Le più belle mascotte in azzurro

Tutte le edizioni della Coppa del mondo di calcio a partire dal 1960 e degli Europei dal 1980 hanno avuto la propria mascotte, tradizionalmente un pupazzo che cerca di rappresentare una caratteristica tipica della nazione ospitante: flora, fauna, tradizioni. Curiosamente, il target principale delle mascotte sono i bambini di tutto il pianeta, o di tutto il continente, che così sono spinti ad avvicinarsi al calcio e, perché no, alla cultura.

Ne abbiamo scelte sei da raccontarvi, alle quali l’Italia, per diversi motivi, è legata.

Juanito Maravilla (Messico 1970)

Messico ‘70 per la Nazionale azzurra fa rima con Italia-Germania 4-3, che la targa all’ingresso dell’Estadio Azteca della capitale ricorda per sempre come “El partido del siglo”, la partita del secolo. Ad accompagnare l’avventura degli azzurri di Ferruccio Valcareggi, tra la storica staffetta tra Rivera e Mazzola e i gol di Gigi Riva, c’è Juanito Maravilla, il bimbo col sombrero e le guance paffute, vestito con la divisa dei padroni di casa. Juanito diventa presto una celebrità, poiché il mondiale messicano è il primo trasmesso in mondovisione in tv.

Pinocchio (Italia 1980)

L’Italia ospita i Campionati europei nel 1980, la prima edizione della competizione continentale che prevede una mascotte per il paese organizzatore. Puntiamo sul famoso burattino di legno di Collodi, con il naso dipinto con il tricolore, un pallone sottobraccio e un cappellino da marinaio in testa con la scritta Europa 80.

Una curiosità: inizialmente alla mascotte non viene dato un nome ufficiale: Artemio Franchi, all’epoca presidente Uefa e Figc, spiega infatti alla stampa, nell’ottobre 1979, che i diritti di Pinocchio appartengono alla Disney. La Fondazione Collodi, però, corre in soccorso all’organizzazione italiana, ricordando che i diritti d’autore sul libro sono scaduti da un pezzo: la mascotte può quindi presentarsi con il suo nome ufficiale al sorteggio di Roma del 16 gennaio 1960.

Naranjito (Spagna 1982)

Sarà perché in Spagna siamo diventati campioni del mondo o perché quell'arancia sorridente dalle gote rubiconde è uno dei miei primi ricordi d'infanzia legato al calcio, ma Naranjito non poteva proprio mancare in questa carrellata. 

Attenzione però, perché al mondiale spagnolo del 1982, a far compagnia alla Nazionale di Bearzot, Paolo Rossi, Bruno Conti e Gaetano Scirea non c'è solamente l'arancia con la maglia e i pantaloncini delle Furie Rosse: come dimenticare, infatti, Sport Billy? In quello stesso anno, infatti, la FIFA ha scelto il personaggio della serie di cartoni animati statunitense per sensibilizzare sul fair-play e sull'importanza di tutti gli sport, non solo del calcio.


Ciao (Italia ‘90)

Il portafortuna delle Notti magiche, che sono state tali fino a quella sciagurata serata partenopea, non poteva che chiamarsi con la parola italiana più nota e utilizzata nel mondo, quella che si è tramutata nel saluto più internazionale che ci sia: Ciao

"Un'idea sfruttabile tridimensionalmente, giochi tecnologici futuri, immagini televisive, consumismo": tutti questi concetti sono racchiusi dell'omino tricolore con la testa nel pallone secondo le parole del suo creatore, Lucio Boscardin, pronunciate nel novembre 1986 in sede di presentazione della snodata mascotte dei Mondiali italiani.
Un curioso aneddoto: il primo nome dato a Ciao da Boscardin è stato L'italiano.

Striker (USA 1994)

Dopo gli esperimenti di Italia '90, gli Stati Uniti scelgono di tornare alla tradizione, per tentare di lanciare finalmente ad alti livelli il soccer tra le stelle e le strisce: la mascotte di Usa '94 è un cane che indossa pantaloncini blu e una maglietta bianca e rossa. Il suo nome è Striker, che in inglese significa attaccante e il padre è davvero nobile: il design, infatti, è commissionato alla Warner Bros.

