The Last Dance: la serie cult che avvicina MJ alla nuova generazione


Spigoloso, ruvido e diretto. Non ha voluto nascondere nulla Michael Jordan nella serie “The Last Dance”, prodotta da ESPN e distribuita a livello mondiale da Netflix. Un appuntamento fisso la domenica sera in America e il lunedì per il resto del Mondo. La possibilità di conoscere segreti, curiosità e retroscena dell’ultima, leggendaria stagione di MJ ai Bulls.

Un’idea nata dal produttore di NBA Entertainment Andy Thompson, e recepita all’inizio della stagione 1997/98 quando il proprietario dei Campioni NBA Jerry Reinsdorf e il coach Phil Jackson hanno dato l’ok alla realizzazione delle riprese “dietro le quinte”.

Il tutto, ovviamente, sotto la regia e la volontà di Michael Jordan. Assoluto protagonista della serie, e vero monopolizzatore della scena. Si analizza la carriera e la situazione contrattuale di Pippen, l’arrivo di Rodman a Chicago e il rapporto molto conflittuale, che meriterà un articolo a parte, con il gm Jerry Krause

Il consenso di MJ

La gestione della data d’uscita è stata lasciata direttamente allo stesso Jordan che non riceverà un solo dollaro dai diritti relativi alla messa in onda, avendo destinato i proventi ad iniziative di beneficenza.

Avere il consenso del campione alla messa in onda della serie è stato sicuramente il passaggio più complicato per ESPN. Sono stati tre i grandi registi ai quali MJ ha detto no nel corso degli anni, Spike Lee, appassionato di basket compreso! È stato quindi MJ a decidere di pubblicare la stagione della leggenda nel 2020, anche se precedentemente era prevista l’uscita per il mese di giugno. Avrà svolto sicuramente un ruolo fondamentale in tal senso la carica di Commissioner, attualmente ricoperta da Adam Silver, tra i promotori delle riprese nel 1997.

La sospensione della stagione NBA ha convinto ESPN e Netflix ad anticipare, con numeri da record, l’uscita al 19 aprile in America, il 20 aprile per il resto del Mondo. In Italia nessuna serie è stata più vista sulle piattaforme streaming!

L’accordo tra i due colossi dell’intrattenimento televisivo è nell’ordine dei 20 milioni di dollari, secondo l’esperto Bill Simmons: un importo clamoroso se pensiamo all’anno di registrazione delle riprese. Il materiale realizzato comprendeva oltre 500 ore di girato ed un’opera di post produzione che si presentava clamorosamente complicata, con una corsa contro il tempo per consegnare le puntate finali.

La scelta del 2020 coniuga una straordinaria strategia di marketing alla possibilità di far conoscere alla nuova generazione cosa è stato Michael Jordan per lo sport mondiale. La lettura pubblicitaria trova conferme nel quinto episodio della serie, quando MJ ricorda la sua ultima partita al Madison Square Garden.

In quell’occasione Jordan tornò ad indossare le sue prime Jordan Air 1 e realizzò 42 punti contro i Knicks. Nel giro di 24 ore dall’uscita dell’episodio in USA il prezzo delle Jordan Air 1 è raddoppiato, vista l’enorme richiesta scatenata proprio da “The Last Dance”. Il collezionista Jordy Geller è riuscito, attraverso la famosa agenzia Sotheby', a vendere un paio di Air Jordan I, usate durante la stagione 1984-85, alla cifra record di 560.000 dollari!

C’è un lato più sensibile e meno legato all’aspetto puramente economico. I tanti flashback all’interno della serie e la descrizione della carriera di MJ danno la possibilità di rivivere l’impatto di Jordan nella cultura degli Anni Ottanta e Novanta. L’esplosione del marchio Nike grazie alle sue straordinarie prestazioni, la trasformazione della scarpe da basket in sneakers ricercate da qualsiasi ragazzo.

La voglia di distaccarsi dal contesto politico per concentrarsi solo sul mondo del basket. La decisione di presentarsi “umano” parlando delle polemiche del 1993 per la sua gita ad Atlantic City tra gara-1 e gara-2 delle Finali di Conference a New York, entrambe vinte a sorpresa per i pronostici NBA dai Knicks! Il tutto ha reso molto più accessibile ai giovani un’icona che fino a un mese fa apparteneva soprattutto alla generazione degli anni ottanta e novanta. 

Curiosità

Pippen, descritto nella serie come il 122° giocatore per stipendio della Lega, nella sua carriera NBA ha guadagnato, ovviamente ci riferiamo solo ai compensi strettamente sportivi, più di Jordan, grazie alla sottoscrizione di due contratti all’indomani del clamoroso sesto titolo. Paradossalmente è la seconda parte della carriera dell'ala da Arkansas ad averlo reso ricco con le firme con Houston per 11 milioni e la stagione successiva, un quadriennale con Portland da 65 milioni complessivi!

Il materiale girato è stato conservato, rectius, blindato, per 19 anni negli uffici del futuristico Replay Center NBA di Secaucus, New Jersey.

Adam Silver, responsabile della NBA Entertainment nel 1997 ed attuale Commissioner della Lega, viene inquadrato nel primo episodio, davanti all’albergo parigino che ospitava, sotto prenotazioni con falsi nomi, i Bulls. 

Tra i registi che hanno ricevuto un secco rifiuto di Jordan c'è anche il simpatico Danny Devito!

*L'immagine di apertura è di John Swart (AP Photo).

May 18, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Si scrive Di Vaio, si legge... gol!

Essere un bomber significa fare gol. Come, dove e quando? Beh, non importa più di tanto. Quello che conta è che se un calciatore è in grado di segnare nell’arco della sua carriera ben 269 reti, vuol dire che il gol ce l’ha nel sangue. E se le maglie indossate sono undici e con tutte c’è stata un’esultanza, persino con quella indossata appena sette volte, vuol dire che si è nati per fare quel mestiere lì.

Non sorprende dunque che Marco Di Vaio, nato a Roma nel luglio del 1976, sia il numero 28 della speciale classifica dei bomber della storia della Serie A. Per lui 142 reti, che lo pongono accanto a gente come Bobo Vieri e Paolo Pulici. Ma la voglia di gol dell’ex centravanti è talmente tanta che l’ha portato a giocare e a segnare…anche dall’altra parte del mondo.

Che Marco Di Vaio, attaccante tecnico e rapidissimo, fosse nato per regnare nell’area di rigore avversaria lo capiscono presto alla Lazio, il club in cui cresce e di cui non ha mai smesso di essere un grandissimo tifoso. Nella stagione 1993/94 Dino Zoff, uno che qualcosa di attaccanti ne sa, lo va a pescare nella primavera allenata da Mimmo Caso e lo fa esordire sia in Coppa UEFA che in Coppa Italia.

L’anno dopo a Formello arriva Zdenek Zeman, che in Di Vaio vede un fiuto del gol molto ben sviluppato. Il Boemo regala all’attaccante anche l’esordio in campionato e a fine stagione il totale parla di 13 presenze a 4 gol, uno di clamorosa bellezza al Trabzonspor in Coppa Uefa!

 

La Lazio, però, sta diventando grandissima e non può garantire a Di Vaio lo spazio in campo necessario per crescere. E la società di Cragnotti non può permettersi di tenerlo troppo spesso in panchina, quindi lo cede per due anni in prestito, prima al Verona (7 partite, una rete) e poi al Bari (3 gol in 28 presenze). 

Che stagioni a Salerno

Nel 1997 arriva però un’offerta irrinunciabile. La Salernitana del presidente Aliberti, guidata da Delio Rossi, fa le cose in grande e punta alla promozione in Serie A, cinquant’anni dopo l’unica presenza nella massima serie. E per i gol si affida a Di Vaio, pagandolo cinque miliardi di lire, una cifra che all’epoca per la categoria cadetta rappresentava il primato di spesa.

Soldi spesi benissimo, verrebbe da dire, visto che non solo i granata vincono agevolmente il campionato con il record di punti (72), ma oltre alla promozione festeggiano anche l’impresa del centravanti, che si aggiudica il titolo di capocannoniere di Serie B con 21 gol.

