea

Da ricordare anche l'esperienza di Glenn Hoddle, che a inizio anni Novanta portò il piccolo Swindon Town nella neonata Premier League, salvo poi passare, sempre da player-manager al Chelsea, inaugurando la lunga tradizione del giocatore-allenatore in casa Blues.

I "Pensioners" ebbero, nella seconda metà degli anni Novanta, anche Ruud Gullit: il presidente Ken Bates gli tratteggiò il ruolo di libero - da cui poteva vedere tutto l'andamento della squadra - e, al tempo stesso, guida tecnica. L'esperimento funzionò tra FA Cup conquistata da favoriti per le scommesse calcio contro il Boro nel 1997, ma a febbraio del 1998 Bates - che gli rimproverava un'eccessiva arroganza - lo fa "staffettare" con Gianluca Vialli, simbolo del Chelsea italiano in cui c'erano anche Roberto Di Matteo e Gianfranco Zola.

Il Chelsea festeggia la vittoria sul Middlesbrough nel 1997!

Non arriveranno titoli di Premier (il Manchester United di Ferguson era al massimo del suo strapotere, tuttavia ci si potrà "consolare" con una Coppa delle Coppe (quella essenzialmente ricordata per le incredibili imprese del Vicenza) e, tra gli altri successi, una Coppa di Lega e un'altra FA Cup. Dopo un'ultima esperienza al Watford, nel 2001-2002, Vialli molla "logorato - come da lui stesso ammesso - da un ruolo con troppe responsabilità, in cui far convivere le mentalità di calciatore e allenatore, è eccessivamente complicato".

Il raro caso di Attilio Lombardo

Attilio Lombardo è un altro raro caso nel suo genere: soprannominato "Italian Bald Eagle" fu allenatore-giocatore del Crystal Palace in Premier League  (dal 13 marzo al 29 aprile 1998) continuò la sua carriera esclusivamente da calciatore dopo l'esperienza inglese, vincendo un campionato al rush finale con la Lazio per le scommesse Serie A, dopo quelli con Sampdoria e Juventus.

Prima di sposare la causa delle aquile capitoline, non riuscì a salvare le "Eagles" rossoblù del sud di Londra, club di cui - tuttavia - resta a tutt'oggi una vera e propria leggenda.

*Le immagini dell'articolo, entrambe distribuite da AP Photo, sono di Jon Super e Max Nash.

 
July 3, 2020
Stefano Fonsato
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Stefano collabora da anni come giornalista freelance per il portale web di Eurosport Italia, per il quotidiano La Stampa e con la casa editrice NuiNui per la quale è stato coautore dei libri "I 100 momenti magici del calcio" e "I 100 momenti magici delle Olimpiadi".

E' amante delle storie, dei reportage e del giornalismo documentaristico, ma il suo "pallino" resta, su tutti, il calcio d'Oltremanica.

 

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Stoichkov, tra genialità e concretezza!

“Dio è bulgaro e oggi gioca con noi”. Se lo dice uno che si chiama Hristo, va a finire che ci si può anche credere. Poi in realtà quel giorno nell’estate 1994 le volte celesti non guardano con favore alla Bulgaria ortodossa, ma alla cattolica Italia del buddhista Roberto Baggio. Il Codino segna due volte in capo a cinque minuti e spedisce l’Italia alla finale dei mondiali. E a Hristo, che di cognome fa Stoichkov, non resta altro che segnare la rete del vano 2-1 e diventare capocannoniere a fine torneo.

Si potrà comunque consolare qualche mese dopo. L’Italia la Coppa del Mondo non la solleva e il 20 dicembre di quell’anno da France Football la classifica della trentanovesima edizione del Pallone d’Oro recita: Stoichkov, 210 voti, Baggio 136.

Non male per chi quell’anno ha vissuto due delle delusioni più cocenti della sua carriera. Qualche settimana prima del match di New York, il Barcellona di Johan Cruijff, il Dream Team, era stato schiantato ad Atene nella finalissima di Champions League dal Milan di Maldini e Savicevic.

Eppure, grazie alla quarta Liga consecutiva conquistata e all’exploit mondiale della Bulgaria, il numero 8 blaugrana si porta a casa il premio. Da quando è arrivato in Catalogna, del resto, sembra non saper fare altro che vincere, compresa la Coppa dei Campioni strappata alla Sampdoria e quella delle Coppe vinta successivamente. E anche in patria, con la maglia del CSKA Sofia, non si è fatto mancare nulla, con tre campionati e quattro coppe di Bulgaria.

Un duello con Desailly!

Ma la sua storia non è solo campo. La vita di Hristo Stoichkov, classe 1966, potrebbe tranquillamente diventare un film. Un’infanzia complicata dalle parti di Plovdiv, tra fabbriche e legge del più forte. Il più forte quasi sempre è lui, visto che già da giovanissimo si guadagna un soprannome mica da ridere: “Kamata”, il pugnale. Non un fine pensatore, verrebbe da pensare.

E invece Hristo riesce curiosamente a rimanere in bilico tra un carattere scontroso e un atteggiamento quasi da filosofo. Un misto tra quella genialità che in campo gli fa fare cose pazzesche con il sinistro e una concretezza tutta balcanica che, visto che è già al CSKA, squadra dell’esercito, lo porta ad entrare nelle forze armate (fino a diventare maresciallo) per garantirsi, comunque vada, un futuro.

Il futuro in realtà se lo costruisce con il pallone tra i piedi, anche se rischia che tutto finisca presto, quando ha appena vent’anni. In una doppia finale di coppa di Bulgaria tra il CSKA e i rivali del Levski, succede l’imponderabile. All’andata Hristo ne fa quattro nel 5-0 della sua squadra e al ritorno si presenta in casa degli avversari con sulla schiena proprio il numero quattro invece dell’iconico otto che ne accompagnerà tutta la carriera.

