Olympique Marseille e Bernard Tapie: un binomio mai banale!

Völler, Papin, Deschamps,  Bokšić, Desailly, Boghossian, Angloma, Abedi Pelé, Martin Vazquez, Dobrovol’skij, Stojković, Cauet, Francescoli. E poi ancora Tigana, Cantona, Barthez, Waddle, con in panchina Beckenbauer e Goethals. No, non è né un elenco di grandi campioni passati per la Serie A, né una lista di giocatori e tecnici importanti mai approdati nel nostro campionato.

Molto più semplicemente, sono le tante stelle che tra il 1986 e il 1994 hanno scritto la storia della Ligue 1 e del calcio europeo. Con due minimi comuni denominatori: l’Olympique Marseille e soprattutto Bernard Tapie, il presidente più controverso di sempre del calcio francese. Un dirigente capace di portare un club antico ma mai troppo vincente a diventare la prima e finora unica squadra francese a vincere la Champions League.

Uomo d’affari, politico, attore, cantante e presentatore TV. Difficile trovare una carriera che sia sfuggita a Tapie, specializzato nel salvataggio di aziende in difficoltà. Nel 1990 il transalpino acquista addirittura l’Adidas, per poi rischiare di finire in bancarotta nel 1994. Ma l'imprenditore parigino è già famosissimo nel mondo dello sport anche prima di diventare il proprietario del marchio con le tre strisce.

Nel 1983 Tapie fonda, infatti, la La Vie Claire, squadra di ciclismo che diventa subito celebre grazie alle vittorie di Hinault e LeMond. Nel 1986 il francese fa il grande passo e decide di acquistare il Marsiglia, da poco tornato nella massima serie. Quando Tapie diventa il numero uno al Velodrome, il club ha in bacheca cinque titoli di campione di Francia. Entro il 1994 ne conquisterà altrettanti, anche se uno verrà revocato… 

L’obiettivo della nuova società è abbastanza chiaro: vincere la Coppa dei Campioni.  Ma le prime stagioni non sono poi così positive per la squadra marsigliese. Non appena diventa presidente, Tapie rinforza la rosa con il difensore tedesco Förster, con la leggenda del calcio francese Giresse, ma soprattutto con Jean-Pierre Papin, che sarà protagonista assoluto negli anni a venire. In panchina c’è Michel Hidalgo, l’ex CT della Francia campione d’Europa nel 1984.

I grandi nomi però non portano il successo sperato: il Marsiglia arriva solo dodicesimo. Hidalgo lascia la panchina per diventare direttore sportivo. Al suo posto arriva Gérard Banide, con Abedi Pelè in attacco con Papin, ma la musica non cambia granché: sesto posto, accompagnato da una semifinale di Coppa delle Coppe. Per i primi successi bisogna attendere la stagione 1988/89. In panchina c’è Gérard Gili e il mercato è principesco: Di Meco, Sauzée, Cantona e Vercruysse.  Quanto basta per aggiudicarsi il campionato e la Coppa di Francia.

È la prima di quattro affermazioni consecutive per il Marsiglia, che in campionato è troppo forte per le avversarie, ma trova pane per i suoi denti in Europa. La stagione 1989/90, vede l’arrivo di Francescoli e di Waddle. L’attaccante del Tottenham è un pupillo del presidente Tapie, che si innamora delle movenze dell’inglese. La Ligue 1 non sfugge agli uomini di Gili, ma in Coppa dei Campioni arriva il primo boccone amaro. I transalpini perdono in semifinale contro il Benfica, che si qualifica, da outsider per le scommesse, alla finale di Vienna contro il Milan grazie ai gol in trasferta. 

L'annata del caos

Dovendo trovare una definizione alla stagione successiva, la definizione migliore è “l’annata del caos”. Al Velodrome si alternano tre tecnici e tra campo e società succede davvero di tutto. Il Marsiglia esce dall’estate di Italia ’90 con in più Dragan Stojković, talento della Jugoslavia. Ma soprattutto, a settembre Tapie sostituisce Gili con il CT campione del mondo Franz Beckenbauer, salvo poi essere costretto a chiamare il belga Goethals dopo appena tre mesi perché il Kaiser decide di andarsene per incompatibilità con il presidente.

Anche in questo caso la Ligue 1 viene messa in bacheca, mentre la Coppa dei Campioni sfugge di un niente. Ai quarti di finale il Marsiglia incontra il Milan di Sacchi e pareggia 1-1 a San Siro. Al ritorno, al minuto 87 e con i francesi avanti di un gol, i riflettori del Velodrome si spengono e il Milan decide di non tornare in campo. La UEFA assegna il 3-0 a tavolino ai transalpini, che il 29 maggio a Bari affrontano la Stella Rossa nella finalissima. Il match termina ai calci di rigore e a causa dell’errore di Amoros, Stojković è costretto a vedere i suoi ex compagni di squadra sollevare il trofeo…

Incredibile ma vero, l’anno dopo il Marsiglia, tra le favorite alla vittoria finale per le scommesse calcio arriva appena agli ottavi di finale in Coppa dei Campioni. L’eliminazione contro lo Sparta Praga costa il posto a Tomislav Ivić, che aveva sostituito Goethals nonostante gli ottimi risultati della stagione precedente. A prendere il posto del croato, però, è proprio il belga, che porta a casa il quarto titolo consecutivo e non può tentare di vincere anche la Coppa di Francia solo perché il titolo non viene assegnato dopo il crollo della tribuna nella semifinale tra Marsiglia e Bastia.

La Coppa e l'affair VA-OM

Il 1992/93 non inizia dunque sotto i migliori auspici, ma sarà la stagione della consacrazione. Papin va al Milan e Waddle torna in Inghilterra, ma arrivano Barthez, Desailly, Boksic e Völler. In panchina non c’è Goethals, ma anche stavolta il belga torna a guidare la squadra a stagione in corso, sostituendo Fernandez.

Il titolo francese è quasi una formalità, ma stavolta anche l’Europa sorride a Tapie e ai suoi. La prima edizione della Champions League viene infatti vinta proprio dal Marsiglia, che nella finalissima di Monaco di Baviera batte per 1-0 il Milan di Capello con rete di Boli. È il culmine di una dinastia, ma anche l’inizio della fine. Pochi mesi più tardi, l’OM diventa la prima squadra detentrice a non prendere parte alla Champions League successiva. 

Tapie con la Coppa

Scoppia infatti il celebre “Affair VA-OM”. Pochi giorni prima della finale contro il Milan, alcuni giocatori del Valenciennes rivelano l'esistenza di un tentativo di corruzione. La squadra dell’Alta Francia avrebbe dovuto far “riposare” il Marsiglia, lasciandosi battere senza opporre troppa resistenza per non far arrivare troppo stanchi i transalpini al match con i rossoneri.

La partita il Marsiglia la vince con gol di Boksic, per poi trionfare in Germania, ma il double costa caro al club. Quando vengono ritrovati 250mila franchi nel giardino di un giocatore del Valenciennes, la federazione francese revoca il titolo 1992/93 al Marsiglia, che viene escluso preventivamente anche dalla Champions League successiva, dalla Supercoppa Europea e dall’Intercontinentale.

Il verdetto definitivo arriva nel febbraio 1994: club retrocesso in Division 2 e Tapie squalificato a tempo indeterminato. Ma nel frattempo il presidente ha anche altro a cui pensare. Viene condannato al carcere per corruzione, deve vendere l’Adidas, iniziando una battaglia legale decennale con la Crédit Lyonnais e nel 1995 lascia anche il club.

Tornerà poi al Velodrome come direttore sportivo a inizio terzo millennio. Ma se si parla del “Marsiglia di Tapie”, il pensiero va agli anni tra il 1986 e il 1994: stagioni irripetibili, nel bene…e nel male.

*Le due immagini dell'articolo, entrambe distribuite da AP Photo, sono di Claude Paris e Luca Bruno.

June 11, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Quarant’anni fa gli Europei in Italia


Quattro città, otto squadre, e un lutto da metabolizzare. A meno di tre mesi dall’esplosione del calcio scommesse, l’Italia si ritrovò a ospitare il primo Europeo. Era l’Estate del 1980, la Nazionale - essendo paese ospitante - si era qualificata di diritto alla fase finale dell’Europeo che per la prima volta vedeva la partecipazione di otto squadre. Gli uomini di Bearzot portavano in dote quel quarto posto conquistato al mondiale argentino che sapeva di buono.