La stagione 1998/99 è invece dolceamara. La Salernitana retrocede tra le polemiche all’ultima giornata, ma Di Vaio si fa vedere anche nella massima serie. Per lui 12 gol, che gli valgono la permanenza personale tra i grandi, visto che lo acquista il Parma.


I tre anni al Tardini sono dal punto di vista realizzativo tra i migliori della carriera di Di Vaio. Per lui 56 gol in 125 partite, con tanto di record personale nella stagione 2001/02, conclusa con 22 gol totali. Anche la bacheca si arricchisce, con la Supercoppa Italiana 1999, vinta contro il Milan, e la Coppa Italia 2001/02, arrivata al termine di una tiratissima doppia finale contro la Juventus.

Con la maglia del Parma Di Vaio ottiene anche le prime convocazioni in Nazionale, facendo il suo esordio con la maglia azzurra nel settembre 2001 a Piacenza, nell’amichevole contro il Marocco. Per il primo gol, il centravanti romano dovrà aspettare il 2003, nel 4-0 all’Azerbaijan a Reggio Calabria. Addosso, però, Di Vaio ha già un’altra maglia: quella della Juventus.

La chiamata di Lippi

Marcello Lippi lo vuole in bianconero e nel 2002 viene accontentato, trovandoselo a disposizione qualche settimana dopo che Di Vaio aveva rischiato di soffiargli la Supercoppa Italiana con un gol in finale. Alla Juventus Di Vaio non ha tantissimo spazio, ma riesce comunque a prendersi le sue belle soddisfazioni. Al termine della prima stagione arriva il primo scudetto della sua carriera, a cui contribuisce con 7 reti in 26 partite.

Meno fortunata la prima esperienza in Champions, in cui segna 4 gol, ma assiste dalla panchina, senza avere la possibilità di presentarsi dagli 11 metri, alla sconfitta in finale a Manchester contro il Milan.

L’anno successivo segna ancora di più e vince la Supercoppa Italiana, ma la Juventus decide di cederlo al Valencia. Al Mestalla resta un anno e mezzo, facendo bene nella prima stagione (vincendo anche la Supercoppa Europea con Ranieri in panchina) e rimanendo fuori dai titolari nella mezza successiva. Il 2006 lo passa tutto nel Principato di Monaco, segnando poco, per poi tornare in Italia e trascorrere un anno e mezzo al Genoa, contribuendo al ritorno del Grifone in Serie A e alla salvezza nella stagione successiva.

Di Vaio calcia in diagonale con il sinistro!
Nell’estate 2008, a 32 anni, Di Vaio, considerato ormai sul viale del tramonto, viene ceduto in prestito al Bologna. A Genova non sanno ancora che al Dall’Ara il centravanti romano troverà non solo l’acquisto definitivo, ma anche e soprattutto una seconda giovinezza. Nelle quattro stagioni, contro ogni pronostico calcistico in rossoblu arrivano 66 reti, la fascia di capitano e l’amore di tutti i tifosi del club e della città, che lo insignisce addirittura del Nettuno d’Oro.

Marco e Joey

Nella prima stagione Di Vaio batte anche il suo record di realizzazioni stagionali, andando a segno 25 volte, 24 delle quali in Serie A, contribuendo alla salvezza della squadra emiliana. E solo un gol lo separa da Ibrahimovic, capocannoniere di quell’edizione del campionato.

Quando lascia il Bologna nel 2012, Di Vaio decide di provare un’esperienza nuova e abbastanza inusuale: diventa infatti l’attaccante dei Montreal Impact di Joey Saputo. Le tre stagioni in MLS, le ultime della sua carriera, sono ricche di gol, portano in dote due coppe nazionali canadesi, ma soprattutto fanno un regalo insperato a lui e al Bologna. Nel 2014 il presidente del club acquista anche il Bologna, che nel frattempo è retrocesso in B. Di Vaio torna, stavolta da club manager, giusto in tempo per la riconquista della massima serie.

Nel corso degli anni successivi, il suo ruolo diventerà quello di responsabile dell’area scouting della società felsinea e, soprattutto, di uomo di assoluta fiducia della proprietà. La posizione giusta per chi il mondo, nel suo piccolo, l’ha girato. E dovunque è andato ha lasciato il segno…

*Le immagini dell'articolo sono, in ordine di pubblicazione, di Studio FN ed Adriana Sapone, entrambe distribuite da AP Photo.

May 18, 2020
Ermanno Pansa
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La Champions con il Salary Cap: quante rivoluzioni tra le big

Si può creare un modello di Champions League simile ai maggiori campionati americani? L’introduzione di un Salary Cap quanto cambierebbe il calcio europeo? Tante domande che potrebbero diventare sempre più attuali viste le condizioni attuali del calcio e dello sport in generale.

Abbiamo deciso di prendere in esame il modello “NFL” del Salary Cap, leggermente diverso da quello adottato in NBA. Le franchigie del Football americano non possono superare il limite imposto, ma, a differenza delle ferree regole della Lega di basket più famosa al mondo, possono gestire il loro monte ingaggi come preferiscono.

Nessun limite alle offerte presentate ai giocatori, così ogni società potrà decidere come gestire i propri fondi. Fissiamo un livello di tassazione costante (50%) per i Paesi dai quali provengono le sedici squadre degli ottavi dell’edizione 2019/2020, comprese quelle, come il Valencia, che sono state già eliminate. Impostando un monte ingaggi di cento milioni di euro netti per ogni partecipante alla Champions, il calcio europeo subirebbe uno scossone tutt’altro che indifferente.

Quanti tagli tra le big

A risentirne sarebbero soprattutto le due big del calcio spagnolo. Barcellona e Real Madrid sono, infatti, i due club con il tetto ingaggi più alto d’Europa. Il Barca, che garantisce 50 milioni di euro netti a stagione a Leo Messi, ogni anno spende 265 milioni netti negli ingaggi dei suoi calciatori. I blaugrana dovrebbero così ridurre del 60% il loro monte stipendi, ritrovandosi praticamente con le spalle al muro.

Cedere Messi o ricostruire un nuovo gruppo con tanti giovani intorno all’asso argentino? Ricostruire con contratti meno pesanti come quelli di Ter Stegen, Semedo, Lenglet e Arthur (15 milioni netti in totale) è possibile, ma costringerebbe il Barça a tanti cambiamenti.

Discorso molto simile a Madrid, dove il Real spende oltre 215 milioni di euro netti per gli stipendi dei calciatori. In casa madridista però può essere meno complessa la ricostruzione, partendo dalla cessione di diversi giocatori che hanno deluso. Da Hazard a Bale, passando per chi sembra fuori dal progetto come Marcelo, Modric, James e Jovic, i Blancos risparmierebbero oltre 60 milioni di euro.

Con la rinuncia ad altri contratti pesanti come quelli di Benzema, Kross e Isco il Real potrebbe rientrare nel monte ingaggi dei cento milioni. Tutto ciò, comunque, bloccherebbe qualsiasi operazione per Florentino Perez, che da mesi sogni sogna di portare a Madrid Kylian Mbappé.

Altre cinque squadre dovrebbero fare seriamente i conti con il Salary Cap, a cominciare proprio dal PSG di Mbappé. I parigini attualmente sono 70 milioni oltre il monte ingaggi, ma diversi contratti pesanti sono in scadenza e potrebbero essere rinegoziati. Da Cavani a Thiago Silva, da Marquinhos a Kimpembé, a Parigi ci sono diversi giocatori che potrebbero essere rimpiazzati senza pesare troppo sull’economia tecnica della squadra. Inevitabile escludere grossi affari come il riscatto di Icardi e, soprattutto, la permanenza della coppia Neymar-Mbappé.

Mbappe in Champions a Dortmund!

Anche le big di Premier dovranno cambiare i loro parametri. City, Liverpool e Chelsea dovranno ridurre il loro monte ingaggi di circa 50 milioni di euro. Tra le tre, chi avrebbe la vita più facile è sicuramente il Chelsea che dopo aver dato il via a un nuovo progetto può puntare su diversi giovani a basso costo rinunciando a diversi ingaggi pesanti.

Sessanta milioni è ciò che dovrà risparmiare invece il Bayern Monaco. Non riscattando giocatori come Coutinho e Perisic e cedendo dei big dall’ingaggio pesante come Jerome Boateng i bavaresi potrebbero ridurre sensibilmente la spesa.