Apriti cielo, a fine partita scoppia una rissa leggendaria che costringe il governo a prendere provvedimenti esemplari. Stoichkov viene radiato. Anzi no, sospeso per un anno, che poi diventano sei mesi. Giusto il tempo di saltare il mondiale in Messico. Per farsi notare, però, ci sono le coppe europee. E quando nel 1989 il CSKA affronta il Barcellona con Stoichkov primo marcatore per le scommesse calcio, Cruijff si innamora di lui.

Gli sconvolgimenti politici danno una mano ai blaugrana e nel 1990 il bulgaro si trasferisce al Camp Nou. Ma persino il Profeta del Gol ha le sue difficoltà a tenere a bada il suo nuovo campione. Le finali di coppa, evidentemente, non piacciono granchè a Hristo, considerando che nella prima giocata in Spagna riesce a dare (volontariamente) un pestone clamoroso all’arbitro Unzuè, che aveva espulso il tecnico olandese. Risultato, sei mesi di squalifica.

Ma, come era facilmente prevedibile, arriva l’amore incondizionato della tifoseria culè, considerando che il fattaccio avviene in un match contro il Real Madrid. La sua esultanza a braccia alzate gli vale un altro soprannome, quello di “Ayatollah”, anch’esso non troppo usuale ma sicuramente esplicativo.

Barcellona diventa casa sua, nonostante molti alti e bassi. I rapporti con Cruijff sono altalenanti, perché neanche un fenomeno, nell’impostazione mentale dell’olandese, può permettersi di mettersi davanti alla squadra. Ma quando a Hristo va di giocare, è uno spettacolo, soprattutto quando gli si affianca un altro talento puro dal carattere particolare: quella tra Stoichkov e Romario è tra le coppie più pazzesche (e pazze) della storia recente del pallone, ma funziona divinamente.

L'avventura in Italia

Il sinistro d’oro del bulgaro e il fiuto del gol del brasiliano regalano al Barça una stagione di trionfi che fa epoca, nonostante la bruciante sconfitta di Atene. Nel 1995 però qualcosa si rompe definitivamente e in estate arriva una notizia clamorosa: Hristo arriva in Serie A.

Il Pallone d’Oro in carica se lo aggiudica, per dodici miliardi, il Parma di Tanzi, che vuole fare di lui il suo uomo immagine per la Parmalat nell’Europa dell’Est e negli Stati Uniti, dove molti se lo ricordano per le prodezze mondiali. La rosa dei ducali fa impressione: Zola, Sensini, Couto, Asprilla, Brolin, Dino Baggio, nonchè quattro giovanissimi futuri campioni del mondo come Buffon, Inzaghi, Cannavaro e Barone. Tante stelle. Troppe, come ha spiegato di recente Hristo.

Il duello si ripete in campionato!

Il rispetto per il tecnico, Nevio Scala, è assoluto, ma manca la la pazienza. E mentre il bulgaro cerca faticosamente di ambientarsi, mostrando a volte una condizione fisica non proprio ottimale, gli intrighi cominciano a farsi largo nello spogliatoio. Stoichkov non fa nomi, ma in effetti le sue presenze si diradano (31 partite e 7 gol tra campionato e coppe) a e marzo lancia bordate contro il calcio italiano e contro lo stesso Parma, chiedendo la cessione.

Neanche a dirlo, nell’estate 1996 lo riaccoglie il Barcellona, dove trova un’intesa quasi magica con il brasiliano Ronaldo. Il sogno però dura poco con il successo da favoriti per le scommesse sul PSG nella finale di Coppa delle Coppe, perché quando Robson viene esonerato arriva un altro olandese con un carattere non semplice: Louis van Gaal. Il rapporto è così burrascoso che dura pochi mesi, con due sole presenze in Liga.

Meglio tornare in patria, con il suo CSKA, prima di intraprendere uno strano finale di carriera che lo porta brevemente in Arabia Saudita, poi in Giappone per chiudere infine in MLS. Da allenatore, poi, non andrà per nulla bene, tra esoneri e polemiche, che lo portano a darsi alla TV. 

Eppure, anche a distanza di decenni, il mito di Stoichkov non accenna minimamente a perdere il suo smalto. L’Ayatollah è ancora amatissimo a Barcellona, ma in generale resta una leggenda del calcio degli anni Novanta. Nonchè, da opinionista, uno di quelli che non ha peli sulla lingua e non si lascia mai sfuggire l’occasione di dire qualcosa di scomodo.

Come quando ha spiegato che non intervisterebbe mai Cristiano Ronaldo, perché lui parla solo con i più grandi. Spocchioso? Forse. Ma in ogni caso…è pur sempre parola di Hristo…

*Le immagini dell'articolo, entrambe distribuite da AP Photo, sono di Michael Probst e Luca Bruno.

July 2, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Il ruolo fondamentale del team manager nel calcio

In Italia ha iniziato a farsi strada a partire dalla metà degli anni '80. La figura del team manager nel calcio è stata a lungo considerata, come quella che si occupava di consegnare la distinta, segnalare all'arbitro le sostituzioni con i relativi tagliandini e, prima del fischio d'inizio, di compilare correttamente la distinta ed organizzare i viaggi in pullman. Nel calcio minore la sua funzione è ancora questa, essenzialmente..

In quello professionistico e globalizzato, invece, il lavoro del team manager si è decisamente assortito, professionalizzato, sino a diventare l'entità "garante", la linea di raccordo tra squadra (comprensiva di staff tecnico) e dirigenza: pensiamo solo al caso dell'attenzione nel redigere la lista UEFA per i club che partecipano ai tornei continentali!