Ma le cose erano cambiate repentinamente, il calcio era caduto in un abisso, aveva scoperto le debolezze dei suoi interpreti; pagarono in pochi, pagarono solo quelli che non avevano alle spalle presidenti in grado di comprare il silenzio dei due grandi accusatori.
L’evento fu accolto dagli sportivi italiani con scarso entusiasmo, la cicatrice del calcio scommesse era ben evidente, la diretta tv tolse al botteghino buona parte degli spettatori.

L'esordio ed il format

Quando si apre il sipario sull’Europeo, in campo ci sono le stesse squadre che quattro anni prima si sono contese il titolo; da una parte la Cecoslovacchia, campione d’Europa in carica, dall’altra la Germania Ovest che si presentava con rinnovate ambizioni.

La Cecoslovacchia conferma nella lista dei convocati diversi protagonisti del successo ottenuto 4 anni prima; ci sono Panenka, Nehoda e Gögh, la squadra è solida, ma non effervescente. Anche la Germania attraversa una fase di rinnovamento generazionale, ma presenta al centro dell’attacco Karl-Heinz Rummenigge, la stella internazionale del momento.

L’intelaiatura della squadra è rappresentata dal portiere Schumacher, dal terzino Briegel, dallo stopper Karl Heinz Förster, dal veterano Bonhof, da Hansi Müller, e dagli attaccanti Allofs e Hrubesch. Nella lista dei convocati ci sono anche Lothar Matthäus e Bernd Schuster: sono giovani, ma cresceranno.

Nello stesso raggruppamento ci sono anche Olanda e Grecia; gli Orange - dopo i fasti degli anni ’70 - vivono un periodo di restaurazione: Ruud Krol, Arie Haan e Johnny Rep - insieme ai gemelli Renè e Willy Van de Kerkhof - sono i reduci del mondiale argentino, perso in finale contro i padroni di casa.

La sfida d’esordio non regala emozioni: l’unico sussulto è rappresentato dal gol di Rummenigge che decide la partita a vantaggio dei tedeschi. La cerimonia d’apertura era stata scarna, la mascotte - un Pinocchio con il cappellino di carta e il naso tricolore - aveva animato il prologo di un evento che scivolerà via senza particolari entusiasmi.

Si gioca a Roma, Milano, Torino e Napoli, per un totale di 26 partite; 12 per ogni girone, più le due finali che assegnano i piazzamenti dal primo al quarto posto.

Il girone dell'Italia

L’Italia - collocata nell’altro girone con Spagna, Inghilterra e Belgio; gli iberici hanno affidato la guida tecnica all’ungherese Kubala: avrebbe a disposizione un buon organico con Arconada, Alexanco, Gordillo, Juanito e Santillana, ma alla resa dei conti, la squadra non gira.

L’Inghilterra è la solita Inghilterra: parte sempre con i favori del pronostico delle scommesse, ma alla fine vincono gli altri. La stella Kevin Keegan brilla di luce propria, Phil Neal, Ray Wilkins e Terry McDermott sono buoni interpreti, Glenn Hoddle è ancora un talento acerbo. La selezione fiamminga è una squadra equilibrata; difesa solida buon centrocampo e attacco pungente: il portiere Jean-Marie Pfaff ha atteggiamenti clauneschi ma sa essere efficace, la difesa è compatta, il centrocampo è raffinato, l’attacco si poggia sulle spalle di Ceulemans.

La Nazionale Italiana all’esordio ottiene un magro pareggio senza gol contro i modesti spagnoli. Per esultare è necessario attendere la seconda sfida del girone contro gli inglesi, risolta da un gol di Tardelli. Al Comunale di Torino ci sono 60 mila spettatori: sarà la partita con il maggior numero di presenze sugli spalti di tutto il torneo.

Gli entusiasmi vengono sopiti nell’ultima partita del girone; nelle prime due sfide, gli Azzurri hanno realizzato soltanto una rete, senza subirne alcuna: l’assenza di Rossi e Giordano per squalifica ha depotenziato la squadra di Bearzot che paga la scarsa efficienza sotto porta. Il Belgio - appaiato in classifica - ha anche la stessa differenza reti degli italiani: tre gol segnati e due subiti.

Ma il maggior numero di reti segnate, marca una differenza enorme dando ai nostri avversari la possibilità di giocare per due risultati su tre. L’Italia - per accedere alla finalissima - ha un’unica possibilità: vincere.

Nel Girone B - intanto - la Germania ha conquistato l’accesso alla finale, vincendo anche la seconda partita contro l’Olanda grazie a una tripletta di Allofs. Nell’ultima partita del raggruppamento, i tedeschi si permettono il lusso di lasciare un punto alla Grecia - fin lì sempre sconfitta - mentre il pareggio tra Cecoslovacchia e Olanda consolida il secondo posto dei cechi.

La gara decisiva

Il 18 giugno - all’Olimpico - l’Italia si gioca contro il Belgio l’accesso alla finale; solo 42 mila spettatori sugli spalti. Gli Azzurri giocano con il cuore, cadono ripetutamente nella trappola del fuorigioco, la mettono sul piano fisico, e soccombono; un paio di parate plateali dell’istrionico portiere Pfaff su Graziani e Causio salvano i belgi aprendo loro la strada per la finale.

L’Italia esce dal torneo da imbattuta, a testa alta. La squadra ha subito soltanto un gol in tre partite: Zoff, Gentile, Cabrini è una filastrocca che promette bene, le premesse - in vista dei Mondiali di Spagna - sono incoraggianti. Gli Azzurri a questo punto scendono in campo a Napoli contro la Cecoslovacchia per trovare un posto sul podio continentale. Un gran destro da venticinque metri di Jurkemink regala il vantaggio ai cechi, pareggia Graziani con un colpo di testa.

L'Italia in azione

Si va ai rigori; Causio, Altobelli, Beppe Baresi, Cabrini, Benetti: non sbaglia nessuno. L’ultimo rigore per i cechi lo calcia Antony Panenka, che nel 1976 ha deciso la finale degli Europei contro la Germania con uno scavetto beffardo ai danni di Seep Maier. Il gesto è stato eclatante e ha fatto il giro del mondo. Zoff lo sa, ma lo sa anche il ceco che cambia soluzione e infila la palla nell’angolo.

A questo punto si va a oltranza, e segnano ancora Graziani, Scirea e Tardelli. Ma anche i cechi sono infallibili. E si arriva al rigore numero 17; sul dischetto va Collovati, il portiere Netolicka si lancia verso la propria destra, intercetta il pallone che gli passa sotto al corpo e pian piano va verso la porta. Il portiere con un balzo riesce a recuperare la palla, ma soltanto dopo che la stessa ha oltrepassato la linea bianca.

Collovati alza timidamente le braccia, non è convinto che la palla sia entrata, ma soprattutto non conosce il complicato regolamento che stabilisce la conclusione dell’azione del rigore successiva alla parata del portiere nel momento in cui la palla rimbalza a terra. Ed effettivamente, tra la parata del portiere, e l’ingresso della palla in porta, la sfera è rimbalzata sul terreno di gioco.

 

La Cecoslovacchia resta così sul podio, l’Italia - com’era accaduto due anni prima in Argentina - alla delusione della mancata finalissima, aggiunge quella della sconfitta nella finale di consolazione. Il giorno successivo l’Europeo si chiude con la sfida tra Germania Ovest e Belgio per l’assegnazione del titolo, con i tedeschi favoriti per le scommesse calcio.

Il centravanti tedesco Hrubesch ruba la scena, e dopo aver segnato in avvio di partita, decide l’incontro a due minuti dal termine, dopo il momentaneo pareggio su rigore di Vandereycken. La Germania ride, l’Italia piange, ma è solo una questione di tempo: ci si rivede in Spagna, fra un paio di anni.

I festeggiamenti della Germania Ovest campione!
 

*Le immagini dell'articolo sono distribuite da AP Photo; la seconda e la terza sono state scattate da Carlo Fumagalli.