Chi potrà spendere

Tra le top 16 di questa Champions, solo sette squadre rientrerebbero nel Salary Cap da 100 milioni netti. Due squadre dovrebbero rivedere i loro ingaggi, e stiamo parlando di Juve e Atletico. I bianconeri rinunciando a CR7 potrebbero mantenere intatto il gruppo attuale, o in alternativa, più verosimile come ipotesi, cedere giocatori con contratti pesanti come Rabiot, Ramsey e Danilo.

L’Atletico Madrid invece con i suoi 105 milioni di monte ingaggi dovrà semplicemente cedere un paio di riserve per rientrare nell'ipotetico Salary Cap. Il Borussia Dortmund spende 95, ma non è ancora conteggiato lo stipendio del fenomeno Haaland, il Tottenham circa 85 milioni di euro netti e potrebbe permettersi un acquisto top, senza dover rinunciare alle stesse, attualmente in rosa.

Chi potrebbe veramente fare un salto di qualità sono le altre cinque protagoniste, a cominciare dal Napoli. Gli azzurri hanno un monte ingaggi di circa 55 milioni di euro netti, che permetterebbe a De Laurentiis di decidere se rinforzare la squadra con diversi acquisti o se puntare su un nome come Mbappé o Neymar, in uscita da Parigi a queste condizioni. Discorso simile per il Valencia, che con un monte ingaggi di 50 milioni netti può fare un mercato di altissimo livello.

I progetti di Lipsia e Lione potrebbero subire una sterzata decisiva, visto che entrambe avrebbero un budget di stipendi pari a 60 milioni di euro da investire per rinforzare la squadra. Chi però può veramente dare vita a una rivoluzione e puntare a qualsiasi campione è l’Atalanta, che con il suo monte ingaggi totale di 36 milioni, al lordo, a stagione può blindare i suoi gioielli, allungare la rosa e inserire tree fuoriclasse per puntare all’élite del calcio europeo.

Probabilmente, nel quadro così delineato, la Juventus sarebbe la naturale favorita nei pronostici calcio e la quota vincente dell'Atletico sarebbe davvero allineata con quelle di Real e Barcellona!

*La foto di apertura dell'articolo è di Kirsty Wigglesworth; la seconda di Martin Meissner, entrambe distribuite da AP Photo.

May 17, 2020
Ermanno Pansa
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Il club dei 100: Dario Dainelli!

Diciassette anni di Serie A, giocando sempre almeno quindici partite a campionato, per un totale di 446 presenze nel massimo campionato tricolore, che lo rendono il trentaquattresimo nella speciale classifica di tutti i tempi. Tutto questo, e molto di più per le squadre di cui ha vestito la maglia, è Dario Dainelli.

L’ex difensore classe 1979, attualmente supervisore dell’area tecnica della Fiorentina, ha cominciato a calcare i campi della Serie A quando il re dei bomber era Batistuta (nato un decennio prima di lui) e ha detto addio al palcoscenico più importante nel 2018, quando aveva già esordito e segnato Pietro Pellegri, venuto al mondo quasi ventidue anni dopo. Insomma, una vera e propria istituzione del calcio italiano.


Dopo quella di Pinzi, raccontiamo la carriera del difensore toscano. Dainelli esordisce in Serie A nel febbraio 2001, contro la Roma di Fabio Capello che si avvia a vincere lo Scudetto. Il Lecce lo ha prelevato in comproprietà dall’Empoli, che negli anni precedenti lo aveva girato in prestito prima al Modena, poi alla Cavese e infine alla Fidelis Andria. Dalla C alla A, senza passare per il campionato cadetto.

Sembra un azzardo, ma la scelta paga. E il fatto che la Serie B Dainelli la vedrà (per sua scelta) solamente diciotto anni dopo, nell’ultima stagione in carriera con la maglia del Livorno, la dice lunga su quanto il destino del centrale sia legato a doppio filo con il massimo livello della piramide calcistica tricolore.


Quell’anno il Lecce si salva grazie alla classifica avulsa, mentre l’anno successivo retrocede. Dainelli però non è al Via del Mare, perché l’Empoli se l’è ripreso a l’ha venduto al Brescia. In squadra con Roby Baggio, Guardiola e Toni non trova molto spazio e quindi viene ceduto a metà stagione all’Hellas Verona, dove conquista una maglia da titolare nella difesa a tre di Malesani, ma senza impedire il ritorno in B degli scaligeri. Poco male, perché dopo le buone prestazioni al Bentegodi, il Brescia lo riporta a casa e per due anni Dainelli sarà uno dei perni della retroguardia delle Rondinelle, che ottengono un nono e un undicesimo posto. 

Una vita in Viola!


Per il difensore però è ora di spiccare il volo e nel 2004 l’occasione… veste di viola. La Fiorentina è appena tornata in A dopo il fallimento e per 2,5 milioni si regala la comproprietà di Dainelli. Che siano soldi ben spesi lo si capisce subito, visto che arriva anche il suo primo gol in Serie A, contro il Cagliari all’ultimo minuto. In quella stagione pazzesca, il toscano realizza una piccola impresa: a fine anno le reti saranno 4, più di un terzo di quelle segnate in carriera nella massima categoria (11). I viola lo acquistano definitivamente e c’è spazio per fare meglio.

Dopo la stagione di Calciopoli, quando la penalizzazione impedisce alla Fiorentina di presentarsi alla Champions successiva, arriva un’annata da sogno. Grazie anche a lui, sono solo 31 i gol subiti dalla squadra di Prandelli, che si laurea miglior difesa del campionato. Anche stavolta ci sono i 15 punti di penalizzazione a impedire il sogno Champions, che però non può più essere rimandato: nel 2008 arriva l’esordio tra le grandi del continente e l’anno dopo anche il primo (e unico) gol europeo per Dainelli, contro il Debreceni.

Ormai il centrale è capitano della Viola, ma persino le storie d’amore più belle hanno una fine; nel gennaio 2010 viene ceduto al Genoa, dopo cinque anni e mezzo al Franchi e 141 gettoni in A.

Il toscano rimane in rossoblu per due anni, accumulando 57 presenze, prima di partire di nuovo a gennaio e di nuovo in direzione Verona. Stavolta però ad accoglierlo non c’è l’Hellas ma il Chievo, che sarà la sua nuova casa per sei anni e mezzo. Con la maglia dei clivensi, nonostante un grave infortunio nel marzo 2016, Dainelli riesce a superare il muro delle 400 presenze in A. La storia è da brividi, perché il difensore raggiunge la cifra tonda proprio alla prima apparizione dopo la rottura del legamento crociato del ginocchio.

La festa, poi viene completata dal suo Chievo. I Mussi Volanti quel giorno ricevono al Bentegodi l’Inter di De Boer, che, a sorpresa per le scommesse Serie A, torna a casa con due gol sul groppone, con uno stadio intero in delirio. L’ultimo inchino di Dainelli in maglia Chievo e in Serie A sono i novanta minuti giocati contro il Benevento nel maggio 2018. Poi un anno a Livorno, con in panchina il suo ex compagno di squadra Lucarelli, e il ritorno a Firenze nelle vesti di dirigente.


L'ultimo capitolo da raccontare, nella storia calcistica di Dainelli riguarda ovviamente la nazionale. Il difensore soffre parecchio la concorrenza in un periodo in cui la scuola difensiva tricolore ha ancora in azzurro i grandi vecchi (Cannavaro) o sta per lanciare le nuove pedine insostituibili (Chiellini). Dario riesce ad essere convocato ed esordisce nell’amichevole a New York contro l’Ecuador del giugno 2005.

Probabilmente il centralone di Pontedera avrebbe meritato più spazio nella gestione azzurra di Cesare Prandelli (abbiamo esordito ai Mondiali del 2014 con Paletta titolare...) ed un'unica presenza per un calciatore così continuo non è di certo un grande score, ma almeno una piccola grande soddisfazione!

*L'immagine di apertura dell'articolo è di Carlo Baroncini (AP Photo). 