Un ruolo in cui la credibilità è essenziale su entrambi i fronti, sia a cospetto del giocatore che del presidente e degli eventuali azionisti.

Dagli albori pionieristici a figura "altamente professionalizzata"

Gavetta da ds, orizzonti da "mister" o ruolo permanente?

Un mestiere nato, in qualche modo, da una "costola" del direttore sportivo, un tempo "uomo di campo", oggi sempre più uomo di scrivania e concentrato "h. 24" sulle trattative di un mercato sempre più incessante e mondializzato. La squadra curata dai diesse è diventata, progressivamente, quella degli osservatori (o scout) e la comunicazione si è essenzialmente ridotta a quella attraverso il cellulare, per capire come chiudere gli affari in uscita.

Per tutte le esigenze della "squadra del presente", quella che si allena e scende in campo ogni weekend, ci pensa, per l'appunto, il team manager. Che, non a caso, come figura professionale, è universalmente riconosciuta come primo gradino da percorrere nella gavetta che dovrà portare proprio alla "promozione" a direttore sportivo. 

Manzini, una vita con la Lazio!

Dagli albori pionieristici a figura "altamente professionalizzata"

Sono in tanti, però, coloro i quali si innamorano di questo ruolo e non lo abbandoneranno più nel corso del tempo: è il caso, tanto per fare un esempio, di Giorgio Ajazzone alla Sampdoria: è stato nominato team manager ufficialmente all'inizio della stagione 1996-1997, ma in casa blucerchiata è entrato molto prima, nel 1978, quando la figura di TM non era nemmeno una "idea" ed esisteva una "formazione del dietro le quinte" composta da 5 figure tuttofare che si occupavano un po' di tutto, dalla biglietteria all'organizzazione delle trasferte.

Ecco, se c'è un ambito in cui un team manager diventa irrinunciabile (e a diverse latitudini calcistiche), è proprio l'organizzazione dei viaggi della squadra: biglietti aerei, sistemazione in hotel, spostamenti prepartita in pullman. Insomma, stiamo parlando di una vera e propria "agenda" per giocatori e staff tecnico.

Gavetta da ds, orizzonti da "mister" o ruolo permanente?

Si diceva degli sbocchi professionali di chi inizia da team manager: c'è - come detto - chi il ruolo non l'abbandona mai e, in questo senso, il nome più celebre e spendibile è quello di Lele Oriali che negli ultimi anni si è diviso tra Nazionale e Inter come braccio destro fidatissimo di mister Antonio Conte e Roberto Mancini.

Oriali tra Inter e Nazionale!

A Di Fra è utile l'esperienza come team manager

Chi, invece, si è trasformato in allenatore: è il caso, in questo senso, di Eusebio Di Francesco. Al termine della sua ultima stagione da calciatore al Perugia, nell'estate 2005 viene nominato team manager della Roma allenata da Luciano Spalletti (di cui sarà poi successore sulla panchina giallorossa nel 2017). Un incarico mantenuto un anno, prima di diventare direttore sportivo della Val di Sangro in Serie C2.

Dopodiché, il salto ad allenatore della Virtus Lanciano nell'estate 2008. L'inizio in panchina non è memorabile: arriva subito un esonero e, l'anno successivo, Di Francesco accetta la chiamata del Pescara in qualità di direttore tecnico del settore giovanile.

Ed è qui che scatta la svolta decisiva della carriera: il 12 gennaio 2010 subentra - da allenatore - ad Antonello Cuccureddu per poi ottenere, da outsider per le scommesse calcio, la promozione in Serie B attraverso i playoff.

Restando in casa Roma (e Pescara), ad agosto 2017 l'ex portiere Morgan De Sanctis viene nominato team manager giallorosso. Insomma: nella stragrande maggioranza dei casi, il team manager ha un passato da calciatore e, al tempo stesso, una buona parlantina e spiccate attitudini gestionali.

Morgan De Sanctis, ex Team Manager della Roma!

Fulgido esempio dell'attualità è rappresentato dalla nomina di Emiliano Moretti al Torino, squadra di cui è stato capitano nelle ultime stagioni di Serie A.

Dal 2020, la Figc ha avviato un corso online specifico che - proprio come accade per gli aspiranti allenatori e direttori sportivi - "forma" accademicamente la figura del team manager.

La figura del club manager

Che in questi ultimissimi anni ha assunto contorni ulteriormente ampi, sfociando in quello che viene definito "Club manager", attento cioè anche ad aspetti che esulano dalla prima squadra in sé: fu il caso - nel 2015 - dell'ex bomber Marco Di Vaio al Bologna o dell'ex team/club manager della Fiorentina Roberto Ripa, difensore - in campo - all'epoca della Florentia Viola.

*La prima e l'ultima immagine dell'articolo, entrambe distribuite da AP Photo, sono di Alessandra Tarantino ed Ivan Sekretarev. Prima pubblicazione 1 luglio 2020.

March 14, 2024
Stefano Fonsato
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Stefano collabora da anni come giornalista freelance per il portale web di Eurosport Italia, per il quotidiano La Stampa e con la casa editrice NuiNui per la quale è stato coautore dei libri "I 100 momenti magici del calcio" e "I 100 momenti magici delle Olimpiadi".

E' amante delle storie, dei reportage e del giornalismo documentaristico, ma il suo "pallino" resta, su tutti, il calcio d'Oltremanica.

 

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Gerson: quando la giusta collocazione in campo fa la differenza!