June 10, 2020
simone pieretti
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Giornalista, scrittore, innamorato di futbol. Scrive per trasmettere emozioni e alimentare sogni. Il calcio è una scienza imperfetta: è arte, è musica, è poesia. E' un viaggio nel tempo che ci fa tornare bambini ogni qual volta diamo un calcio a un pallone.

 

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L’eterna promessa del calcio inglese: la strana storia di Joe Cole

Prendete un giovane londinese che a 18 anni segna il suo primo gol in Premier League e avete già la nuova promessa del calcio inglese. Joe Cole è, con ogni probabilità, uno dei più grandi “What If” degli ultimi anni in Inghilterra. Nato a Londra nel 1981, il talentuoso trequartista si mette in mostra con la maglia del West Ham, esordendo in Premier all’età di 17 anni all’Old Trafford contro il Manchester United.

Il primo gol tra i professionisti è arrivato qualche mese dopo, appena maggiorenne, nel quarto turno di Coppa di Lega sul campo del Birmingham. Una rete tra l’altro pesantissima, trovata a un minuto dal termine per il definitivo 2-3 degli Hammers.

La stagione 1999/2000 è decisiva per Joe Cole, visto che il tecnico degli Hammers Harry Redknapp gli garantisce il posto da titolare ad appena diciotto anni per quasi tutta l’annata come esterno di destra nel 4-4-2 del West Ham. Dopo quattro stagioni da protagonista con la maglia degli Hammers, all’età di 22 anni il grande salto di qualità e il passaggio al nuovo Chelsea, presentato insieme ad un campione come Veron, di Roman Abramovich per circa 10 milioni di euro. 

Ad un passo dall'esplosione

Dopo la prima stagione d’ambientamento con sole tre reti messe a segno, l’arrivo di José Mourinho cambia radicalmente le prospettive di Joe Cole. Il tecnico portoghese crede molto nelle qualità del londinese, perfetto per la sua duttilità tattica nello scacchiere dello Special One. Trequartista o esterno, Joe Cole garantisce un alto rendimento specialmente nella seconda parte di stagione.

Dopo un infortunio che lo tiene ai box per circa due mesi, dall’inizio del 2005 l’ex West Ham trova la continuità e chiude la stagione con nove gol realizzati, sette dei quali da fine dicembre in poi. Sembra essere arrivato il suo momento, come dimostra anche la stagione 2005/06 quando per la prima volta Joe Cole supera i dieci gol stagionali.

Per gli amanti delle statistiche e delle scommesse con il Chelsea vince per la seconda volta la Premier League e vola in Germania per il Mondiale del 2006 come titolare inamovibile dell’Inghilterra di Sven Goran Eriksson.

Ala sinistra nel 4-4-2 del tecnico svedese, Joe Cole trova anche il primo gol, una rete straordinaria, ad un Mondiale nel pareggio per 2-2 contro la Svezia con cui gli inglesi blindano il primo posto nel gruppo B. La dolorosa eliminazione contro il Portogallo ai rigori spinge Eriksson a lasciare l’Inghilterra, ma sembra solo l’inizio per la carriera di Joe Cole in Nazionale. 

In una partita con la nazionale inglese!

I maledetti infortuni

In una squadra dall’enorme tasso tecnico come quel Chelsea, basta un minimo problema a cambiare le gerarchie. La stagione 2006/07 è il preludio alla seconda parte della carriera di Joe Cole. L’inglese infatti inizia l’annata con diversi problemi muscolari che lo portano a giocare solamente una gara da titolare in Premier nelle prime quattordici giornate.

Poi il crac, il primo grande infortunio che lo tiene ai box per oltre 4 mesi, prima del rientro in campo ad aprile per le ultime giornate di Premier.

Joe Cole però non molla e nella stagione 2007/08 torna ad essere protagonista e segna ancora una volta dieci gol in stagione, servendo anche otto assist ai compagni ed andando davvero ad un passo dal trionfo in Champions nella finale di Mosca, giocata da titolare, e contro i favori delle scommesse calcio , persa solo ai rigori con lo United.

La stagione 2008/09 segna, di fatto, la fine della carriera di Joe Cole. La rottura del crociato nel gennaio del 2009 lo tiene fuori dal campo per oltre 9 mesi, torna in campo la stagione successiva e dopo un’annata da due reti in Premier il Chelsea lo cede al Liverpool.

Nonostante la stagione negativa, Capello decide di convocarlo ugualmente per i Mondiali del 2010: in Sudafrica giocherà solamente 40 minuti ricoprendo un ruolo ben diverso all'interno della ros inglese rispetto a quello di quattro anni prima in Germania.

L’avventura col Liverpool inizia malissimo per i Reds, ma bene per Joe Cole che riesce a trovare spazio da titolare nei primi tre mesi anche se la squadra di Hodgson, colleziona solo dodici punti nelle prime dieci giornate. A novembre l’ennesimo infortunio che frena Joe Cole, un mese di stop per un problema muscolare prima di ulteriori problemi con il ginocchio che lo spingono a un lento, ma inesorabile declino.

Nella straordinaria, ma incompiuta, generazione di talenti inglesi nati nei primi anni Ottanta Joe Cole era pronto a diventare un protagonista assoluto. Il più grande “What If” del calcio inglese, quei due maledetti infortuni nel 2007 e nel 2009 che hanno tolto al Chelsea e alla nazionale un trequartista di enorme talento che nonostante la sfortuna ha chiuso la sua carriera con quasi 400 presenze in Premier e cinquanta partite, caps, con la maglia della nazionale inglese. 

*Le immagini dell'articolo, entrambe distribuite da AP Photo, sono di Kirsty Wigglesworth ed Hans Punz.

June 10, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Champions League, le quattro edizioni con il “doppio girone”

Un quadriennio ricco di spettacolo ma che ha intasato ulteriormente i calendari europei. La formula adottata dalla UEFA dal 1999 al 2003 per la Champions League ha sicuramente garantito spettacolo, ma nel giro di qualche anno ha creato problemi difficilmente risolvibili. L’idea della UEFA prevedeva ben quattro partite in più rispetto all’attuale format della Champions League. Sicuramente più spettacolo, più match di alto livello, ma troppi impegni infrasettimanali per le squadre.

Per questo dopo l’edizione 2002-2003, dominata dalle squadre italiane con 3 semifinaliste e la finalissima di Manchester tra Milan e Juve, si è passati alla formula attualmente in vigore per la Champions League. 

L’inizio

La formula nasce nel 1999 per evitare la nascita di una Superlega, minacciata più volte dalle principali federazioni europee. Si passò dunque dalle 24 squadre partecipanti alla fase finali a 32, con la formazione di otto gironi da 4 squadre. Le prime due di ogni gruppo accedevano alla seconda fase a gironi, con le 16 squadre inserite in altri quattro raggruppamenti. Le prime due di ogni girone accedevano ai quarti di finale, una formula che dal 2003 è stata accantonata.

Dalle sei partite della seconda fase a gironi si è passati al doppio confronto degli ottavi di finale per stabilire le otto partecipanti ai quarti di finale.

Nel 1999/2000 i gruppi più equilibrati nella seconda fase furono senza dubbio il Gruppo C e il Gruppo D. Nel primo il Real Madrid campione dovette sudare la qualificazione, messa in discussione dalla Dinamo Kiev. Il pareggio di Roberto Carlos nella quinta giornata contro gli ucraini al Bernabeu e lo 0-1 sul campo del Rosenborg hanno permesso a Raul e compagni di qualificarsi al secondo posto dietro il Bayern.

Nel Gruppo D invece Lazio, Chelsea e Feyenoord si sono giocate la qualificazione, con i biancocelesti che, vincendo a Londra, hanno strappato il primato nel girone, unici italiani presenti alla fase di eliminazione diretta. Quest’edizione verrà ricordata per il dominio spagnolo, con Real, Valencia e Barcellona arrivate in semifinale e il successo netto dei Blancos, favoriti per le scommesse e quote Champions League contro il Valencia nella finale di Parigi. 

Il nuovo millennio

Nell’edizione 2000/2001 la seconda fase a gironi viene ricordata per il suicidio del Lione nell’ultima giornata del Gruppo C. I francesi, in casa del già eliminato Spartak Mosca, non sono andati oltre il pareggio mentre l’Arsenal veniva sconfitto in casa del Bayern Monaco, chiudendo così a pari punti. Lo scontro diretto ha premiato gli inglesi, eliminati poi ai quarti di finale dal Valencia.