Ricordiamo quel Mondiale per il gran caldo durante le partite, per le magie di Baggio che ci tengono a galla, scommesse sportive comprese, contro la Nigeria, per i tatticismi di Sacchi, i crampi di Baresi e gli sfortunati calci di rigore in finale contro il Brasile.

Goleo VI e Pille (Germania 2006)

Un altro trionfo memorabile, quello dei Mondiali di Germania del 2006 con l'indimenticabile notte di Berlino. Goleo è un leone, vestito con la maglia numero 06 della nazionale teutonica, senza pantaloncini; Pille è il sorridente pallone che lo accompagna: il suo nome, oltretutto, è un'espressione gergale con cui, in tedesco, si è soliti chiamare il calcio.

La mascotte compare nel video della canzone "Love generation" di Bob Sinclair, uscita in Germania il giorno del sorteggio mondiale.

*L'immagine di apertura dell'articolo è di Carlo Fumagalli (AP Photo).

May 6, 2020
Emanuele Giulianelli
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Scrittore e giornalista freelance, collabora regolarmente con il Corriere della Sera, con La Gazzetta dello Sport, con Extra Time, Rivista Undici, Guerin Sportivo e con varie testate internazionali come Four Four Two, Panenka e Tribal Football. Scrive per B-Magazine, la rivista ufficiale della Lega Serie B.


I suoi articoli di calcio internazionale e geopolitica sono stati pubblicati, tra gli altri, su FIFA Weekly, il magazine ufficiale della federazione internazionale, su The Guardian, The Independent e su Eurasianet. Ha lavorato come corrispondente sportivo dall’Italia per Reuters.


Ha pubblicato tre libri, l'ultimo dei quali, "Qarabag. La squadra senza città alla conquista dell'Europa" edito da Ultra Sport, è uscito nel 2018.
 

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La tradizione della Coppa delle Coppe!

Per 39 anni - sino al 1999 - è stata una delle più fascinose competizioni europee per club. Ha offerto ai tifosi quattro decenni di trionfi, ribaltoni, campi improbabili, sorprese, gioie inaspettate. Ha concesso la ribalta a club sconosciuti - affiancandoli a quelli maggiormente prestigiosi -, mostrato immagini di stadi talora avveniristici, talora improbabili, campi innevati, prati tagliati con precisione elvetica o dall'erba alta nei quali scambiarsi la sfera diventava qualcosa di impossibile.

L'albo d'oro della Coppa delle Coppe

L'edizione 1994/1995

Le partecipazioni di Atalanta e Vicenza

Per tutte queste ragioni, a prima vista contraddittorie, la Coppa della Coppe era amata da tutti: nella scala dei trofei internazionali, era considerata la seconda competizione continentale per club (la Coppa Uefa veniva dopo, infatti) e la vincente disputava la Supercoppa Europea insieme a quella della Coppa dei Campioni. A giocarla erano le formazioni che avevano trionfato nelle rispettive coppe nazionali.

La Cup Winners' Cup fu rimossa dal palcoscenico calcistico europeo proprio dopo la riforma della Champions League (con 4 squadre qualificate nei paesi con il ranking Uefa più alto) e l'introduzione dell'Europa League, diventata di fatto una fusione tra la Coppa Uefa e, appunto, la Coppa delle Coppe.

L'ALBO D'ORO DELLA COPPA DELLE COPPE

Il club a detenerne il record di vittorie? Il Barcellona, con 4 trofei alzati dopo i successi nel 1979, 1982, 1989 e 1997. Tuttavia fu aperta e chiusa dai trionfi italiani: nel 1999 fu la Lazio di Alessandro Nesta e Cristian Vieri a mandare in archivio la competizione grazie al 2-1 con cui sconfisse il Maiorca di Héctor Cúper, con le reti di Vieri e di Pavel Nedvěd.