Di calciatori brasiliani che sono arrivati in Italia per esplodere e che poi hanno deluso ce ne sono molti. Per tanti Kakà, Alisson o Julio Cesar ci sono altrettanti Fabio Junior, Athirson o Gilberto, nomi diventati di culto per un passaggio tanto breve quanto incomprensibile in Serie A. E poi c’è un’altra categoria, quella dei brasiliani che nel nostro campionato non si sono ambientati, ma che poi hanno dimostrato che forse avrebbero meritato un’altra chance.

Nel Flamengo campione in carica del Sudamerica ci sono tre ottimi esempi di questa tipologia di calciatore: Diego, rimasto alla Juventus una sola stagione, Gabigol, acquistato dall’Inter e poi rispedito in Sudamerica dove si è imposto a suon di reti, ma soprattutto Gerson.

La storia del brasiliano ex Roma e Fiorentina è davvero particolare, a cominciare dalle modalità del trasferimento in giallorosso, costato 17 milioni da versare nelle casse della Fluminense. I capitolini, si dice, lo strappano al Barcellona e promettono ai blaugrana un premio in denaro nel caso il verdeoro vinca il Pallone d’Oro con la maglia della Roma...

Una clausola contrattuale che, col senno di poi, diventa una vera e propria barzelletta nella Città Eterna. E a proposito di maglia, Gerson si ritrova inconsapevolmente invischiato in un altro problema non da poco. Il DS dell’epoca, Walter Sabatini, pensa di convincere il ragazzo a trasferirsi a Roma, spedendogli la maglia giallorosso numero 10 con il suo nome. Per una tifoseria che ha in Francesco Totti il suo punto di riferimento, è un atto di lesa maestà e il ragazzo arriva già accolto da una certa ostilità, non dopo aver passato un’altra stagione in prestito nel suo vecchio club.

Tanti ruoli, poche conferme

Anche il suo rendimento, però, contribuisce a creare scetticismo. Il suo calcio bailado è bello a vedersi, ma poco adatto alla Serie A. In un campionato in cui tutti vanno a mille all’ora, prendersi un secondo in più con il pallone tra i piedi è un rischio che pochi allenatori sono disposti a correre.  Spalletti lo fa esordire in Champions League nella sfortunata sfida con il Porto, ma poi lo impiega con il contagocce.

Per lui solo quattro presenze in Serie A e qualche spezzone di partita in Europa League con il tecnico di Certaldo, che pure, paradossalmente, potrebbe schierarlo nel ruolo che gli è più congeniale. Gerson arriva infatti con l’etichetta di centrocampista offensivo, ma dà il meglio di sé nella posizione classica del calcio brasiliano del “segundo volante”, che organizza il gioco da davanti alla difesa con accanto un compagno votato al contenimento. 

Quando sulla panchina della Roma arriva Eusebio Di Francesco, Gerson trova la fiducia del tecnico ma perde il ruolo. Da mezzala nel 4-3-3 dell’abruzzese il brasiliano è un po’ un pesce fuor d’acqua, non avendo di certo il passo del centrocampista che deve accompagnare l’attacco ma anche portare acqua in difesa. E dire che ci sono giornate in cui il classe 1997 dimostra che la classe non gli manca, come la partita contro la Fiorentina del novembre 2017, in cui, schierato nel tridente offensivo, segna due reti in un frizzante primo tempo per le scommesse calcio.

Gerson contro la Juve!

Ma non gli basta per la conferma da titolare, nonostante con Di Francesco trovi parecchio più spazio che con Spalletti. Al termine della stagione 2017/18 viene ceduto in prestito proprio alla Fiorentina, ma anche Pioli lo schiera come mezzala del 4-3-3. E pur giocando praticamente sempre (40 presenze tra campionato e coppe), la Viola decide di non provare neanche a riscattarlo.

Nell’estate 2019 punta su di lui il Flamengo, che versa alla Roma quasi 12 milioni di euro. L’aria di casa fa decisamente bene a Gerson, così come la presenza di Jorge Jesus sulla panchina rossonera. Il portoghese ci mette un po’ a trovargli una collocazione tattica, ma nel momento in cui lo piazza nei due di centrocampo del suo 4-2-3-1, con accanto un mediano puro come Arão, trova la formula magica.

E Gerson, da incompreso in Serie A, realizza una trasformazione sorprendente, diventando uno dei segreti del Mengão che in capo a pochi giorni si aggiudica il Brasileirão e la Copa Libertadores, nella rocambolesca, anche per le scommesse, finalissima contro il River Plate, decisa dall’altro oggetto misterioso (almeno nel campionato italiano) Gabigol. Una volta risolto l’equivoco tattico che lo attanagliava, Gerson ha ritrovato le caratteristiche che avevano convinto Sabatini a puntare su di lui: il sinistro vellutato e la capacità di vedere passaggi che agli altri sfuggono.

Futuro in Europa?

E ora? Cosa gli riserva il futuro? Il Brasile lo ha rigenerato al punto tale che sembra anche controproducente pensare a un ritorno in Europa, ma negli ultimi mesi le prestazioni di Gerson hanno attirato di nuovo gli sguardi di alcune big del Vecchio Continente. Più di qualcuno in Inghilterra gli ha messo gli occhi addosso: il Chelsea di Lampard, anche forse in previsione di un addio di Jorginho, e il Tottenham di Mourinho, alla ricerca di un centrocampista che dia un po’ di fosforo a una mediana certamente fisicamente prestante, ma che senza più l’estro di Eriksen ha perso in fantasia e geometrie.