May 17, 2020
Ermanno Pansa
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ePremier League Invitational, Maddison riporta le Foxes sul tetto d’Inghilterra

 

Una full-immersion nel mondo degli e-sports che ha coinvolto anche la Premier League. In attesa di tornare in campo per chiudere la stagione dominata dal Liverpool, i fans inglesi si sono concentrati sul torneo di FIFA20. Venti rappresentanti delle venti squadre della Premier si sono sfidati dal cinque al nove maggio.

A trionfare è stato il trequartista del Leicester James Maddison, protagonista di un cammino tortuoso, partito dal primo turno preliminare. Il sorteggio, infatti, ha costretto il numero 10 delle Foxes a giocare subito il preliminare contro l’attaccante del Bournemouth, Callum Wilson. Il vincitore avrebbe strappato uno dei quattro pass rimanenti per gli ottavi di finale, e Maddison ha dominato il match contro il numero 13 delle Cherries.

Il cammino dagli ottavi

Un nettissimo 8-1 che ha permesso al trequartista inglese di passare agli ottavi di finale dove il numero dieci delle Foxes è stato messo in grande difficoltà da Max Meyer. Il centrocampista tedesco del Crystal Palace nel match di ottavi di finale è passato due volte in vantaggio, grazie ai gol dei "colleghi" Townsend, prima e Zaha poi. Il momentaneo 1-1 di Vardy e le due reti nel finale di Barnes e Ayoze Perez hanno permesso al Leicester di strappare il pass per i quarti di finale.

Vittorie di misura e sofferenza, sembra di rivivere la cavalcata della Foxes di Claudio Ranieri nel 2016. Nei quarti di finale un’altra gara durissima contro l’attaccante classe 2000 del Southampton, Michael Obafemi. I Saints sono passati avanti 2-0 grazie alle reti dello stesso Obafemi e di Hojbjerg, prima della grande rimonta di Maddison che è riuscito a ribaltare il risultato fino al 3-2.

Nei minuti finale la rete di Danny Ings ha pareggiato i conti, portando il match ai tempi supplementari, dove con la regola del golden goal proprio Maddison ha realizzato il gol vittoria per le Foxes strappando il pass per la semifinale. Un altro 4-3, forse ancor più sofferto e sorprendente, ha regalato al Leicester e a Maddison la qualificazione alla finale.

Contro l’attaccante inglese dell’Aston Villa, Keinan Davis, il trequartista delle Foxes è andato sotto nel primo tempo prima di trovare la rete del pareggio firmata da Jaime Vardy. Nel secondo tempo le due reti firmate dallo stesso Davis e da Jack Grealish hanno portato i Villans sul 3-1 a nove minuti dalla fine.

Quando sembrava tutto finito, Maddison è riuscito a riprendere la partita segnando prima con il suo “avatar”, poi con il mediano nigeriano Wilfried Ndidi per conquistare i tempi supplementari, per il delirio più totale degli appassionati delle scommesse esports. Proprio come nei quarti di finale, Maddison è riuscito a partite forte nell'extratime e dopo soli quattro minuti è riuscito a realizzare il gol vittoria grazie a Jaime Vardy. 

La finalissima

Dall’altra parte del tabellone in semifinale si sono affrontati il difensore centrale dello Sheffield, John Egan e il terzino del Norwich, Max Aarons. Dopo i primi 45 minuti l’uno a uno ha lasciato aperto le porte a un secondo tempo durissimo. Le reti di Norwood prima e Pukki poi hanno portato all’avvincente ripresa decisa dal gol di Lundstram per lo Sheffield, con Egan che si è qualificato per la finale proprio contro Maddison.

Match decisivo che, però, non ha avuto storia. Dopo le tre partite durissime dagli ottavi in poi, il trequartista delle Foxes è riuscito a dominare la finale contro il difensore centrale dello Sheffield. Nei primi 25 minuti il Leicester era già avanti di due gol grazie alla doppietta di Jaime Vardy, uomo decisivo per Maddison. Il numero nove delle Foxes infatti ha sempre segnato in ogni partita di questo torneo, ed ha firmato la finalissima con due reti contro lo Sheffield.

A inizio secondo tempo la doppietta di Iheanacho ha messo in cassaforte la vittoria per Maddison, che è riuscito anche a trovare la rete del 5-0 con il suo “avatar”. Inutile negli ultimi minuti la rete del definitivo 5-1 per lo Sheffield realizzata da Fleck. Un successo per il Leicester ma un successo anche per la Premier League, capace di intrattenere i propri fans!!!

*L'immagine di apertura dell'articolo è di Rui Vieira (AP Photo).

May 16, 2020
Ermanno Pansa
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Se l'avversario è il Larissa... il destino della sfida è già segnato!

Nella letteratura sportiva, le amichevoli disputate nel corso degli anni rappresentano un pozzo di sceneggiature da Far West dalle quali attingere a piene mani. Facile ipotizzare le risse tra i portuali inglesi - chiamati a diffondere il verbo calcistico alla fine del Milleottocento - e gli autoctoni, battaglieri ma incapaci. Difficile smentire le cronache del secolo successivo che raccontano partite senza nulla in palio, declinare nel giro di un’azione verso sanguinose battaglie.

Il repertorio sulle amichevoli più violente della storia, apre il sipario sulla partita di calcio disputata nel carcere di Cieneguillas, in Messico. Il Cartello del Golfo contro quello dei Los Zetas: metti 22 narcos a confronto su un campo di calcio, e il risultato è assicurato: sedici morti e ventidue feriti. Del risultato finale, non è dato sapere.

All’inizio degli anni ’20 - e parliamo di un secolo fa - il Bologna è una formazione in rampa di lancio. Alla fine del campionato si va in tournée per racimolare qualche soldo e confrontarsi con il calcio d’oltre oceano. Ci si imbarca sul piroscafo Conte Rosso, dopo diciotto giorni di navigazione, si attracca in Brasile. Qui il Bologna gioca per la prima volta sotto la luce dei riflettori, apprezzando la tecnica dei calciatori brasiliani. Cambiando nazione, cambia la musica.

Il tango è il momento più alto di romanticismo danzante, ma in Argentina non fanno troppi complimenti; l’amichevole contro la Nazionale albicecelste diventa in poco tempo una corrida: Luis Monti ha origini romagnole, e viene da una famiglia di calciatori. Lo chiamano doble ancho, ovvero armadio a due ante, e il motivo è facile da scoprire. Il difensore dà la caccia a Schiavio per tutta la partita - per tutto il campo - lo randella ogni qual volta ne capita l’occasione: Angelino non se la tiene, e alla fine scoppia la rissa.

L’oriundo romagnolo e l’attaccante del Bologna diventeranno amici vincendo con la Nazionale Italiana il Mondiale del 1934 a Roma: tesserato dalla Juventus, Monti continuerà tuttavia a tartassare l’attaccante durante le accese sfide di campionato.

Leonidas e Bagicalupo

Il Sudamerica è un punto di arrivo anche per il Grande Torino che, nell’estate del 1948, approda in Brasile. E’ un modo per andare alla scoperta del Paese che ospiterà la successiva edizione del Mondiale: purtroppo i giocatori granata non arriveranno mai a giocare quel torneo, la sciagura di Superga li renderà immortali, tanto quanto i protagonisti uruguaiani del Maracanazo.

Ma Valentino Mazzola e compagni in Brasile confermano la loro fama mondiale; pareggio contro il Palmeiras, sconfitta di misura contro il Corinthians, rotondo successo contro la Portuguesa. L’ultima sfida è contro il São Paulo che nel primo tempo va sotto di due reti; i padroni di casa accorciano le distanze, ma giocano con grande nervosismo.

I brasiliani al centro dell’attacco schierano Leonidas, il centravanti è sul viale del tramonto, ma è stato il più grande attaccante degli ultimi vent’anni: ha vinto il titolo con il Vasco da Gama e col Botafogo, gioca nel Flamengo quando in Europa imperversa la Seconda Guerra Mondiale, poi sceglie il São Paulo per chiudere la carriera.

Ha giocato due Mondiali, nel 1934 ha 21 anni, e segna l’unico gol del Brasile che viene eliminato dalla Spagna al primo turno. Nel 1938 è la stella della Nazionale verdeoro; la sua assenza nella semifinale contro l’Italia è a tutt’oggi un mistero: alcuni dissero che il tecnico Pimenta scelse di farlo risposare in vista della finale con l’Ungheria, altri affermarono che il giocatore non trovò l’accordo con la federazione per il premio della vittoria finale. Leonidas ha ormai 35 anni, vive quasi di ricordi ma non vuol piegarsi all’incedere del tempo.