Nel 1961 invece, tutto iniziò con la Fiorentina, che in un atto conclusivo a doppia mandata, sconfisse i i Rangers di Glasgow espugnando Ibrox 2-0 e imponendosi 2-1 all'allora Comunale di Firenze. Diventato poi "Artemio Franchi", storico dirigente viola e presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio, che convinse l'Uefa (di cui fu anche presidente negli anni '70) a riconoscere ufficialmente la competizione, atto che si concretizzò nell'ottobre 1963.

Otto i successi inglesi (due del Chelsea e poi Tottenham, West Ham, Manchester City, Everton, Manchester United e Arsenal), 7 quelli italiani (oltre a Fiorentina e Lazio, anche Juventus, Sampdoria, Parma e due volte il Milan), altrettanti quelli spagnoli: al poker del Barça si aggiungono anche le vittorie di Atletico Madrid, Valencia e Real Saragozza. Quest'ultima, formazione provinciale del calcio iberico, visse una stagione eccezionale per le scommesse sportive nel 1994-95, arrivando a trionfare contro il "gigante" Arsenal nella finale del Parco dei Principi.

L'EDIZIONE 1994/1995

Il Saragozza - detentore della Copa del Rey grazie al successo ai calci di rigori sul Celta Vigo - entra in gioco nei Sedicesimi di finale ma viene sconfitto 2-1 dal Gloria Bistriţa nell'andata in Romania. Parte male, quindi, l'avventura degli spagnoli, che però dilagano (4-0) nel ritorno della Romareda.

I Leoni di Víctor Fernández eliminano così gli slovacchi del Tatran Prešov agli ottavi e iniziano a crederci ribaltando, in casa, lo 0-1 di Rotterdham contro il Feyenoord: 2-0 in Aragona e Inghilterra nel destino. In una Romareda completamente esaurita, capitan Miguel Pardeza e compagni, si entusiasmano con un secco 3-0 nell'andata contro il Chelsea, che a Stamford Bridge s'impone vanamente 3-1.

Arriva il 10 maggio 1995, tempo di affrontare il grande Arsenal "pre Wenger" al Parco dei Principi di Parigi: erano i Gunners di David Seaman, Nigel Winterburn e bomber Ian Wright. Gara bloccata nel primo tempo e aperta al 68' da uno spettacolare mancino dalla distanza dell'attaccante argentino Juan Esnáider (in seguito meteora della Juventus) e riequilibrata al 77' dal non proprio raffinatissimo attaccante gallese John Hartson in seguito a un'azione elaborata dei londinesi.

Si va ai tempi supplementari sull'1-1 e tutto sembra essere indirizzato verso i calci di rigore. Ma al 120', all'ultimo respiro del match, lo show di Mohammed Alí Amar, in arte Nayim, centrocampista dai piedi "educati" di Ceuta, che s'inventò quello che fu definito il gol più spettacolare di tutte le edizioni della Coppa delle Coppe: su una palla vagante, senza nemmeno controllarla, da metà campo, l'ex canterano del Barcellona calciò di destro verso l'alto con tutta forza, sorprendendo il portiere dei Gunners (e della nazionale inglese) Seaman sotto la traversa. Tifosi aragonesi in delirio: Real Saragozza incredibilmente campione.

Le partecipazioni di Atalanta e Vicenza

Storie di ordinaria Coppa delle Coppe, come i trionfi del piccolo Mechelen (o Malines): i belgi avevano trionfato al cospetto del grande Ajax in una edizione in cui l'Atalanta di Emiliano Mondonico - quell'anno in Serie B (!) - si spinse fino in semifinale, proprio contro i giallorossoneri del portiere Michel Preud'homme. Ma si ricorda anche la partecipazione del Vicenza dei miracoli nel '97-'98, eliminati solamente dal Chelsea di Gianfranco Zola e Gianluca Vialli in semifinale a Stamford Bridge.