Le voci che arrivano dal Brasile, però, suggeriscono che l’ex romanista non sia poi così intenzionato a lasciare di nuovo la madrepatria. Se dovesse farlo, una cosa è certa: meglio mettere subito in chiaro quali sono le caratteristiche del calciatore e il modo migliore per farlo rendere a pieno. Altrimenti il rischio di un’altra…incomprensione è alto.

*Le immagini dell'articolo, entrambe distribuite da AP Photo, sono di Leo Correa e Michael Dwyer.

July 1, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Simeone come Herrera: se non lui, chi altro?

Se le vittorie dei tecnici europei in Sudamerica si possono contare quasi sulle dita di una mano, quelle degli allenatori sudamericani occupano uno spazio ben maggiore nella storia dei club europei. Il primo americano a conquistare un successo fu Conrad Ross, nel 1934, in Francia con il Sochaux. Nato in Uruguay, fu il primo calciatore straniero a essere ingaggiato nel campionato brasiliano dalla Portuguesa.

Dopo un breve periodo nella Juventude, si trasferì in Francia nel Club Français dove - leggenda racconta - abbia giocato per qualche mese con Helenio Herrera, altro personaggio del quale parleremo più avanti.

Prima di conoscere l’allenatore della grande Inter, il percorso temporale ci impone di raccontare la storia di Luis Carniglia, calciatore argentino di buon livello che cercò fortuna anche in Europa. Iniziò ad allenare il Nizza, medesimo club con il quale aveva concluso la propria carriera da giocatore. E vinse il titolo al primo colpo - nel 1957 - tanto da attirare l’attenzione del Real Madrid.

Nella capitale spagnola resta soltanto due anni, il tempo di conquistare una Liga e due Coppe dei Campioni; ciò non basta per placare l’ira del presidente Santiago Bernabeu che lo allontana dal club castigliano per aver lasciato in panchina Ferenc Puskas nella finale del 1959 contro i francesi dello Stade Reims. Approda in Italia, e vince una coppa delle Fiere con la Roma, ma non è la stessa cosa.

Quando - nel 1964 - arriva a Milano sulla panchina dei rossoneri, dall’altra parte c’è Helenio Herrera che ha appena conquistato la prima Coppa dei Campioni della storia dell’Inter; l’avvento dell’allenatore argentino rappresenta uno spartiacque per il ruolo di allenatore, c’è un prima, e un dopo: da quando c’è Herrera, la figura del tecnico diventerà primaria all’interno di un club.

Herrera è maniacale nella preparazione atletica, conosce alla perfezione pregi e difetti degli avversari, sa motivare i suoi uomini come pochi. “Classe+Preparazione, Atletica+Intelligenza=Scudetto”. I cartelli, appesi nello spogliatoio della squadra ebbero un loro effetto. Il doppio successo consecutivo in Coppa dei Campioni nel 1964 e nel 1965 hanno regalato imperitura gloria a un personaggio singolare, che aveva già incantato la Spagna vincendo per due volte la Lega con l’Atletico Madrid e altrettante con il Barcellona, aggiungendo alla bacheca catalana anche due Coppa del Re.

Nello stesso periodo, sulla panchina della Juventus arriva il paraguaiano Heriberto Herrera, subito etichettato come “Habla Habla” stravagante soprannome per gettare discredito sull’allenatore sudamericano rispetto a Helenio Herrera, identificato con la sigla vincente HH. La Juventus di quelle stagioni fu una squadra operaia, il tecnico - inviso alla piazza per aver avallato la cessione di Omar Sivori - riuscì in ogni modo a conquistare uno scudetto e una coppa Italia.

Dall'El Ingeniero al Cholo

Negli anni più recenti, un altro allenatore sudamericano ha scritto gloriose pagine di storia del calcio europeo: Manuel Pellegrini. Spende la propria carriera da calciatore come arcigno difensore dell’Universidad de Chile, e due anni dopo (1988) inizia con lo stesso club la sua avventura come tecnico. Il tecnico cileno - dopo aver vinto diversi titoli in Sudamerica, tra i quali spiccano quello con il San Lorenzo e il successivo con il River Plate - approda in Europa.

Nella Liga spagnola esalta le qualità del Villarreal e richiama l’attenzione del Real Madrid dove - tuttavia - non riesce a portare a casa alcun titolo. Vive l’apice della propria carriera al Manchester City dove in tre stagioni vince una Premier League (2014) da favorito per le scommesse calcio e due Coppe di Lega. Il cammino nelle coppe Europee invece non è esaltante, così i proprietari del City ingaggiano Pep Guardiola lasciando andare l’allenatore cileno.

Vincere in Europa non è affatto semplice, nel corso degli ultimi decenni gran parte dei tecnici sudamericani hanno speso parte delle loro carriere nel Vecchio Continente, senza raggiungere traguardi sportivi significativi: da Marcelo Bielsa a Felipe Scolari, da Vanderlei Luxemburgo al Real a Carlos Bianchi, hanno fallito tutti la loro missione.

Vanderlei Luxemburgo in Spagna!

A questo punto, l’Helenio Herrera del ventunesimo secolo non può che essere Diego Pablo Simeone; scovato da Romeo Anconetani nella cantera del Velez e acquistato dal Pisa per un miliardo e mezzo di vecchie lire. Il centrocampista sa farsi valere: va in Spagna e trionfa con l’Atletico Madrid, torna in Italia, gioca nell’Inter, vince nella Lazio. Poi torna in Argentina per chiudere la carriera da giocatore, iniziandone una altrettanto gloriosa da allenatore. Vince due titoli con l’Estudiantes e River Plate, fa la gavetta al Catania, torna in patria quando a chiamarlo è la squadra del cuore: il Racing.