Si lancia verso la porta, si allunga il pallone ma non ferma la sua forza d’impeto travolgendo Bacigalupo. Il portiere granata si rialza e lo colpisce, il brasiliano non fa complimenti, e replica. Volano schiaffi, arriva il fischio finale.

A livello internazionale, l’amichevole più chiacchierata della nazionale Italiana risale al 1958. E’ in programma la sfida di ritorno per la qualificazione ai Mondiali, gli azzurri si presentano a Belfast, per sfidare l’Irlanda del Nord. In campo ci sono tutti, tranne l’arbitro ungherese Zsolt, rimasto a Londra per la chiusura dell’aeroporto: c’è nebbia, gli aerei non decollano. A questo punto, la due selezioni decidono di giocare un’amichevole.

Arbitra l’irlandese Mitchell, e non è una buona scelta. I cinquantamila spettatori sono indispettiti, alla fine - tra un insulto e l’altro - diventa una sfida tra protestanti e cattolici: i protestanti menano, i cattolici protestano. Ma menano pure loro. Il risultato di parità dovrebbe accontentare tutti, ma al fischio finale scoppia un improvviso parapiglia: la successiva invasione di campo degenera in una guerra senza quartiere.

 

Nelle città dove ci sono almeno due squadre di calcio, non può regnare il monoteismo calcistico. Da sempre, i club vanno sono in posizione avversa e ostinata. Neanche un mini torneo per ricordare la memoria di un presidente - di per sé, una nobile iniziativa - riesce a preservare giocatori e spettatori dalla competizione sportiva: accade a Roma, siamo nell’estate del 1993, tra le due formazioni della capitale e il Cagliari, terzo incomodo. Il mini derby dura soltanto 45 minuti, ma bastano per darsele di santa ragione. Alla fine, vince la Lazio, ma è un dettaglio che ricordano in pochi.

Le amichevoli estive sono spesso deleterie, non sempre le squadre arrivano con la stessa preparazione, e con le stesse intenzioni; ci sono giocatori che cercando di conquistare il posto da titolare, altri innervositi dal calcio mercato, altri ancora che capiscono di aver perso la titolarità del ruolo a vantaggio dei nuovi arrivati: tutto lecito.

1999: Perugia - Libia!

Ma quello che accade nell’incantevole cittadina di Norcia rischia di far esplodere una guerra diplomatica. Siamo nell’estate del 1999, il Perugia di Mazzone si prepara per la nuova stagione e affronta in amichevole la Nazionale della Libia; i rapporti tra il Presidente Gaucci e il leader libico Gheddafi sono ottimi, tanto che il figlio dello statista africano - pochi anni dopo - arriverà a vestire la maglia del Grifone. Ma Saadi Gheddafi oggi è in panchina. L’impianto dell’hotel Salicone è blindato, ci sono militari ovunque.

C’è un "militare" anche sulla panchina della Nazionale libica, è Eugenio Bersellini, allenatore all’antica che non vuol minimamente perdere credito agli occhi del suo Capo di Stato. La Libia prima del calcio d’inizio prega. E poi mena, senza scrupoli, senza motivo. La partita dura appena 17 minuti. Poi esplode una rissa senza precedenti: i libici brandiscono le bandierine e colpiscono chiunque capiti a tiro, i giocatori del Perugia non si tirano indietro. Anche qui, è una lotta senza quartiere, con 40 persone che si affrontano senza remore.

Il console libico - in tribuna - è sconcertato, accanto a lui, il presidente Gaucci ha le mani sugli occhi, tanta è la vergogna. Alla fine, l’unico a salvarsi è il figlio di Gheddafi che - scortato dai Carabinieri - guadagna incolume la via per gli spogliatoi.

Ci sono amichevoli che non saranno mai tali, e amichevoli che nascono male, come quella per le scommesse calcio affrontata nell’estate del 2010 dal Brescia: se l’avversario di turno è il Larissa... il destino della sfida è già segnato.
 

 
May 16, 2020
simone pieretti
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Giornalista, scrittore, innamorato di futbol. Scrive per trasmettere emozioni e alimentare sogni. Il calcio è una scienza imperfetta: è arte, è musica, è poesia. E' un viaggio nel tempo che ci fa tornare bambini ogni qual volta diamo un calcio a un pallone.

 

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Il business model di DAZN dopo 3 anni dal suo lancio sul mercato italiano

Nell’estate del 2018 gli appassionati di calcio hanno scoperto un nuova modalità di fruizione degli eventi sportivi (a partire dal calcio). Con l’arrivo in Italia del marchio DAZN (specializzata nella trasmissione live on demand), inizialmente gruppo Perform, il pallone è entrato in una nuova era tecnologica (anche se il primo match, Lazio vs Napoli, è diventato famoso per il fastidioso fenomeno del “buffering”). 

Lo sbarco in Italia

La forza internazionale del gruppo DAZN

Il mistero dei dati audience DAZN 

Lo sbarco “win-win” su SKY

La strategia di DAZN

Prima di acquisire nell'estate 2021 l'esclusiva di 7 incontri di A e la coesclusiva delle rimanenti 3 gare per ciascun turno di campionato, ripercorriamo i primi passi della azienda Len Blavatnik sul nostro territorio! 

Azzeccata l'idea di seguire gli incontri di Toretto Scardina! Facile evidenziare come, mentre da una parte sono mutati i rapporti di forza con SKY, dall'altra, ad esempio, per i dati di ascolto, cambiamenti veri e propri non ce ne sono stati!

Lo sbarco in Italia

La realtà internazionale in esame si è aggiudicata, in via esclusiva, la trasmissione di 114 partite della Serie A (tre per ogni turno di campionato) fino almeno alla stagione 2021, puntando a conquistare il bacino di 2,5-3 milioni di utenti che usufruiscono periodicamente di servizi e app pirata.

Nel complesso DAZN ha investito 193 milioni di euro, su base annua, per i diritti della Serie A-Tim (1,69 milioni di euro per singolo match) e 26 milioni per quelli della Serie BKT (388 partite, di cui 340 in esclusiva per stagione + playoff/out, ad eccezione delle due finali condivise con il competitor RAI). Anche per la “cadetteria” il contratto è su base triennale (2018-2021). 

Il giorno del sorteggio dei calendari!

I numeri di DAZN sono attualmente pari a 3,5 milioni di utenti stagionali (rilevamento stimato ad ottobre 2019), con una forte crescita grazie anche alla sinergia con Sky (a partire da settembre 2019). Considerati i costi dei diritti tv sportivi (solo con il “prodotto calcio” si superano i 219 milioni di euro), gli investimenti massicci a livello pubblicitario e i costi gestionali, è difficile immaginare un break even nel 2021 (al termine del primo contratto con Serie A e B). 

Nel 2019 DAZN Italia ha gestito più di 79 milioni di ore di streaming (pari ad oltre 9mila anni di streaming), mentre nel mondo si è superato il tetto di oltre 500 milioni di ore di streaming. 

La forza internazionale del gruppo DAZN

La piattaforma di sport OTT (“Over The Top)” fa parte oggi di DAZN Group leader mondiale nello sport in streaming, con quartier generale nel Regno Unito e 2.600 dipendenti in oltre 24 paesi. Si occupa di tutti gli aspetti che portano i tifosi ad interagire con il loro sport preferito: dalla pianificazione alla produzione televisiva, passando per la distribuzione e la commercializzazione dei contenuti. DAZN attualmente è fruibile su smart tv, smartphone, tablet, console di gioco e pc.

A partire dal 2016, anno di lancio del servizio sul mercato DACH (l’acronimo sta per Germania, Austria e Svizzera) e Giappone, DAZN è arrivato anche in Canada, Stati Uniti, Italia, Albania, Spagna (dal 28 febbraio 2019) e ad agosto 2019 in Brasile.