La vera sorpresa però è stato il Gruppo B, nel quale Galatasaray e Deportivo La Coruna hanno eliminato le più accreditate Milan e PSG.

Quell’edizione si chiuderà con la seconda sconfitta consecutiva in finale del Valencia, questa volta ai rigori contro il Bayern Monaco a San Siro.

Più ricca di sorprese nell’ultima giornata è stata l’edizione 2001/2002, con due italiane protagoniste. La prima è la Roma, che dopo la quinta giornata era capolista nel Gruppo B davanti a Barcellona, Galatasaray e Liverpool. Nella giornata conclusiva ad Anfield però i giallorossi hanno perso 2-0, cedendo il primo posto al Barcellona e venendo eliminati proprio dai Reds per lo scontro diretto a favore degli inglesi.

L’altra italiana protagonista è stata la Juve, anche se i bianconeri sono arrivati al quarto posto del Gruppo D. Il successo a Torino per 1-0 nell’ultima giornata contro l’Arsenal ha eliminato di fatto i Gunners, che con una vittoria avrebbero invece raggiunto Deportivo e Leverkusen a quota dieci punti in classifica.

Un'immagine di Juventus - Arsenal!

Nella finale di Glasgow il Real ha ottenuto la nona vittoria della sua storia in finale contro i tedeschi del Bayer Leverkusen. 

L’edizione italiana

L’ultima versione della formula a “doppio girone” è quella del 2002/2003, con tre italiane in semifinale. Semplice e sul velluto il cammino del Milan nel secondo girone: i rossoneri hanno strappato il primo posto nel Gruppo C con una giornata d’anticipo davanti al Real.

L’Inter ha dovuto mettere al sicuro il secondo posto nel Gruppo A vincendo a Leverkusen nell’ultima giornata, tenendo a distanza di sicurezza il Newcastle. La Roma nell’ultima giornata aveva bisogno di un miracolo contro l’Ajax, l’uno a uno dell’Olimpico non è bastato ai giallorossi, mentre la Juve ha mantenuto il secondo posto nel Gruppo D, nonostante la sconfitta a sorpresa per le scommesse calcio a Basilea nell’ultima giornata.

Clamoroso fu il cammino nel Milan dai quarti di finale in poi, a cominciare dal gol al 90esimo di Tomasson decisivo per battere l’Ajax a San Siro. In semifinale il doppio Derby contro l’Inter deciso dal gol in "trasferta", prima della vittoria di Manchester ai calci di rigore contro la Juventus. 

*Le immagini dell'articolo, entrambe distribuite da AP Photo, sono di Andrew Medichini e Massimo Pinca.

June 9, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Cowdenbeath, che storia leggendaria!

«Mancava una partita di febbraio, l'ultimo match rimasto in cui ero sicuro ci saremmo coperti di gloria. In trasferta a Cowdenbeath. Nelle circa trenta partite giocate fino a quel momento, il Cowdenbeath era riuscito a collezionare sette punti. Aveva incassato settantanove gol. Andai a casa in aereo. Non fraintendetemi. Kirkcaldy non è certo una cittadina ricca. Ma Cowdenbeath, che si trova qualche chilometro più su, la fa sembrare una cittadina turistica tipo Cheltenham.

Mio padre, con sprezzo del pericolo, condusse l'auto con a bordo me e i suoi amici Ron, Jim e Roger lungo le vie che avrebbero fatto inorridire un abitante di Danzica dopo i bombardamenti. Il Central Park sembrava abbandonato da un decennio». Correva la stagione 1992-93 quando Nick Hornby curava la raccolta di racconti a tema calcistico "Il mio anno preferito".

In quello a firma Harry Ritchie, intitolato "Take my whole life too" e dedicato alla promozione dalla Second alla Premier Division del Raith Rovers di Kilkcardy, l'autore si sofferma  sul fascino assolutamente decadente di e del Cowdenbeath. Rispetto a 27 anni fa, nulla è cambiato: la cittadina da 11mila e 600 abitanti alle porte di Dunfermline, nel Fife scozzese, continua a sprofondare nella sua piana violentata, nel tempo, dagli incalcolabili tunnel minerari in cui - fino alla metà del XX secolo - si cercava senza sosta il carbone.

Varcata la soglia di Cowdenbeath si ha subito la sensazione postapocalittica dell'abbandono. Non solo lungo le strade, ma anche arrivati al vetusto Central Park: una serie di prefabbricati, un ovale verde e una pista in calcestruzzo detta detta "Cowdenbeath Racewall per via delle gare di stock-car, organizzate nei weekend. E l'odore di pneumatici pervade sistematicamente i match calcistici casalinghi del "Blue Brazil".

I Blue Brazilians!

Brazil? Che diavolo c'entra il Brasile in uno scenario simili. Ancora oggi ce lo si chiede: perché la squadra calcistica espressione di uno dei posti più tetri di tutto il Regno Unito, custodisce il soprannome più leggendario, esotico e misterioso, peraltro conosciuto in tutto il mondo? Come spesso accade in questi casi, le versioni si sprecano. Quella più fantasiosa, tramandata dai nonni ai nipotini, corrisponde a quella più in voga.

Si narra che, nella prima metà secolo scorso, un gruppetto di minatori sostenitori del "Cowden" sia intento a scavare senza sosta in un tunnel minerario alla ricerca - quotidiana - del solito carbone. Le punte dei picconi quasi si smussano da quanto scavano e, a un certo punto della giornata, esausti per i risultati inconcludenti, decidono di riemergere in superficie. Una volta risaliti, però, si ritrovano proiettati come in una realtà parallela: il cielo non è plumbeo come quello di Scozia, ma azzurro limpido e assolato, tanto da riscaldare le loro ossa ormai sbriciolata dall'umidità del Fife.

La gente era allegra e sorridente e, all'orizzonte, su di un monte, si scorgeva la statua del Cristo redentore. Le donne non erano smorte e sdentate come quelle del pub, bensì di un invidiabile e fascinoso colorito, in un corpo aggraziato e semisvestito. Insomma, quei minatori scozzesi avevano scavato così tanto da essere passati per il centro della Terra sino a sbucare a Rio de Janeiro!

E aggraziati erano anche tre ragazzi che palleggiavano in maniera fenomenale: i "miners" li avvicinarono e chiesero loro di seguirli dentro il tunnel, per approdare in Scozia e disputare una partita con il loro Cowdenbeath avrebbe dovuto affrontare contro il "grande e fortissimo Dunfermline".

Ma come fare per permettere a tre stranieri dell'altro capo del mondo di giocare nel campionato scozzese? Venne quindi l'idea di riferire all'arbitro che la carnagione scura di quei tre ragazzi sconosciuti, altro non fosse che la fuliggine del carbone rimasta impressa nella pelle dato che "quei bravi e volenterosi giovani minatori non avevano fatto in tempo a darsi una lavata dopo il turno e prima di scendere sul campo del Central Park". L'arbitro acconsentì al loro tesseramento-lampo e il Cowdenbeath vinse addirittura 11-1.

Il pubblico in festa, per quella vittoria tutta gol, palleggi e giochi di prestigio, iniziò ad acclamare a gran voce i "Blue brazilians" e la squadra divenne ben presto "The Blue Brazil". Al triplice fischio, i tre giocolieri rientrarono nel tunnel per tornare alla loro vita scanzonata di Rio, di cui la cupa comunità di Cowdenbeath aveva avuto un piacevole assaggio, quel giorno.

Le altre versioni? La più - storicamente - accreditata risale alla dismissione delle miniere che, dagli anni Cinquanta in avanti, provocò un improvviso crollo finanziario. Tra la gente c'era un detto che andava per la maggiore: "Saremo pure messi male economicamente, ma la nostra squadra gioca meglio del Brasile".

In realtà, la cromia delle maglie risalirebbe ai tempi della fondazione del club (1881), avvenuta per mano dei fratelli John e James Pollock la cui mamma, proveniente dall'Ayrshire, gestiva una piccola ditta di mobili e, di ritorno da un viaggio di affari a Glasgow, portò a casa un completo da calcio color blu come i Glasgow Rangers, fondati nel 1872.