Ma il richiamo dell’Europa è forte, e quando lo contatta l’Atletico Madrid, non esita a fare nuovamente la valigia. Sulla panchina dei colchoneros - dal 2012 - ha vinto una coppa de Re, una Supercoppa di Spagna, una straordinaria Liga nel 2014, due Europa League e due Supercoppe Europee. 

*Le immagini dell'articolo, entrambe distribuite da AP Photo, sono di Jon Super e Bernat Armangue.

June 29, 2020
simone pieretti
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Giornalista, scrittore, innamorato di futbol. Scrive per trasmettere emozioni e alimentare sogni. Il calcio è una scienza imperfetta: è arte, è musica, è poesia. E' un viaggio nel tempo che ci fa tornare bambini ogni qual volta diamo un calcio a un pallone.

 

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Guida completa ai playoff di Serie C


Pronta a partire l'appendice di torneo che sceglierà la quarta squadra che disputerà la prossima B dopo i successi in regular season di Monza, Vicenza e Reggina. Tante le rinunce per via dei costi eccessivi, post sospensione. Curioso il caso del Siena che, proprio per i forfait di Arezzo e Pontedera, passa direttamente dal primo al terzo turno (fase nazionale).

Dopo la promozione automatica in Serie B delle "big" Monza, Vicenza e Reggina, al primo posto delle rispettive graduatorie di Serie C al momento dell'interruzione dei campionati, resta da stabilire la quarta squadra che disputerà il prossimo campionato cadetto. In un primo tempo si era prospettato di individuarla senza playoff attraverso il famoso algoritmo, che avrebbe premiato il Carpi, terzo nella classifica del girone B con 56 punti conquistati su 26 realizzati.

In realtà, la media punti per partita si è poi utilizzata solo per definire le posizioni di graduatoria definitive di una regular season chiusa in anticipo: i playoff si disputeranno regolarmente. Anche se, va detto, con tante limitazioni. E con la vittoria della Coppa Italia di categoria da parte della Juventus Under 23 - primo trofeo alzato al cielo dalla formazione "B" bianconera - è stato ufficialmente completato il tabellone degli accoppiamenti che definiranno i destini delle squadre piazzatesi dal 2° al 10° posto dei rispettivi tornei.

Il format rompicapo

Non semplicissimo raccapezzarsi, viste le numerosi fasi e le rinunce che hanno interessato diverse società aventi diritto che, con tantissimi giocatori in scadenza di contratto al 30 giugno 2020, non se la sono sentita di prolungare la stagione. Agli spareggi promozione non parteciperanno, infatti, Arezzo, Modena, Piacenza e Pontedera, oltre alle due undicesime classificate, Vibonese e Pro Patria.

Proprio i tigrotti di Busto Arsizio, acquisito il diritto dopo la vittoria della Juve Under 23 (al 10° posto nel girone A) della competizione coccardata ai danni della Ternana, aveva superato nella classifica post-algoritmo la Pistoiese che, invece, avrebbe preso parte volentieri agli stessi playoff. Ricordiamo per gli attenti appassionati del blog e dei nostri social che, secondo le norme federali redatte dalla nostra Federazione, la seconda squadra bianconera può essere promossa in Serie B!

Le squadre accoppiate a quelle che hanno comunicato la rinuncia, passano automaticamente al turno successivo. Curioso il caso, in questo senso del Siena, che essendo abbinato prima all'Arezzo e poi al Pontedera, si ritroverà alle fase nazionali senza disputare nemmeno una partita...

Prima di scoprire gli accoppiamenti, subito una specifica: in casa gioca sempre la migliore classificata. In caso di parità, non sono previsti ritorno o tempi supplementari e rigori: al termine dei 90' si qualifica la migliore piazzata nella stagione "regolare". Nelle semifinali e nella finale, invece, in caso di parità, sono previsti tempi supplementari e rigori. Tutte le gare si disputeranno, ovviamente, a porte chiuse.

Si partirà con tre partite per ciascuno dei tre gironi; dopo il primo turno, con i passaggi per bye che abbiamo sopra descritto, entreranno in competizione le squadre classificatesi al quarto e al quinto posto della regular season di ciascun raggruppamento.

Il terzo incrocio, denominato "primo turno della fase nazionale" è previsto  giovedì 9 luglio, con l'esordio delle terze classificate nei rispettivi raggruppamenti, quindi Renate, Carpi, Monopoli e la Juventus B, vincitrice di coppa. 

Le cinque squadre che si qualificheranno per il secondo turno della fase nazionale, troveranno ad attenderle Bari, favorita per le scommesse calcio, Carrarese e Raggiana.

Le ultime quattro compagini in gioco si sfideranno, in gara unica, nelle due semifinali, con l'introduzione, come per la successiva finale, di eventuali tempi supplementari e calci di rigore, rispettivamente, venerdì 17 e, per l'atto conclusivo mercoledì 22 luglio.

L'esperienza del tridente offensivo dei biancorossi del Patron De Laurentiis rappresenterà un valore aggiunto in queste gare secche, nelle quali potrebbe bastare una giocata di Antenucci, Laribi o Simeri per proseguire la corsa promozione!

*L'immagine di apertura dell'articolo è di Antonio Calanni (AP Photo).

June 28, 2020
Stefano Fonsato
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Stefano collabora da anni come giornalista freelance per il portale web di Eurosport Italia, per il quotidiano La Stampa e con la casa editrice NuiNui per la quale è stato coautore dei libri "I 100 momenti magici del calcio" e "I 100 momenti magici delle Olimpiadi".

E' amante delle storie, dei reportage e del giornalismo documentaristico, ma il suo "pallino" resta, su tutti, il calcio d'Oltremanica.