E che dire dei successi del Magdeburgo (nel 1974 sul Milan), della Dinamo Tbilisi (contro il Carl Zeiss Jena) nel 1981 e dell'Aberdeen di sir Alex Ferguson, che nel 1983 sconfisse niente meno che il Real Madrid? Quanta nostalgia per quel torneo: e chissà se il progetto in cantiere relativo all'"Europa League 2" (definita, per l'esattezza, "UEFA Europa Conference League") riuscirà a regalare le medesime emozioni. Difficile...

*La foto di apertura dell'articolo è di Dusan Vranic (AP Photo). Prima pubblicazione 6 maggio 2020.

March 2, 2021
Stefano Fonsato
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Stefano collabora da anni come giornalista freelance per il portale web di Eurosport Italia, per il quotidiano La Stampa e con la casa editrice NuiNui per la quale è stato coautore dei libri "I 100 momenti magici del calcio" e "I 100 momenti magici delle Olimpiadi".

E' amante delle storie, dei reportage e del giornalismo documentaristico, ma il suo "pallino" resta, su tutti, il calcio d'Oltremanica.

 

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Formazioni all'ombra dei top club


Tutti conoscono i club più famosi delle città italiane, ma poco sanno che i grandi capoluoghi della Penisola hanno anche altri sodalizi che continuano a giocare pur non avendo gli stessi riscontri mediatici delle maggiori formazioni.

Agli inizi del ‘900, oltre alla Lazio c’erano diverse altre squadre pronte a contendere il primato al sodalizio biancocelesti: Alba, Roman, Juventus Roma, Fortitudo. Poi - durante il ventennio - arrivò la fusione del 1927 con gran parte dei club riuniti sotto un unico vessillo: quello dell’AS Roma. Ma oltre alla Lazio, e alla successiva società giallorossa, nel corso degli anni nella capitale ci sono state squadre capaci di ritagliarsi il proprio spazio; Romulea e Almas, tanto per iniziare.

 

Il club che riuscì ad avvicinarsi - come categoria - alle due big capitoline fu la Lodigiani che a metà degli anni ’90 arrivò a disputare contro la Salernitana lo spareggio per essere promossa in Serie B. Oggi la terza squadra della Capitale, tra quelle militanti in D, è probabilmente il Trastevere; la formazione bianco-amaranto punta da alcune stagioni al salto di categoria, per restituire alla Capitale una formazione in Lega Pro.

La città di Milano - in tal senso - è più indietro: la terza squadra della città è il Brera: il club prende il nome del quartiere in cui è nato e milita nel campionato di Prima Categoria. La squadra gioca all’Arena Civica, intitolata da qualche anno al giornalista Gianni Brera: una coincidenza del tutto casuale, che sposa il calcio dilettantistico con la più grande penna del giornalismo sportivo italiano.

LA FAVOLA DELL'INTERNAPOLI

C’era una volta l’Internapoli. In riva al Golfo il cuore degli appassionati di calcio batte da sempre per un’unica squadra: il Napoli. Nata a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70, l’Internapoli sfiorò alla fine degli anni sessanta la promozione in Serie B. Fu la squadra di Giorgio Chinaglia e Pino Wilson prima del loro trasferimento alla Lazio, e di Giuseppe Massa. Oggi l’altra squadra di Napoli - dopo il fallimento dell’Internapoli - è rappresentata dall’Afro Napoli United, formazione che milita nel campionato di Eccellenza.

Stessa categoria per la terza squadra di Torino, il Lucento, club che prende il nome da uno dei quartieri della città sabauda. La vita per la società rossoblù non è semplice; il cuore della città è granata, tutti gli altri hanno da tempo abbracciato la fede bianconera, spinta dai gloriosi successi della Juventus.

Da Torino a Genova il passo è breve; fu questa la vera culla del calcio italiano: il molo della città portuale accolse i marinai inglesi, qui nacque nel 1893 il Genoa Cricket and Football Club, la prima squadra italiana. La Sampdoria venne dopo - nel 1946 - grazie alla fusione tra Sanpierdarenese e l’Andrea Doria.