Nei mercati in cui è presente, detiene alcuni dei principali diritti di eventi sportivi, come la Serie A (tre partite a settimana) e la Serie B in Italia, la MotoGP in Spagna (da questa stagione, anche in Italia) e la J-League in Giappone. Oltre ad una vasta offerta di eventi di combattimenti, dalla boxe alla MMA (Mixed Martial Arts).

Conor in action!

Il mistero dei dati audience DAZN 

Da sempre DAZN ha avuto un grande riserbo sui dati di audience, ma questa è una “criticità” presente in tutto il mondo OTT. Ad onor del vero nessuna piattaforma, compresa ad esempio NBA Pass, ha mai pubblicato il numero degli utenti collegati durante lo streaming degli eventi.

Unica eccezione DAZN lo scorso 21 settembre 2019 in occasione del “derby” Milan-Inter. Nel corso di quel fine settimana,  la piattaforma OTT, in soli due giorni, ha gestito lo streaming per oltre 3 milioni di ore e il derby è stata la partita con il maggiore numero di ore da quando è stato lanciato il servizio in Italia. 

Sempre in Italia si stima che, in occasione di Inter vs Juventus (27 aprile 2019), sbloccata dall'eurogol di Nainggolan per le scommesse italiane, sia stato superato il tetto del milione di abbonati. 

L'esultanza di Nainggolan per il gol alla Juve!

Il calcio si conferma il punto di maggiore interesse degli utenti, ma se si analizza la top 10 degli eventi streaming nel 2019 ben 4 sono collegati alla boxe (con eventi top) e cresce anche il peso della MMA (grazie ad icone del calibro di Khabib Nurmagomedov e Conor McGregor). 
 

Lo sbarco “win-win” su SKY

A settembre 2019, è stato aperto, sul canale 209 di SKY, DAZN1 un channel lineare che contiene una selezione di alcune eventi della piattaforma sport OTT. L’obiettivo di questo canale è stato di natura distributiva, con la possibilità di ampliare il pubblico di riferimento (è stato “regalato” a 1,5 milioni di clienti della pay-tv), con la volontà di far conoscere DAZN anche a coloro che non avevano avuto ancora modo di scoprirla. 

Tutti coloro che accedono a DAZN1, infatti, devono registrarsi attraverso la piattaforma DAZN. In sintesi un’operazione “win-win” per entrambi gli operatori coinvolti.
Anche sul numero degli abbonati, la filiale italiana del gruppo UK non ha mai comunicato. Come precedentemente ricordato, gli abbonati stagionali sono circa 3,5 milioni. 

Pochi mesi fa, il network CNBC ha stimato circa 8 milioni di abbonati al servizio DAZN nel mondo.
Per quanto riguarda l’audience, la rilevazione del canale DAZN1 (su Sky) è affidata a Auditel mentre quella della piattaforma OTT è di Nielsen (anche i dettagli su come questa rilevazione viene effettuata a livello tecnico, non vengono condivisi con la stampa). 

La strategia di DAZN

In Italia, DAZN non ha mai parlato di dati di break even, perché il primo investimento è stato effettuato sul triennio 2018-2021. Solo alla fine di questo periodo si sarebbe deciso il prossimo step di crescita. 

DAZN ha bisogno di contenuti sportivi e non può, così come Sky, fare a meno del prodotto calcio. Già si parla di uno sconto (nella misura del 20-25% nel 2021) per il futuro, ma solo al termine della prossima stagione sarà possibile definire scenari più vicini alla realtà. Non è comunque da escludere la contrazione del valore di questi diritti.

Le OTT sono una novità assoluta e un fenomeno ormai mondiale. Ci sono però addetti ai lavori che parlano di futura “bolla” delle Over The Top. Certamente il mistero sui dati di audience di queste piattaforme non consente di comprenderne, fino in fondo, il loro reale valore nel mercato degli sport tv rights. 

*Il testo dell'articolo è stato curato da Marcel Vulpis, direttore di SportEconomy; le immagini sono distribuite da AP Photo. Prima pubblicazione 16 maggio 2020.

October 21, 2021
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The 888sport blog, based at 888 Towers in the heart of London, employs an army of betting and tipping experts for your daily punting pleasure, as well as an irreverent, and occasionally opinionated, look at the absolute madness that is the world of sport.

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Numero 12, storie di portieri che non restano a guardare


La maglia numero dodici. Oggi è il simbolo della vicinanza degli appassionati alla propria squadra e rappresenta il dodicesimo uomo in campo, è il vessillo che racchiude il senso di appartenenza di un popolo verso i colori sociali, l’amore, la passione degli ultras, e non solo. Ma un tempo quella maglia con lo stesso numero la si poteva trovare con estrema facilità buttando uno sguardo verso la panchina, indossata dal calciatore meno considerato dell’intera rosa. Eppure, sulla figura del portiere di riserva si potrebbe quasi scrivere un romanzo.

Quella del dodicesimo è una figura quasi mitologica, sacrificata in un angolo della panchina, con la radiolina all’orecchio per ascoltare i risultati dagli altri campi e annunciarli agli altri componenti della squadra. L’anti portiere di riserva è per distacco, Dino Zoff; 330 partite consecutive in campionato, ovvero - considerando la Serie A dell’epoca - undici campionati consecutivi senza mai saltare una partita.

Le sue vittime sacrificali, in ordine di tempo furono Massimo Piloni, Giancarlo Alessandrelli e Luciano Bodini. In verità, Alessandrelli ebbe la sua chance nell’ultima partita della stagione 1978-79; Juventus-Avellino, trentesima giornata di campionato: fa il suo ingresso in campo sul tre a zero, riesce nell’impresa di subire tre gol in ventisei minuti.

Le storie dei portieri di riserva di quell’epoca non si discostano molto le une delle altre, ma quella di Antonio Rigamonti è particolare; il Milan lo acquista dal Como per essere l’alternativa di Ricky Albertosi. I due si sono già sfidati nel campionato precedente, quando i lariani fecero visita ai rossoneri; ottanta mila sugli spalti, rigore per gli ospiti. Sul dischetto va il portiere, che infila Albertosi con un piatto destro calibrassimo. A San Siro finisce 2-2. Avrà anche giocato poco (12 partite in 4 anni) ma la soddisfazione di aver segnato al suo titolare Rigamonti se la porterà dietro per tutta la vita.

 

L'EPOCA DEL TURN OVER TRA I PALI

Altro storico personaggio passato per Milanello è Giulio Nuciari; baffo da “spaghetti western” e il record di 333 partite trascorse in panchina, un primato difficilmente superabile. In ogni caso, il dodicesimo di Terraneo, Piotti, Galli e Pagliuca alla fine potrà vantare due scudetti vinti - ovviamente da riserva - con Milan e Sampdoria.

Passano gli anni, ma le gerarchie tra i pali sono sempre le stesse; il ruolo del portiere non vuole concorrenza, gli allenatori preferiscono avere un titolare, e una riserva, senza mettere in contrapposizione gli estremi difensori della squadra. Bisogna tornare in casa Milan per trovare la prima vera staffetta tra i portieri: arriva alla fine degli anni ’80, con Arrigo Sacchi che sceglie di fare il turn over tra Giovanni Galli e Andrea Pazzagli.

Il primo gioca le partite di Coppa dei Campioni, il secondo viene schierato in campionato: alla fine il Milan alza la coppa vincendo la finale contro il Benfica, mentre in campionato s'impone il Napoli di Maradona. E’ il secondo tricolore per la formazione partenopea, che aveva già sfiorato di bissare il trionfo del 1987 nell’anno successivo: ma la squadra di Bianchi perde lo scontro diretto contro il Milan e crolla; nell’ultima trasferta di campionato contro l’Ascoli - dopo l’epurazione di quattro giocatori - nei minuti finali, l’allenatore del Napoli schiera il secondo portiere Raffaele Di Fusco. Nulla di strano, se non fosse che l’estremo difensore va a sostituire Careca al centro dell’attacco.

Negli anni ’90, il ruolo del portiere di riserva cresce e pian piano trova una propria dimensione grazie anche all’estensione del campionato di Serie A che passa da 16, poi a 18, infine a 20 squadre; a Carlo Cudicini bastano tre minuti per appropriarsi di una piccola porzione di storia biancoceleste.