 

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CR7 sul tetto dei salari e del marketing

Le contingenti difficoltà economico-finanziarie pongono, tra gli addetti ai lavori, una serie di quesiti, soprattutto in vista della nuova stagione sportiva. Da qui l’idea di analizzare anche per gli utenti del nostro profilo Twitter i 20 “salari” più onerosi per i club di Serie A. 

Al vertice di questa speciale classifica c’è (assolutamente non a sorpresa) Cristiano Ronaldo, pagato dalla Juventus 31 milioni di euro a stagione (l’intera operazione, al termine del periodo contrattuale, costerà alla squadra piemontese più di 360 milioni di euro lordi). Al secondo, ma molto più indietro c’è l’olandese Matthijs De Ligt (ex Ajax nella scorsa stagione). Incassa, sempre dalla Juve, 8 milioni di euro annui ed è una cifra record, per il mercato italiano, in considerazione del suo ruolo.

 

Sul gradino più basso troviamo 4 calciatori tutti a 7,5 milioni annui: l’interista belga Romelu Lukaku, il bianconero argentino Gonzalo Higuaìn, il nerazzurro danese Christian Eriksen e il giallorosso bosniaco Edin Dzeko. In settima posizione Paulo Dybala (Juve/7.3 milioni), in ottava, in coabitazione, altri due bianconeri: il francese Adrien Rabiot e il talento gallese Aaron Ramsey (entrambi a 7 milioni).

Ultima posizione della “Top10” della massima serie tricolore per il bosniaco Miralem Pjanic (sempre Juventus) fermo a 6.5 milioni di euro. In 11ima posizione altri 4 calciatori tutti a 6 milioni a stagione: il brasiliano Douglas Costa e il tedesco Sami Khedira per la Juve, il portiere Gianluigi Donnarumma per il Milan e il senegalese Kalidou Koulibaly per il Napoli Calcio.

In 15ima posizione un altro difensore di grande esperienza: Leonardo Bonucci (Juve) a 5.5 milioni. L’uruguaiano Diego Godin (FC Inter), il nazionale brasiliano Alex Sandro (Juve) e l’attaccante cileno Alexis Sanchez (sempre con la maglia nerazzurra), invece, sono insieme sul gradino n.16, con uno stipendio di ben 5 milioni su base annua. Ultime due posizioni (19ima e 20ima) per due giocatori del Napoli: Lorenzo Insigne (4.6 milioni) e l’attaccante messicano Hirving Lozano (4.5 milioni), ex PSV. Quest’ultimo gestisce l’ultima posizione in classifica con il centrocampista nerazzurro, di passaporto nigeriano (in prestito dal Chelsea FC), Victor Moses (sempre a 4.5 milioni di euro annui). 

“Miracolo” Lazio-Atalanta

In sintesi, sono ben 11 i calciatori della “rosa” della Juventus ad apparire nella Top20 dei salari della Serie A. Non a caso, con 137 milioni di euro “netti”, è la squadra più cara della massima divisione tricolore.

I due giocatori più pagati della A!

Subito dietro, a sorpresa è l’AS Roma con 90 milioni, ma con solo un giocatore presente in classifica (il centravanti Edin Dzeko). Al terzo posto l’FC Inter con 66 milioni di euro netti e 5 calciatori di grande respiro internazionale (Eriksen, R. Lukaku, Moses, Godin e Sanchez). Il Napoli è quarto con 55 milioni e 3 players (Koulibaly, Insigne e Lozano). Il Milan quinto ha in Donnarumma la “stella”, che pesa, però, sul monte-salari complessivo: 51,1 milioni di euro. 

Fa riflettere poi la bella stagione della S.S. Lazio di Claudio Lotito (6° nel ranking salari a 40 milioni) e dell’Atalanta (16ima a 14,5 milioni), la squadra più divertente ed imprevedibile per le scommesse live, rispettivamente seconda e quarta forza del campionato (in piena lotta per la Champions) e senza top player (per costo-salario) nel ranking appena descritto. Merito di un’attenta scelta dei calciatori, in fase di calciomercato, e della capacità dei rispettivi allenatori (Simone Inzaghi per la Lazio e Gian Piero Gasperini per l’Atalanta). 

CR7 gigante su social e adv

Discorso a parte merita il confronto salario-pubblicità a livello personale. Ad eccezione di poche presenze come Pjanic per Fisiocrem o Donnarumma per Nintendo Switch, o ancora di Insigne per Trivago (insieme al “collega” Mertens), la maggior parte delle pubblicità cui assistiamo fa parte degli accordi tra club e calciatori (relativamente ai loro diritti di immagine ceduti alle società di appartenenza) e nella stragrande maggioranza dei casi rientrano in immagini “collettive” (ovvero a rotazione assieme ad altri compagni).

Fuori quota è, ancora una volta, CR7: 85,8 milioni di follower su Twitter, 226 milioni su Instagram e più di 126 milioni di fans su Facebook. E’ una industria a livello marketing e questa tesi è confermata dall’attuale foto sul profilo FB: il suo volto di profilo con lo “swoosh” di Nike che passa in mezzo.

Basta scorrere la sua pagina e ci si imbatte in molti dei partner personali: Herbalife, Sixpad Uk, Clear, Yamamay (intimo uomo) e Dazn. Per un totale (per il momento) di 13 aziende-sponsor abbinate all’immagine di calciatore lusitano (per periodi contrattuali molto lunghi, come nel caso di Nike, o anche per operazioni “one shot”, come sta avvenendo sugli schermi tv italiani con l’università eCampus). 