Ma sotto la Lanterna c’è anche il Ligorna, club che a tutti gli effetti viene considerato il terzo sodalizio della città. Nato nel 1922, il club fu fondato sul greto del fiume Bisagno, e prese come stemma sociale quello della casa automobilistica dell’Alfa Romeo. Il massimo risultato arrivò nel 1968 quando la squadra venne promossa in Serie D. Dopo stagioni di risultati altalenanti, la squadra ha nuovamente conquistato l’accesso alla quarta divisione nazionale.

Anche le città che hanno in apparenza una sola squadra a livello comunale, in realtà ospitano sul loro territorio altre associazioni calcistiche. Firenze è da sempre una città divisa, soltanto il calcio ha saputo mettere d’accordo i cittadini: la Viola è quasi una religione, ma anche in riva all’Arno - per diversi anni - la città è stata rappresentata anche dalla Rondinella, formazione nata nel secondo dopoguerra che -negli anni ’80 - arrivò a disputare cinque stagioni nella Serie C1. Fallita e rifondata per quattro volte, oggi milita nella Prima Categoria Toscana.

VIRTUS VERONA IN LEGA PRO

Facendo un passaggio a Nord-Est, troviamo l’unica città che attualmente può vantare una squadra in una delle tre categorie più importanti del calcio italiano. A Verona, l’Hellas primeggia per il leggendario scudetto conquistato nel 1985. Negli ultimi vent’anni, anche il Chievo ha saputo recitare un ruolo da protagonista.

Ma negli ultimi anni anche la Virtus Verona si sta facendo largo nel mondo del calcio ed ha un curioso record di quattro 0-0 consecutivi per le scommesse calcio; nata nel quartiere di Borgo Venezia nel 1921, la squadra rossoblù sta scalando le categorie e oggi milita nel campionato di Lega Pro.

La rivalità calcistica appartiene all’intera penisola; in Sicilia, l’Atletico Catania è da anni antagonista della prima squadra della città ed oggi partecipa al campionato di Eccellenza. Spostandoci sullo Stretto, anche Messina da qualche anno ha due formazioni che rappresentano la città: oltre allo storico sodalizio nato nel 1900 (oggi ACR Messina), che milita in Serie D, c’è anche l’FC Messina che ha provato a scalzare il club più antico della città per accogliere le simpatie degli sportivi: tentativo non riuscito, almeno dal punto di vista sociale. Ma sul piano sportivo, la squadra partecipa allo stesso campionato di Serie D dell’ACR Messina.

*La foto di apertura dell'articolo è di Giuseppe Calzuola (AP Photo).

 
May 5, 2020
simone pieretti
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Giornalista, scrittore, innamorato di futbol. Scrive per trasmettere emozioni e alimentare sogni. Il calcio è una scienza imperfetta: è arte, è musica, è poesia. E' un viaggio nel tempo che ci fa tornare bambini ogni qual volta diamo un calcio a un pallone.

 

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NBA G-League: ve la raccontiamo con Christian Giordano

Non potevamo scegliere un ospite migliore di Christian Giordano, giornalista di Sky e autore (tra i tanti libri che ha scritto) del pregevole “Lost souls: Storie e miti del basket di strada”, per raccontarvi, in esclusiva per il blog di 888sport.it,  la G-League, la sorella minore della NBA.

“L’ex NBA Development League o NBA D-League - ci spiega Giordano - è la lega minore ufficiale della NBA. Un campionato per ‘seconde’ squadre, affiliate alle rispettive case madri NBA, che serve da palestra per giocatori, staff tecnici e societari, dirigenti, preparatori, arbitri. E come laboratorio per modifiche regolamentari. In sintesi: ricerca e sviluppo (anche di talenti, spesso late bloomer, come da quelle parti chiamano – fuori e dentro metafora – i virgulti che sbocciano tardi). Ovvio, è anche show-biz: quindi deve pure produrre utili.