Per tutti però, anche oggi in cui il Cowdenbeath si barcamena nell'attuale Second Division (nel frattempo trasformatasi nella quarta serie scozzese) a grande distanza dal Cove Rangers capolista ed opzione sempre valida per le scommesse, le anime di quei tre ragazzi brasiliani stanno ancora palleggiando, dribblando e segnando sul rettangolo del vetusto Central Park...  

June 9, 2020
Stefano Fonsato
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Stefano collabora da anni come giornalista freelance per il portale web di Eurosport Italia, per il quotidiano La Stampa e con la casa editrice NuiNui per la quale è stato coautore dei libri "I 100 momenti magici del calcio" e "I 100 momenti magici delle Olimpiadi".

E' amante delle storie, dei reportage e del giornalismo documentaristico, ma il suo "pallino" resta, su tutti, il calcio d'Oltremanica.

 

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La novità delle 5 sostituzioni | 5 cambi nel calcio | Le sostituzioni di Inzaghi

E come si fa senza poter fare le sostituzioni? Bisognerebbe chiedere a chiunque sia sceso in campo tra gli albori del pallone, gli anni Sessanta dell’Ottocento, e quasi cento anni dopo.

 

Un secolo senza poter fare sostituzioni, con i poveri infortunati costretti a vagare per il campo dando meno fastidio possibile ai compagni (solitamente chi zoppicava veniva relegato all’ala sinistra) o, in caso di problemi più importanti, semplicemente a lasciare la squadra in inferiorità numerica.

I cinque uomini in panchina

Il terzo cambio

Le cinque sostituzioni

Non il massimo della vita, quindi era ovvio che prima o poi se ne sarebbe discusso. E questo accade negli anni Cinquanta. Dopo parecchi anni, si considera la possibilità di permettere cambi a partita in corso, solo ed esclusivamente in caso di infortunio. Il primo sostituto di sempre, da quanto spiega la FIFA, è il tedesco Richard Gottinger, che gioca la sua unica partita con la Mannschaft entrando al posto di Horst Eckert nel match di qualificazioni ai mondiali del 1954 contro la rappresentativa della Saar.

La questione viene regolamentata nel 1958, quando dagli undici calciatori a referto si passa alla possibilità di averne fino a tredici, considerando che le regole prevedono un cambio per i calciatori di movimento e uno in caso di problemi fisici al portiere. 

Anche Messi può essere sostituito!

E pazienza se per sostituire un giocatore c’è bisogno che si faccia male, perché l’impossibilità di fare cambi tattici viene bypassata attraverso infortuni più o meno veritieri. Al punto che, a fine anni Sessanta, il cambio per ragioni non mediche viene finalmente permesso.

Ai mondiali le sostituzioni arrivano tardi, nell’edizione 1970 assieme all’esordio dei cartellini. Il primo a entrare in campo a match in corso è il sovietico Puzach nella partita contro il Messico. In Italia il “tredicesimo”, il calciatore di movimento in panchina, viene inserito nel 1968/69, mentre nella stagione 1973/74 nasce addirittura il “quattordicesimo” uomo a referto, sempre però con la possibilità di un solo cambio, più quello del portiere.

I cinque uomini in panchina

Nel 1980/81 la Serie A allunga la panchina a cinque uomini, ma per avere la possibilità di cambiare due giocatori, indipendentemente dal ruolo, bisognerà aspettare il 1980/1981: il tecnico della Juve Giovanni Trapattoni, nel 1982, mandò in campo Prandelli e Bonini, al posto rispettivamente di Rossi e Platini, nel pirotecnico 2-1 al Comunale contro la Roma.

In quell’anno la FIFA rivede il regolamento e permette di fare due sostituzioni, rimuovendo l’obbligo di utilizzarne una per cambiare il portiere. Il che, è proprio il caso di dirlo, lo spiraglio che apre a una serie di normative sempre più permissive da questo punto di vista. In Inghilterra la novità dei due cambi arriva addirittura 7 anni dopo!

Già nel 1993, in previsione dei mondiali negli Stati Uniti, nasce il “2+1”, ovvero la possibilità di cambiare due calciatori di movimento più, eventualmente, il portiere.

Il terzo cambio

La A modifica la regola numero tre del Regolamento del gioco del calcio nel 1995, introducendo il terzo cambio, a prescindere dal ruolo: all'Olimpico, contro la Lazio, Paolo Di Canio con la maglia del Milan subentra come terzo sostituto a Savicevic, pochi secondi dopo il gol decisivo di Weah per guadagnare qualche secondo prezioso.

Dal 1997 i calciatori a referto passano addirittura a 18, con le panchine allungate a sette elementi. Nel corso degli anni il numero di calciatori a disposizioni nelle competizioni nazionali viene deciso dalle singole organizzazioni, il che porta alle panchine lunghe come in Italia (con la Serie A che ammette ben 12 riserve sin dalla stagione 2012/13), ma anche alla decisione di bloccare a sette il numero dei panchinari di altri campionati come la Premier League e nelle coppe europee.

Per una nuova rivoluzione servono altri vent’anni, quando la FIFA considera la possibilità del quarto cambio. Nel 2016 nasce l’idea per cui, in caso di supplementari in partite a eliminazione diretta, le squadre possono sostituire un altro calciatore. Il primo “quindicesimo” della storia del calcio è Alvaro Morata, che nella finale del Mondiale per Club 2016 prende il posto di Cristiano Ronaldo nei supplementari del match tra Real Madrid e Kashima Antlers.

Morata nel 2016 con il Real Madrid!

La nuova normativa viene poi utilizzata ai Mondiali in Russia e allargata a tutte le competizioni ad eliminazione diretta, comprese le coppe europee, a partire dalla stagione 2018/19. 

Le cinque sostituzioni

E per l’aumento successivo…ci vuole il 2020! Tra le norme temporanee (in un primo tempo fino al 31 dicembre 2020) stabilite dalla FIFA per la ripresa del calcio dopo lo stop forzato, c’è la possibilità di fare fino a cinque sostituzioni in massimo tre slot diversi nei novanta minuti regolamentari. In realtà la possibilità di aumentare stabilmente a cinque le sostituzioni era già stata paventata nel 2018, ma era tra le proposte che l’IFAB, l’organo che si occupa di stabilire le regole del calcio, aveva bocciato. 

Simone Inzaghi abile nello sfruttare le sostituzioni

La Bundesliga, il primo campionato di livello a riprendere in Europa, ha già avuto modo di sperimentare il nuovo regime, con Timo Becker, calciatore dello Schalke 04, che si prende l’onore di diventare il primo “sedicesimo” nel primo turno di campionato post-sospensione, anche se in Zweite Bundesliga parecchie squadre avevano già approfittato dei cinque cambi nelle ore precedenti.

Nei prossimi mesi sarà interessante analizzare se e come la novità regolamentare avrà influenzato le scommesse calcio, ed in particolare quelle relative ai secondi tempi di gara!

*Le immagini dell'articolo sono distribuite da AP Photo. Prima pubblicazione 8 giugno 2020.

October 31, 2021
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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I 5 club più operai del calcio inglese!

Il calcio si, sa, s'intreccia storicamente con mille significati. Dalla politica allo status sociale, passando per le tematiche lavorative. Oltremanica si è spesso parlato di "working class football", ma quali sono le 5 società che maggiormente interpretano, ancora oggi, le loro origini operaie? Ne abbiamo selezionate 5, andiamole a scoprire:

I minatori di Sunderland

Certamente non la più bella città d'Inghilterra, almeno dal punto di vista paesaggistico. E tra le più povere, se non la più povera. Scordatevi Londra e le atmosfere altolocate del sud. E' qui che si respira, sino a sprofondarci dentro, l'Inghilterra più profonda. Quella dei cantieri navali, dei minatori, a cui è dedicato lo "Stadium of Light", che nel 1997 prese il posto del suggestivo Roker Park.

Proprio davanti all'impianto, una lanterna-monumento, in onore dei lavoratori sotterranei, che per poche sterline rischiavano quotidianamente la vita mandando avanti una buona fetta di economia del paese.