Figlio d’arte, il giovane portiere scuola Milan arriva a Roma per fare la riserva di Luca Marchegiani. Ma contro il Cagliari, l’ex portiere del Torino viene espulso, e tocca a lui. La Lazio gioca in inferiorità numerica dal quarto minuto, ma trova ugualmente il doppio vantaggio. Nel finale il Cagliari accorcia, e Cudicini - a te minuti dalla fine - su un’uscita su Bisoli, si rompe i legamenti del ginocchio destro. Non è in condizioni di stare in piedi, dovrebbe uscire ma decide di restare tra i pali.

Sono centottanta secondi infiniti, ma saprà mantenere la propria porta inviolata prima di crollare per terra e uscire in barella contemporaneamente al fischio finale dell’arbitro. Un’altra riserva di lusso non può che essere Marco Ballotta al quale appartiene il record di giocatore più anziano ad aver disputato una partita di Champions League; l’ultima volta aveva 43 anni e 253 giorni con una sconfitta prevedibile a Madrid contro il Real per le quote calcio.

Il ruolo del portiere di riserva nelle nazionali ha visto spesso - e in corsa - cambi della guardia risolutivi. Dino Zoff gioca - e vince - l’Europeo del 1968 con il numero dodici sulle spalle, per poi lasciare nuovamente il posto ad Albertosi ai Mondiali messicani vinti dal Brasile di Pelè.

Il nome di Sergio Goycoechea resterà un incubo per i tifosi italiani, cullati nel sogno delle Notti Magiche. partito per fare la riserva di Nery Pumpido, si ritrovò titolare dopo l’infortunio del suo antagonista subito contro l’Urss. E’ arrivato a pochi centimetri dal vincere un Mondiale, quei centimetri che separarono la sua mano destra dal pallone scagliato dal dischetto dal tedesco Andy Brehme.

Anche il titolarissimo Luca Marchegiani ebbe un ruolo fondamentale ai Mondiali del 1994 partendo come portiere di riserva; l’espulsione di Pagliuca contro la Norvegia gli aprì le porte del torneo, giocò da assoluto protagonista le successive partite contro il Messico e la Nigeria, spalancò alla Nazionale la strada verso i quarti di finale, compiendo - ai supplementari - una parata sensazionale sulla minaccia del centravanti africano Yekini. Riserva, a chi?

*L'immagine di apertura dell'articolo è di Lionel Cironneau (AP Photo).

 
May 13, 2020
simone pieretti
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Giornalista, scrittore, innamorato di futbol. Scrive per trasmettere emozioni e alimentare sogni. Il calcio è una scienza imperfetta: è arte, è musica, è poesia. E' un viaggio nel tempo che ci fa tornare bambini ogni qual volta diamo un calcio a un pallone.

 

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Andrea Barzagli: quanti successi tra Juve e... Germania!

C’è chi nella vita trova l’America e chi invece…trova la Germania. Un paese che se non esistesse bisognerebbe inventarlo, almeno per quello che riguarda Andrea Barzagli. L’ex difensore, classe 1981 e attualmente collaboratore tecnico della Juventus, è uno dei calciatori più vincenti della sua generazione.

Oltre gli otto incredibili scudetti in maglia bianconera (un record condiviso solo con il suo alter-ego in campo, Giorgio Chiellini), tutte le altre soddisfazioni il toscano se l’è tolte in terra teutonica. E dire che un centrale come lui, che ha fatto scuola e che ora insegna movimenti e schemi a un certo De Ligt, era nato come centrocampista.
Barzagli, nato a Fiesole, sfugge ai radar della Fiorentina, forse proprio perché da ragazzo gioca in un ruolo non suo. O almeno, non in quello in cui si consacrerà. Dopo due anni tra dilettanti e C2 con la Rondinella, passa alla Pistoiese, per l’esordio in Serie B. L’incontro con Bepi Pillon, tecnico degli arancioni, è fondamentale per la carriera di Barzagli. È lui che nel 2000 lo trasforma in un difensore, notandone il senso della posizione, l’anticipo, la forza fisica e la duttilità.

Della sua esperienza in mediana, però, non dimenticherà mai la capacità di costruire il gioco. Un qualcosa che in futuro gli sarà molto utile. Nel frattempo, torna per metà stagione alla Rondinella, per poi passare in C1, all’Ascoli. Ottiene una promozione e, già che c’è, viene acquistato per metà dal Piacenza. 

L'INCONTRO CON DELNERI E LA UNDER 21

All’inizio della stagione 2003/04 l’altra metà del suo cartellino la prende il Chievo. Con la maglia dei Mussi Volanti, Barzagli fa il suo esordio in Serie A. Gli basta un solo anno, corredato da 29 presenze e 3 reti, per fare un altro balzo in avanti. Guidolin lo vuole a Palermo e Zamparini per lui spende 1,5 milioni di euro. Ma prima ci sono un paio di impegni importanti. Il primo, neanche a dirlo, è in Germania.

La nazionale Under-21 va a giocarsi l’Europeo e Claudio Gentile non può fare a meno del perno della sua squadra. Assieme a De Rossi, Amelia, Zaccardo e Gilardino si prende la prima grande soddisfazione della sua carriera, quando gli azzurri battono la Serbia-Montenegro per 3-0 a Bochum, portando a casa il torneo. Con la vittoria continentale, l’estate diventa anche più lunga: l’Italia si gioca anche le Olimpiadi di Atene 2004, dove viene eliminata dall’Argentina di Bielsa, che schiera Tevez, Mascherano, Saviola e Burdisso, ma conquista comunque la medaglia di bronzo.


Una volta arrivato al Renzo Barbera, la strada è in discesa. Barzagli resta in Sicilia quattro stagioni, indossando anche la fascia da capitano nell’ultima annata. Per lui arrivano anche l’esordio in Coppa UEFA, grazie allo splendido sesto posto della stagione 2004/05 e la prima chiamata in nazionale. A Lippi quel centrale così elegante piace. E in realtà al viareggino piace parecchio un po’ tutto il Palermo, al punto che quando c’è da mettere a punto la rosa per il mondiale 2006 ci sono ben quattro calciatori rosanero: Barzagli, Zaccardo, Barone e Grosso.

Il resto, come si suol dire, è storia. Barzagli parte da quarto centrale, ma l’infortunio di Nesta gli fa scalare una posizione. Quando Materazzi vede rosso contro l’Australia, tocca a lui entrare per Toni e giocare da titolare il quarto di finale contro l’Ucraina di Shevchenko. A 25 anni, il toscano è campione del mondo. Potrebbe essere l’apice di una carriera, ma in fondo…è solo l’inizio.

LA CARRIERA DA CAMPIONE DEL MONDO


E il seguito, come sempre, Barzagli lo scrive proprio in Germania. Nel 2008 accetta l’offerta di 14 milioni di euro del Wolfsburg, che decide di portare in Bassa Sassonia a disposizione di Felix Magath sia il difensore toscano che il suo compagno di club e di nazionale Zaccardo. E i due scrivono la storia, perché in quella stagione i biancoverdi conquistano uno storico Meisterschale, vincendo la Bundesliga con due punti di vantaggio sul Bayern Monaco, grazie alle reti di Dzeko e Grafite, ma anche agli appena 41 gol subiti.

Zaccardo torna subito in Italia, mentre Barzagli rimane in Germania fino al gennaio 2011, quando accetta un’offerta che non si può rifiutare. In Serie A lo chiama il suo ex allenatore ai tempi del Chievo, Gigi Delneri. Solo che stavolta il tecnico guida la Juventus. A 30 anni da compiere sembra una scommessa, anche se poco costosa (appena trecentomila euro, secondo i numeri pubblicati dal sito specializzato transfermarkt). Sarà l’inizio di un decennio da sogno.


Con la maglia bianconera, Barzagli diventa uno dei calciatori più vincenti della storia del calcio italiano. Otto scudetti, incredibili per le scommesse calcio Serie A, tutti o quasi da protagonista. Quando nell’estate 2011 arriva Antonio Conte, che decide di accantonare il suo 4-2-4 e passare alla difesa a tre, nasce una leggenda. Assieme a Bonucci e Chiellini, il toscano forma la BBC, il trio imbattibile dei trionfi juventini. Forse Barzagli è il meno mediatico dei tre, ma di certo è imprescindibile e per certi versi è il più completo. Lo è per Conte, ma anche per Allegri, che lo schiera titolare, anche da quarto a destra, nelle due finali di Champions.