LE REGOLE ED IL FORMAT

È nata nel 2001-02, dal 2018-19 si chiama NBA G-League. La G del nome non sta per Growth (crescita) bensì per Gatorade, il main sponsor e caso-scuola di naming rights applicato a un’intera lega. 
Non ci sono promozioni/retrocessioni, chi vince è campione della G-League, non viene promosso in NBA, per capirci. Lo preciso per chi non segue gli sport “americani” e le loro leghe chiuse. Le 28 squadre della G-League sono (tranne Denver Portland) associate alle 30 della NBA e giocano una regular season di 50 partite (contro le 82 della NBA). Ai playoff, previsti di 4 turni, sono ammesse 12 squadre.

Dal 2019-20 è sorta a Erie, come expansion team dei New Orleans Pelicans, la franchigia Bayhawks, che dovrebbe essere rilocata a Birmingham, Alabama, dal 2022-23. Non sempre (anzi) nick e città coincidono con quelli della casa madre, a volte nemmeno gli Stati, per quanto relativamente vicini. 
Come nella NBA si giocano 4 quarti da 12’ effettivi ciascuno. Cambia la durata degli overtime: 2’ in G-League rispetto ai 5’, sempre effettivi, della NBA. 

Con l’espansione è cambiato l’accesso ai playoff. Dal 2018-19 i sei campioni di division (miglior record) accedono di diritto. Gli altri sei posti si assegnano con 3 wild card agli altri tre migliori record delle due conference. Le squadre con il miglior record di conference (seed 1 e 2) partono dal secondo turno di tre turni a eliminazione diretta. Le finali si giocano al meglio delle tre e col formato 1-1-1, quindi nessuna finalista gioca due gare in fila in casa”.

In nessun caso una formazione di quel campionato può aspirare a salire in NBA?
“Per il momento, no. A meno che, in una delle periodiche valutazioni che la NBA fa sul seguito e i ricavi che alcune sue franchigie hanno in certe zone e la perenne fame di un ritorno del basket NBA in piazze storiche (un esempio su tutti: Seattle, mai ripresasi dalla perdita dei Super Sonics), non decida di promuoverne una particolarmente appetibile – magari previa rinomina, per motivi di identificazione – dalla G-League”.

Qual è il livello del campionato, comparato all'NBA o al campionato italiano?
“Non scherziamo. Senza mancare di rispetto a nessuno, l’attuale campionato italiano, o la parodia che ne è diventato, non può stare nella stessa frase con questi colossi. Più vicino alla NBA, quindi, ma un paio di gradini sotto. Gradini non così insormontabili, però. A fine 2018-19, il 52% dei giocatori nei roster finali della NBA erano ex G-League. Per i pronostici NBA, più di uno su due: Serie A, what? 

Non basta? Almeno 30 prospetti di G-League sono stati poi chiamati (call-ups, alla lettera: convocati), nella NBA in ciascuna delle ultime 8 stagioni (esclusa l’attuale). Tra i top chiamati in NBA: le guardie Danny Green (gran tiratore da tre e arma tattica campione nel 2014 con gli Spurs e nel 2019 con Toronto), Gerald Green (Rockets), la meteora - famosissima ai Knicks - Jeremy ‘Linsentity’ Lin (Hawks), il centro Hassan Whiteside (Heat).

Tra i top invece assegnati da squadre NBA alla propria affiliata di G-League (cioè percorso inverso con possibilità di ritorno): le guardie Eric Bledsoe (Bucks) e Reggie Jackson (Pistons), i centri Rudy Gobert (Jazz) e Clint Capela (Rockets). 
Una precisazione: gli assegnati hanno le garanzie del contratto NBA. Dal 2017 I roster NBA sono stati allargati da 15 a 17 giocatori con l’aggiunta di due spot riservati a giocatori con Two-Way Contracts per poter passare – appunto nei due sensi – dalla NBA alla G-League e viceversa”.