Politica di riconoscenza per la "working class" che però non viene esattamente trasferita nei prezzi: di fronte ai 1200-1400 euro circa di stipendio mensile guadagnato da uno stipendio del Tyne and Wear (salario normale per un italiano, molto basso, invece, per il costo della vita in Inghilterra), il prezzo più basso per l'abbonamento alle gare casalinghe della stagione di League One (terza serie) 2020-2021 corrisponde a 310 sterline (348 euro / 16,5 per match, che singolarmente - in League One - viene venduto a circa 30 euro).  

West Ham e i suoi martelli

Il club fu fondato nel 1895 dal filantropo Arnold Hills, direttore del cantiere navale londinese Thames Ironworks, come dopolavoro per i suoi operai. La squadra fu iscritta alla London League, che vinse nel 1898. L'anno dopo fu iscritta alla Seconda Divisione del campionato semi-professionistico della Southern League, vinse nuovamente il campionato e giocò per la prima volta le partite casalinghe al Memorial Grounds, nel quartiere londinese (nel sud della metropoli) di Canning Town.

A quel punto, affinché la squadra fosse competitiva in Prima Divisione, si rese necessario l'ingaggio di calciatori professionisti. Il Thames Iron Works Football Club fu quindi sciolto nel giugno del 1900 e un mese dopo (esattamente il 5 luglio) fu costituito il West Ham United. In quell'occasione fu deciso che i colori sociali fossero il bordeaux e l'azzurro (claret and blue).

A tutt'oggi, giocatori e tifosi vengono chiamati "Hammars" in onore dei martelli incrociati raffigurati sullo stemma del club. Che peraltro, talvolta, vengono mimati - con le braccia incrociate - anche in fase di esultanza. Per le paratite casalinghe, sempre interessanti per le scommesse live i prezzi di ingresso per gli adulti alle gare dell'Olympic Stadium (che, gli Hammers ancora misconoscono in ricordo di Boleyn Ground)? Da 45 a 80 pounds per match.

Millwall e gli scaricatori di porto

Vicini di casa del West Ham, con cui - le ormai rare volte che il calendario lo propone - danno vita al derby più caldo d'Inghilterra. Non inganni lo stemma del club, un leone rampante; per questo motivo i giocatori e i tifosi sono detti The Lions (I Leoni), che si esibiscono al "The Den" (la tana), ubicato al termine di Bolina Road a South Bermondsey.

Originariamente, i giocatori erano soprannominati The Dockers (in italiano Gli Scaricatori di Porto), in riferimento agli scenari portuali dell'Isle of Dogs in trae origine la storia del club. La divisa tradizionale consiste in una maglietta blu e pantaloncini bianchi, in onore della Scozia. Era scozzese, infatti, l'imprenditore James Morton, la cui omonima fabbrica (J.T. Morton) fondata nel 1870,  attirava manodopera da tutto il Regno Unito.

I tifosi del Millwall, ancora oggi espressione della zona più umile di Londra, sono i più temuti in UK: "No one likes us, we don't care" ("Non piacciamo a nessuno, non ce ne frega niente") è il loro motto. Un plauso alla dirigenza biancoblù che, nonostante un costo della vita piuttosto elevato a Londra, applica tra i prezzi più convenienti della Football League: per la Championship (la B inglese), appena 289 sterline (314 euro) per l'abbonamento-adulti stagionale.

Bradford City e l'industria tessile

Nell'ottobre 2015, la testata "The Independent" ha definito Bradford "il posto peggiore dove vivere nel Regno Unito". Con circa 284mila abitanti, la città dello West Yorkshire fu la più importante nell'industria tessile a metà del Diciannovesimo secolo. Le origini umili  si sono trasferite anche nel club, che attualmente frequenta la League Two.

La storia non ha mai riservato grande soddisfazioni da queste parti: l'11 maggio del 1985 lo stadio Valley Parade fu teatro di una delle peggiori tragedie del calcio britannico, quello che viene ricordato come il disastro di Bradford in cui persero la vita 56 persone e 265 rimasero ferite.

Tornando alla mentalità operaia del club, significativo è il gesto nel 2017 del co-proprietario tedesco (di origini bosniache) Edin Rahic, che fissò il prezzo più basso degli abbonamenti annuali in tutta la Football League inglese: 149 sterline, somma unificata per tutti i settori dello stadio.

Ad oggi, il prezzo intero per una gara di League Two (quarta serie) al Valley Parade, equivale a 20 sterline. E questo in una delle città col più alto tasso di disoccupazione dell'intero paese e il cui stipendio medio è molto simile a quello già citato per Sunderland.

Scunthorpe United: il pugno e l'incudine

Cittadina industriale da 73mila abitanti a un centinaio di chilometri da Bradford, il settore metallurgico ha da sempre costituito la principale fonte di reddito (1500 sterline il salario mensile medio di uno "steel worker").

"Any old Irons" sono soprannominati i tifosi e i giocatori e il simbolo del club claret and blue (le cui divise richiamano le tute degli operai) - anch'esso militante in League Two (26 euro il costo del biglietto intero per una partita al Glanford Park) - è un pugno che stringe una barra di ferro, simile ad un'incudine, icona laica di tutta l'area del North Lincolnshire.

Più calcio-operaio di così...

Segui la Premier anche con le scommesse calcio!

*La foto di apertura è di Tim Ireland

June 6, 2020
Stefano Fonsato
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Stefano collabora da anni come giornalista freelance per il portale web di Eurosport Italia, per il quotidiano La Stampa e con la casa editrice NuiNui per la quale è stato coautore dei libri "I 100 momenti magici del calcio" e "I 100 momenti magici delle Olimpiadi".

E' amante delle storie, dei reportage e del giornalismo documentaristico, ma il suo "pallino" resta, su tutti, il calcio d'Oltremanica.

 

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Trent'anni da Italia '90

Una favola senza lieto fine. Sono passati trent’anni, e non è semplice raccontare a chi ancora non c’era, quell’aria di allegria e di spensieratezza che il Paese ebbe modo di respirare a pieni polmoni nell’estate del 1990. Le Notti Magiche cantate da Gianna Nannini ed Edoardo Bennato non sono state unicamente l’inno dei Mondiali: si potevano vivere, apprezzare, si potevano toccare con mano con quella leggerezza tipica di quei tempi.

Il Muro di Berlino era venuto giù da pochi mesi, le ansie della Guerra Fredda erano distanti, i timori degli anni di piombo ormai fugati; l’Italia era un Paese che viaggiava in maniera spedita grazie all’industria del petrolchimico, delle automobili, dell’agroalimentare che aveva modo di alimentare la quarta economia mondiale: si poteva guardare al futuro con certificate speranze, sognare non era soltanto lecito, era persino doveroso.

L’organizzazione della Coppa del Mondo sarebbe stata l’occasione per cambiare radicalmente il Paese: opportunità vanificata. Tangentopoli già scorreva in maniera fluida tra economia e politica, il fiume sotterraneo - una volta emerso - sarebbe drammaticamente esondato travolgendo uomini, partiti e aziende.

La macchina politica e amministrativa non si mostrò virtuosa nella gestione economica, gli enormi investimenti statali produssero ecomostri e tangenti, ma tutto ciò affiorò soltanto più avanti, e soltanto in Italia. La percezione del mondo fu diversa, una manifestazione compresa come una festa a cielo aperto, in nome della fratellanza e dei valori sportivi.

L’8 giugno 1990 iniziò il Mondiale che si concluse con incoronazione della Germania riunificata: non fu l’epilogo che l’Italia si aspettava. Il Paese scelse il vestito della festa per presentarsi al Mondo: stadi rinnovati e grande salto tecnologico per le riprese televisive.

Tra le ventiquattro squadre qualificate, partecipano per la prima volta Costa Rica, Eire e Emirati Arabi, c’è l’Unione Sovietica che ha tolto dalle maglie la scritta CCCP, ci sono Jugoslavia e Cecoslovacchia selezioni che di lì a poco verranno disunite, generando diverse altre formazioni nazionali. Nel tabellone ci sono sei gironi; si qualificano le prime due di ogni raggruppamento, più le 4 migliori terze.