Solo considerano il rapporto fans/follower tra CR7 e club c’è una sproporzione impressionante: in totale, su Facebook, Twitter e Instagram, i campioni d’Italia, sempre favoriti per il nono scudetto consecutivo per le scommesse calcio intercettano più di 90 milioni di tifosi-simpatizzanti, Cristiano Ronaldo oltre 453 milioni di utenti. Il Real Madrid, il club di calcio più social addicted (da cui proveniva la stella portoghese) non supera 239,4 milioni di persone.

Fa riflettere e molto: Cristiano Ronaldo è talmente forte da “cannibalizzare” i club con cui ha giocato o sta giocando. Una criticità che, nel futuro, avranno molti top player non loro rapporto con le squadre di appartenenza. 


*Il testo dell'articolo è stato curato da Marcel Vulpis, direttore di SportEconomy; l'immagine di apertura è di Sang Tan, la seconda di Antonio Calanni, entrambe distribuite da AP Photo.

June 28, 2020
888sport
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The 888sport blog, based at 888 Towers in the heart of London, employs an army of betting and tipping experts for your daily punting pleasure, as well as an irreverent, and occasionally opinionated, look at the absolute madness that is the world of sport.

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Oltre un miliardo il valore dei giocatori della Championship!


Anche la Championship inglese, la Serie B d'Oltremanica è ripartita. Chiamarli cadetteria, tuttavia, è alquanto riduttivo dal momento che il giro economico a queste latitudini calcistiche si è gonfiato a dismisura nell'ultima decade. Non stupisca, allora, il fatto che si tratti di uno dei dieci tornei coi maggiori investimenti finanziari (stabile al settimo posto) di tutto il mondo: una seconda serie tra i campionati più ricchi, ebbene sì.

Il valore dei giocatori arriva a toccare quota 1,13 miliardi. La nostra Serie B, per fare un confronto, si ferma a 309 milioni di euro: il solo Fulham, con 113 milioni, vale più di un terzo di tutto il "nostro" movimento cadetto. E questo grazie, come sempre, agli introiti televisivi, che non solo hanno reso decisamente più sostanziosi i dividendi, ma hanno anche fatto conoscere il calcio inglese nelle zone più lontane del mondo rispetto a Greenwich,  tipo il sudest asiatico da cui oggi provengono numerosissimi investitori.

La stagione 2020 vede nella Championship League il duello testa a testa tra West Bromwich e Leeds United, appaiate nelle prime due posizioni, quelle che garantiscono l'accesso diretto alla Premier League.

Tornando al discorso investimenti, Marcelo Bielsa sarà pur "Loco", ma non avrebbe mai scelto (e pure di buon grado) una panchina di seconda divisione, seppur prestigiosa come quella del Leeds United, se non a fronte di ingenti investimenti finanziari: l'ex tecnico del Lilla, dopo il primo tentativo fallito ai playoff con i The Whites della scorsa stagione contro il Derby County di Frank Lampard (oggi tecnico del Chelsea), spera di potersi rifare senza passare dalla difficilissima lotteria degli spareggi.

Il Leeds in azione!

Dal terzo al sesto posto, si stanno dando battaglia Fulham, Brentford (autentica sorpresa della stagione, in cui milita peraltro l'ex centrocampista della Fiorentina Christian Nørgaard), Nottingham Forest più Preston North End e Cardiff City. La bagarre per la sesta piazza coinvolge però anche Blackburn Rovers, Swansea, Bristol City, Millwall e Derby County, tutte quante racchiuse in pochissimi punti.

Ricordiamo come già documentato ampiamente su questo blog che la finale dei playoff della Championship è la partita che distribuisce più denaro nel calcio moderno, più di una finale di Champions, con quasi 200 milioni di euro garantiti ai vincitori dalla partecipazione alla prossima Premier ed al valore del c.d. paracadute nel caso di retrocessione nel 2021!

Le stelle del torneo

A proposito dei Rams, non è stato evidentemente sufficiente l'ingaggio dell'ex Manchester United Wayne Rooney (a cui è stata promessa la panchina futura, attualmente occupata dall'olandese Phillip Cocu del team campione d'Inghilterra col mitico Brian Clough).

La sua però non è l'unica stella a brillare nel campionato di Championship: troviamo anche quella del giocatore con l'ingaggio più alto, l'esterno offensivo ghanese André Ayew dello Swansea (70mila sterline settimanali per il figlio dell'ex Toro Abedi Pelé e nipote dell'ex Lecce Kwame Ayew) o quella del giocatore dal cartellino più oneroso (oltre 20 milioni di euro), il bomber serbo del Fulham, Aleksandar Mitrovic, peraltro probabile capocannoniere del torneo per le scommesse calcio.

Gli addetti ai lavori tengano d'occhio il giovanissimo centrocampista metodista del Birmingham City Jude Bellingham, prodotto del vivaio classe 2003, il più giovane realizzatore di questa Championship col primo dei suoi quattro gol giunto a 16 anni e 62 giorni, nella sfida dello scorso 31 agosto allo Stoke City. Per lui il mercato si è già infiammato: lo vogliono Borussia Dortmund, Bayern Monaco e Manchester United con un'asta che, partita da 11 milioni come segnalato dal sito specializzato transfermarkt ha già superato i 35 milioni di euro.

*Le immagini dell'articolo, entrambe distribuite da AP Photo, sono di Rick Rycroft e Scott Heppell.

June 26, 2020
Stefano Fonsato
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Stefano collabora da anni come giornalista freelance per il portale web di Eurosport Italia, per il quotidiano La Stampa e con la casa editrice NuiNui per la quale è stato coautore dei libri "I 100 momenti magici del calcio" e "I 100 momenti magici delle Olimpiadi".

E' amante delle storie, dei reportage e del giornalismo documentaristico, ma il suo "pallino" resta, su tutti, il calcio d'Oltremanica.

 

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