E quando il gioco si fa duro, il toscano c’è sempre, persino quando la carta di identità comincia a segnare un’età che per un difensore dovrebbe significare l’addio. L’ultimo bacio al campo arriva al termine della stagione 2018/19, con l’ottavo pazzesco scudetto. Ma le strade di Barzagli e della Juventus non si dividono, perché un campione del genere è un patrimonio per la società e per tutto il calcio italiano.

Dunque, spazio nei ranghi societari, come collaboratore tecnico, fino al momento delle dimissioni. Del resto, chi meglio di lui può insegnare alle nuove generazioni come si diventa dei difensori moderni e a tutto tondo? Anche se, in fondo, di Barzagli ce n’è uno…

*La foto di apertura dell'articolo è di Andrew Medichini (AP Photo).

May 13, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Il fondamentale del colpo di testa!

Chi l’ha detto che nel calcio servono solo i piedi? Spesso e volentieri, è molto più importante la testa. E in più di un senso. Perché se certamente i calciatori con un cervello calcistico sopraffino sono quelli che fanno girare il gioco, spesso e volentieri chi lo finalizza lo fa proprio… con una bella capocciata!

Certo, sono passati i tempi del gioco all’inglese, con l’ala che vola sulla fascia e l’ariete (anzi, “il toro senza cervello davanti al cancello”, come lo definivano i poco gentili tattici dell’epoca) pronto a spedirla in porta. Ma anche nell’epoca del tiki-taka, avere qualcuno in avanti capace di svettare più in alto degli altri, per fare le sponde e per segnare, ma anche per impedire agli altri di farlo, resta sempre assai utile.


Di conseguenza, quello del colpo di testa, solitamente, è un fondamentale che appartiene a tre categorie di calciatori: i difensori centrali, i centravanti e (ovviamente) i giocatori particolarmente alti.

Dell’ultima categoria, per fare qualche esempio recente, fa parte Sergei Milinkovic-Savic, che spesso e volentieri rappresenta la sponda perfetta per spedire nello spazio Immobile sui lanci che arrivano dalle retrovie. I suoi maestri, rimanendo a centrocampo, sono Patrick Vieira e Yaya Toure, entrambi perfettamente in grado di dare un contributo sia offensivo che difensivo attraverso uno stacco poderoso e una frustata di testa ben assestata.

I CENTRAVANTI D'AREA

Inutile però negare che, da un punto di vista spettacolare, chi svetta (è il caso di dirlo) rispetto agli altri sono i centravanti, che con sospensioni incredibili o stacchi in controtempo sono pericolosi tanto quanto lo sono con i piedi. Senza tornate ai tempi di Bettega, Mark Hateley e Roberto Pruzzo, iniziamo la nostra analisi.

In Germania, poi, sembra davvero che li sfornino in serie, nonostante uno sviluppo sempre più palla a terra del gioco, Negli anni Novanta la Lazio ha portato nel nostro campionato Karl-Heinz Riedle, un vero top della categoria che, contro i pronostici calcio, ha realizzato una clamorosa doppietta nella finale di Champions del 1997! 

Un altro tedesco, Oliver Bierhoff, ha fatto le fortune di Udinese e Milan, oltre che della Mannschaft. E, tanto per entrare in entrambe le categorie, il miglior marcatore dei Mondiali di tutti i tempi, Miroslav Klose, ha spesso e volentieri timbrato il cartellino nel nostro campionato, anche lui in biancoceleste.


Non che l’Italia non si sia distinta per colpitori di testa negli ultimi decenni. Basterebbe pensare che entrambi i centravanti della spedizione vincente a Germania 2006 sono degli specialisti. Luca Toni, Scarpa d’Oro nello stesso anno della vittoria iridata, ha costruito molti dei suoi gol proprio sfruttando la sua altezza (1,93m) e un’elevazione fuori dal comune. Dietro di lui nelle gerarchie di Lippi, Alberto Gilardino, di circa una decina di centimetri più basso del bomber di Pavullo, ma particolarmente abile nel prendere il tempo ai difensori, un po' alla Ivan Zamorano!

La Lazio, dal canto suo, tra i due campioni tedeschi, ha mantenuto alta la tradizione con Bernardo Corradi, mentre negli ultimi anni si sono particolarmente distinti Giampaolo Pazzini, un altro che in quanto a posizionamento e anticipo dice decisamente la sua, e Leonardo Pavoletti, che ha segnato circa il 50% dei suoi gol in Serie A proprio con precisi colpi di testa, raccogliendo, simbolicamente, il testimone di Aldo Serena!


E il resto del mondo? Di… teste d’oro ce ne sono tante, in passato (l’ungherese Sandor Kocsis, l’inglese Alan Shearer, senza dimenticare Pelè e la sua sospensione), ma anche ai giorni nostri.

Uno dei grandi dimenticati della categoria è l’australiano Tim Cahill, che ha saputo far fronte a un’altezza non eccezionale (1,78m) e ha sviluppato una capacità di infilare di testa la porta avversaria con una regolarità disarmante, quasi ai livelli del Cholo Simeone! Molto più favoriti dall’altezza dei giganti come Peter Crouch o Jan Koller, che dall’alto dei loro due metri hanno spesso e volentieri trasformato in gol persino i campanili più improbabili. 

E addirittura nella penisola iberica, storicamente avara di grandi centravanti vecchio stile, impossibile non menzionare un paio di nomi. Quello di Aritz Aduriz, il basco che a quasi quarant’anni continua a segnare con la maglia del suo Athletic Bilbao, saltando in testa a difensori vent’anni più giovani. E poi…c’è Cristiano Ronaldo, che con il suo fisico robotico sembra aver scoperto il segreto dello stacco perfetto, come ha dimostrato il salto più che cestistico (2,56 m) nel gol contro la Sampdoria dello scorso dicembre.

I DIFENSORI CON IL VIZIO DEL GOL

Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia, nel vero senso della parola. I difensori così esperti del colpo di testa che spesso risolvono i match da…entrambi i lati del campo. Indicativa, a tal proposito, la finale di Champions League 2014 tra Real Madrid e i cugini dell’Atletico, come evidenziato per le statistiche del nostro blog.

Vincono i Blancos ai supplementari, ma ad andare a segno nei tempi regolamentari non sono i bomber come CR7 o Griezmann, bensì due centrali con il vizio del gol e una passione per i colpi di testa. Il vantaggio dei Colchoneros lo realizza Diego Godin, mentre il pareggio all’ultimo respiro è firmato da Sergio Ramos.

Il Gran Capitan è il difensore più prolifico della sua generazione e sui calci piazzati, soprattutto quelli al millimetro del compagno di squadra Kroos, è sempre un pericolo pubblico. Non per niente, nel remake del derby madrileno due anni dopo, toccherà ancora a lui, anche se con una zampata sotto porta, punire di nuovo i cugini, questa volta a San Siro. I

tedeschi, dal canto loro, hanno una vera e propria arma segreta: Mats Hummels è letale quando c’è da colpire di testa. Basterebbe pensare che tutti e cinque i gol segnati con la Mannschaft sono arrivati con stacchi imperiosi. Punti bonus per il centrale de Borussia Dortmund (consulta la nostra guida sulla Bundes), che è anche un esperto di salvataggi sulla linea, ovviamente anche quelli di testa.

Anche in Italia, patria di difensori rocciosi, non mancano i colpitori di testa seriali. I più recenti sono certamente Marco Materazzi, che che nella cavalcata mondiale del 2006 segna sia contro la Repubblica Ceca che in finale con la Francia sugli sviluppi di un corner, e Giorgio Chiellini, che fa valere i suoi centimetri sia in attacco che in difesa.

E infine c’è anche chi di essere alto non ha mai avuto bisogno: Ivan Cordoba, con il suo metro e settantatre, non aveva esattamente il fisico da centrale e men che meno da ariete nell’area avversaria. Ma con uno stacco da 70 centimetri, colpire il pallone quando è più in alto degli altri non è poi così impossibile…

*La foto di apertura dell'articolo è di Luca Bruno (AP Photo).

May 12, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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