Le favorite

L’Italia è tra le favorite alla vittoria finale; essendo il Paese organizzatore, negli ultimi 2 anni ha disputato soltanto amichevoli, ma la qualità della squadra è di valore assoluto: Zenga, Bergomi, Baresi, Ferri, Maldini, Berti, Ancelotti, Giannini, Donadoni, Baggio, Vialli. Sulla carta, è una formazione invincibile. E infatti, non perde mai.

Poi ci sono la Germania di Lothar Matthäus, l’Olanda di Ruud Gullit, l’Inghilterra di Paul Gascoigne. E il solito Brasile, che non vince da quattro edizioni, ma che alla vigilia si presenta sempre con i favori del pronostico per le scommesse calcio .

L’Argentina si presenta con rinnovate ambizioni dopo aver vinto il titolo mondiale quattro anni prima in Messico. Ma l’albiceleste cade all’esordio contro un sorprendente Camerun; decide la partita un gol di testa di Omam-Biyik, ed è un gesto atletico di una bellezza barbara, uno stacco di testa illogico per l’altezza che il giocatore riesce a raggiungere. Il Camerun chiude in nove, ma resiste e porta a casa una vittoria insperata.

Che sorpresa per i Campioni del Mondo dell'Argentina!

L’Italia fa il suo esordio il 9 giugno, in uno stadio Olimpico avvolto da ottantamila tricolori al vento. La sfida con l’Austria non si sblocca, alla fine la risolve Totò Schillaci, l’ultimo arrivato: diventerà l’uomo simbolo dei Mondiali, ma ancora non può saperlo.

Nei gironi di qualificazione l’unica sorpresa è il Costa Rica che approda agli ottavi estromettendo Svezia e Scozia. Altre selezioni a rischio - compresa l’Argentina - si salvano conquistando il passaggio del turno come migliori terze. Il gol di Giannini contro gli Stati Uniti esalta i tifosi azzurri, quello di Roberto Baggio contro la Cecoslovacchia è un capolavoro michelangiolesco di rara bellezza.

La fase ad eliminazione diretta

Negli ottavi di finale l’Italia batte senza patemi l’Uruguay, la Jugoslavia elimina la Spagna, l’Irlanda supera ai rigori la Romania, la Cecoslovacchia travolge il Costa Rica, la Germania supera l’Olanda, il Camerun ha la meglio sulla Colombia, l’Inghilterra si impone sul Belgio all’ultimo minuto dei tempi supplementari. Ma la vera sorpresa per le scommesse, è il successo dell’Argentina sul Brasile.

Decide la partita un gol di Caniggia, e una borraccia inquinata dagli argentini, e passata volutamente a un avversario. Branco ko.

Il gol che elimina il Brasile a Torino!

Le sfide dei quarti di finale sono equilibrate, almeno nel risultato; l’Italia domina contro l’Eire, ma segna un solo gol con il solito Schillaci, l’Argentina va a un passo dall’eliminazione contro la Jugoslavia, la salva il portiere Sergio Javier Goycochea che ha preso il posto da titolare dopo l’infortunio di Pumpido contro l’URSS: ai rigori Goycochea fa la differenza, e non sarà un caso isolato.

Il Camerun si ferma a un passo dall’impresa; in vantaggio contro l’Inghilterra, viene raggiunto a ridosso del novantesimo e superato ai supplementari grazie a due calci di rigore realizzati da Lineker.

Si risolve dal dischetto anche la sfida tra Germania e Cecoslovacchia: decide Matthäus. In semifinale i tedeschi trovano l’Inghilterra: è la rivincita della finale dei Mondiali del 1966, la partita è equilibrata e bellissima, sblocca Brehme, pareggia Lineker. Ai rigori i tedeschi non sbagliano mai.

La semifinale dell’Italia si gioca a Napoli, contro l’Argentina di Maradona; il campione sudamericano incendia la conferenza stampa della vigilia: “Solo adesso si chiede ai napoletani di essere italiani, e si dimentica che per un anno Napoli è stata definita la città dei terremotati, dei terroni, è sempre stata emarginata, ha ricevuto solo schiaffi. C’è tanto razzismo nei confronti dei napoletani, io ho sempre saputo che Napoli è italiana”.

Le premesse sono buone, l’Italia sblocca il risultato con Schillaci, e pensa di tenere in mano la partita. Ma a metà della ripresa pareggia Caniggia; da quel momento in poi gli azzurri vanno in confusione. Supplementari, poi rigori. Donadoni e Serena sbagliano, il sogno è finito, l’Argentina è in finale.

Le Notti magiche finiscono qui, la finalina per il terzo posto contro l’Inghilterra a Bari è l’occasione per dare il giusto tributo agli Azzurri: Schillaci segna ancora, e vince il titolo dei cannonieri.

Il giorno successivo è quello della finale. L’Olimpico fischia l’inno argentino, ed è la pagina più mortificante di Italia ’90: Maradona insulta tutti, inizia ringhiando e finisce piangendo. E’ una delle partite più brutte della storia del Mondiale, decisa da un rigore dubbio realizzato da Brehme.

L'esultanza dei tedeschi!

Queste furono le notti magiche sotto il cielo di un’estate italiana; mancò il trionfo sportivo, e ai tifosi disillusi rimase soltanto il rammarico. Ma per tutti gli altri, fu una manifestazione gioiosa; fu il Mondiale la festa stessa, e durò un mese intero: fu un’avventura senza frontiere. E con il cuore in gola. Inseguendo un gol, che non arrivò mai.

*L'immagine di apertura dell'articolo è di Foggia; quella del gol di Caniggia di Luca Bruno; l'ultima di Carlo Fumagalli. Tutte distribuite da AP Photo.

June 5, 2020
simone pieretti
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Giornalista, scrittore, innamorato di futbol. Scrive per trasmettere emozioni e alimentare sogni. Il calcio è una scienza imperfetta: è arte, è musica, è poesia. E' un viaggio nel tempo che ci fa tornare bambini ogni qual volta diamo un calcio a un pallone.

 

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La guida al campionato croato

Un secondo e un terzo posto al mondiale. Solo due qualificazioni a grandi appuntamenti (Euro 2000 e Mondiale 2010) mancati negli ultimi trent’anni. Un Pallone d’Oro, l’unico dal 2008 in poi a interrompere il duopolio di Messi e Cristiano Ronaldo.

Non male per un paese di appena quattro milioni di abitanti, ma soprattutto per una nazionale che esiste solamente dal 1990. Anzi, a sentire la FIFA dal 1991, perché i risultati ottenuti dalla Croazia prima dell’indipendenza ufficiale dalla Jugoslavia non sono stati considerati. Il primo match della “nuova” Croazia, però, è datato 17 ottobre 1990, allo stadio Maksimir di Zagabria, e viene vinto per 2-1 dai padroni di casa contro gli Stati Uniti. Dunque, trent’anni di storia. 

Il campionato locale inizia nel 1992, sotto la denominazione di Prva HNL o  1. HNL: al momento della ripartenza sono stati giocati ventisei turni e ne mancano dieci. Si avvia, ripartendo da rassicurante +18 in classifica, a vincerlo per la quattordicesima volta nelle ultime quindici stagioni, la Dinamo Zagabria; unico titolo non vinto dai poeti, quello del 2016/2017 conquistato dal Rijeka

Il calcio croato è ripreso dalle semifinali di Coppa, la Kup, e proprio la formazione di Fiume è stata protagonista di un’incredibile rimonta: campione in carica, grazie al successo nel 2019 contro la Dinamo, avrà la possibilità di difendere il trofeo nella finalissima contro la NK Lokomotiva Zagreb, dopo aver ribaltato lo 0-2 iniziale nella semifinale secca con il NK Osijek in una sfida dallescommesse live imprevedibili!

 

Il format

Solo dieci squadre partecipanti che si affrontano quattro volte per un totale di trentasei turni di campionato. Al momento non sono previste riduzioni nelle giornate da disputare.

Sono ben quattro, tra campionato e coppa, le posizioni che danno diritto ad altrettanti slot nelle coppe europee. Chi vince, inizia il percorso in Champions dal secondo turno preliminare della Champions League,  seguendo il c.d. Champions Path. I quarti in classifica iniziano dal primo turno preliminare di Europa League. Nessuna delle tre compagini croate impegnate nel secondo trofeo continentale, è riuscita ad arrivare alla fase a gironi.

L'ultima in classifica retrocede in 2. HNL, la nona, invece, disputa il playout con la seconda della B croata.

Progetto Dinamo

L'idea calcistica è chiara, semplice, ma davvero efficace: i giocatori si formano in casa e quando sono pronti vengono lanciati senza particolari preoccupazioni tra prima squadra e Youth League, ancora in gara al momento della sospensione delle competizioni UEFA, dopo aver eliminato addirittura il Bayern Monaco. Un serbatoio clamoroso per la Nazionale, uno dei migliori settori giovanili d’Europa: i calciatori più talentuosi vengono lanciati giovanissimi.

La Dinamo è strutturata a livello economico e societario, non deve vendere subito i suoi gioielli. Nel girone di Champions con Manchester City, Atalanta e Shakhtar Donetsk, si è fatta valere, sfiorando la qualificazione e sorprendendo per le scommesse calcio proprio i bergamaschi nella gara di apertura del raggruppamento. Anche l’anno scorso ha fatto una buona campagna in Europa League, passando il girone ed i sedicesimi finali, uscendo solo ai supplementari con il Benfica negli ottavi. 

La bontà del lavoro svolto nel centro di è testimoniata una volta di più dalle dinamiche relative alla prima parte di carriera dell’ancora giovanissimo Dani Olmo: il talento spagnolo ha lasciato a 16 anni la Masia di Barcellona, per investire su stesso e velocizzare l'ingresso nel calcio che conta.

L'operazione è stata un successo per tutti e con il trasferimento del centrocampista al Lipsia, la dirigenza della società dello stadio Maksimir  ha ottenuto una della cessione più remunerativa: solo i bonifici della Juve per Pjaca e del Tottenham per Modric sono stati leggermente più alti.

Un'immagine della sfida di Champions contro l'Atalanta!

La stagione dell’Hajduk, altra big del calcio croato, è stata davvero travagliata. Pronti, via e subito esonero per l’allenatore Sinisa Orescanin, dopo un clamorosa sconfitta, anche per le scommesse, nei preliminari di Europa League contro i maltesi dello Gzira United Football Club: la squadra nella quale è cresciuto quel fenomeno di Alen Boksic è uscita, subendo in casa tre gol nel secondo tempo della partita di ritorno...

Il secondo tecnico stagione ha allenato la squadra per circa quattro mesi, sino alle elezioni presidenziali che hanno portato a Spalato una nuova dirigenza ed un manager di sicura esperienza, tra l'altro vecchia conoscenza del calcio italiano, Igor Tudor.

Obiettivi e talenti 

La volata per il secondo posto sarà entusiasmante nelle ultime dieci partite; grazie ai punti conquistati dalla Dinamo in Champions che hanno migliorato il  Ranking Uefa della Croazia, il secondo posto in classifica potrebbe valere l’accesso ai preliminari di Champions e non a quelli di Europa League. Sono quattro le squadre che possono puntare alla posizione finale di runner-up!
Tra i calciatori da seguire segnaliamo Mirko Maric, attaccante classe 1995 del NK Osijek: classico centravanti dal fisico importante, in odore di nazionale, sinistro pregevole, già 17 gol in questo campionato, per età e caratteristiche possiamo paragonarlo ad Andrea Petagna.

*Le foto dell'articolo sono di Darko Bandic (AP Photo).

June 5, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Dalle maglie alle arene, il mondo delle sponsorizzazioni nella NBA!

Il magico mondo del basket USA vive di visibilità. Tutto è esploso con l’espansione a livello mondiale del marchio NBA, riconducibile agli anni Novanta e all’incredibile epopea dei Bulls di Michael Jordan. Da quel momento la NBA è diventata la Lega più seguita al mondo, attraendo sponsor da ogni parte del pianeta, con i relativi ricavi schizzati alle stelle!

Qualsiasi impresa commerciale che vuole avere una sponsorizzazione nel mondo della pallacanestro americana può decidere di accordarsi o con la singola franchigia, o direttamente con la NBA. L’azienda più attiva da questo punto di vista è la compagnia assicurativa State Farm, che oltre a un contratto quadro con la NBA, esports incluso, vanta sponsorizzazioni con circa l’ottanta per cento delle franchigie.

La NBA gestisce direttamente gli accordi per la fornitura del materiale da gioco, affidato dalla stagione 2017 al colosso americano Nike. Il precedente accordo, stipulato con Adidas, aveva portato nelle casse della NBA 400 milioni di dollari in dieci anni. Il contratto con l'azienda dell'Oregon vale un miliardo di dollari in otto anni!

L'incremento sempre più esponenziale del valore di queste entrate ha portato il Salary Cap ad una crescita enorme negli ultimi anni. In quindici anni si è passati dai 43 milioni di dollari della stagione 2004/05 ai quasi 120 milioni della stagione in corso. Numeri astronomici che, tra l'altro, non comprendono gli accordi commerciali delle singole franchigie con le varie aziende. 

I naming rights

Una delle fonti di guadagno a livello di sponsorizzazione per le franchigie NBA arriva dai diritti delle arene. O meglio, dalla denominazione delle arene stesse. Ogni squadra infatti “cede” a uno sponsor il nome della propria arena, e non mancano addirittura dei “conflitti”. È il caso dei Dallas Mavericks e dei Miami Heat, entrambi sponsorizzati dalla American Airlines. Per questo motivo in Florida si trova l’American Airlines Arena, mentre in Texas l’American Airlines Center.

L’accordo più ricco è quello firmato nel 2018 dai Toronto Raptors, che al termine del contratto con Air Canada, hanno ceduto i diritti dell’arena alla Scotiabank. La franchigia canadese, vittoriosa nel 2019 per le Scommesse e quote per il basket ha firmato un accordo della durata di venti anni da 30 milioni di dollari a stagione.

Cifre astronomiche se si considera che il secondo accordo per valore raggiunge appena la metà. Stiamo parlando dell’ultimo contratto firmato per la nuova arena dei Golden State Warriors. I vice-campioni NBA hanno lasciato la Oracle Arena di Oakland per trasferirsi al Chase Center di San Francisco,  a seguito di un accordo ventennale da 15 milioni di dollari all’anno. 

Lo sponsor sulla maglie

Fino alla stagione 2017 le maglie della NBA erano “pulite”, ovvero prive di sponsor. Per aumentare ulteriormente i ricavi e offrire maggior visibilità alle tantissime aziende che volevano investire nel mondo NBA, il Commissioner Adam Silver ha dato il via libera all’introduzione di una piccola sponsorizzazione sulla maglia.

Come per quanto riguarda la gestione delle arene, gli accordi vengono gestiti direttamente dalle singole franchigie. Vista la novità, la maggior parte delle società ha deciso di firmare accordo molto più brevi rispetto a quelli firmati per le arene. Si parla di sponsorizzazioni di 2-3 anni, che comunque fruttano dai cinque ai dieci milioni di dollari per ogni franchigia.

Gli accordi più ricchi sono stati firmati, ovviamente, dalle squadre che, al momento dell'introduzione, lottavano per il titolo. A cominciare dai Cleveland Cavaliers, che hanno ottenuto un accordo triennale con Goodyear da dieci milioni a stagione. Addirittura raddoppiato il valore dell’accordo tra i Warriors e il servizio di streaming giapponese Rakuten, che sponsorizza Golden State per venti milioni a stagione.

Anche le franchigie storiche hanno ottenuto contratti molto ricchi. È il caso dei New York Knicks, che nonostante un’assenza pluriennale dai playoff, hanno sottoscritto un'intesa triennale con l’azienda americana Squarespace da circa 13 milioni a stagione.

Discorso simile anche per i Lakers, che nel 2018 prima dell’arrivo di LeBron e del ritorno, anche per le Quote e Scommesse NBA ad alti livello avevano firmato un accordo biennale con Wish, azienda attiva nell'e-commerce da 12 milioni a stagione.

L’esperimento sponsor sulla maglia verrà testato definitivamente nel 2021. Quasi tutti i contratti di sponsorizzazione, infatti, scadranno al termine dei prossimi NBA playoffs previsto per ottobre 2020 e la NBA punta a massimizzare gli introiti con i nuovi accordi che entreranno in vigore dalla prossima stagione. 

*La foto di apertura dell'articolo è di June Frantz Hunt (AP Photo).

June 5, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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