Che rapporto ha la G-League con il basket dei college NCAA?
“Non si può dire ufficialmente, ma è un fatto: la G-League sta cercando di prendere il posto – come bacino – della NCAA (e in questo senso ha già reso più povera la pallacanestro europea). In più sembra siano allo studio nuove forme contrattuali per invogliare i giocatori a giocare nella G-League, che ogni anno tessera oltre 100 giocatori pescando, col proprio Draft, fra i NON scelti al Draft NBA.

Fra questi anche i tagliati ai training camp NBA e i cosiddetti International players (come loro chiamano i giocatori “stranieri”). Attenzione: i giocatori, per poter essere eleggibili nel Draft della G-League, devono aver compiuto i 18 anni”.

A livello di pubblico e media è un prodotto che funziona?
“Sempre facendo riferimento all’ultima stagione completa (2018-19), la G-League è stata trasmessa su ESPN Networks, NBA TV e sui social Twitch and Facebook Live. La G-League ha un proprio sito ufficiale (NBAGLeague.com). E una app sia per iOs sia per Android. Sui social media è presente con profili ufficiali su Facebook, Twitter, Instagram, Twitch e Snapchat (nbagleague).

Bisogna capire bene che cosa si intende con ‘funziona’. Numeri e mezzi sono ‘americani’, quindi anni-luce dai nostri. Non saprei rispondere nel dettaglio perché bisognerebbe conoscere i target di mercato che si sono posti nei piani alti della NBA e della stessa G-League. La G League però ha un’altra funzione, del tutto peculiare, e che è quella di alzare il livello della NBA e al contempo impedire la nascita e l’affermazione di una vera lega concorrente, più che puntare ad alzare chissà quali share e ratings in tv o fare clickbaiting per se stessa. 

In generale, la NBA guarda molto oltre il piccolo-medio termine. Un esempio che va ben al di là della G-League? La NBA potrebbe sfruttare l’emergenza per risistemarsi più avanti nell’anno solare e smarcarsi così sempre di più – anche nel calendario – dalla NFL. L’unica lega che le fa davvero paura.
Come recita un vecchio detto USA, ‘il baseball è come l'America vorrebbe essere, il football è l'America com'è’. Il basket NBA sta nel mezzo, e non può mai smettere di sgomitare”.

Infine, quali sono i giocatori da seguire? 
“Ce ne sono tanti. E come sempre dipende da chi (e cosa) serve a chi. Con l’eccezione di Jared Harper, che ho visto dal vivo perdere da junior l’anno scorso a Minneapolis all’ultimo secondo la semifinale NCAA con Auburn (battuta dalla Virginia futura campione), cito una vecchia top10 di Sports lllustrated, bibbia che per me è – resterà – tale. 

Vi indico altri due nomi: il primo è B.J. Johnson (Lakeland Magic), gran realizzatore (quasi 24 punti di media) e rimbalzista (oltre 6). Al college con Syracuse e LaSalle, NON scelto al Draft 2018. L'altro è  Josh Gray (Erie BayHawks), duro, rapido, play ma anche realizzatore, la classica two-way point guard (oltre 23-7-5 in punti, assist e rimbalzi), anche lui due college (Texas Tech e Louisiana State), NON scelto nel 2016.

*La foto di apertura dell'articolo è di Gregory Payan (AP Photo).

May 5, 2020
Emanuele Giulianelli
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Scrittore e giornalista freelance, collabora regolarmente con il Corriere della Sera, con La Gazzetta dello Sport, con Extra Time, Rivista Undici, Guerin Sportivo e con varie testate internazionali come Four Four Two, Panenka e Tribal Football. Scrive per B-Magazine, la rivista ufficiale della Lega Serie B.


I suoi articoli di calcio internazionale e geopolitica sono stati pubblicati, tra gli altri, su FIFA Weekly, il magazine ufficiale della federazione internazionale, su The Guardian, The Independent e su Eurasianet. Ha lavorato come corrispondente sportivo dall’Italia per Reuters.


Ha pubblicato tre libri, l'ultimo dei quali, "Qarabag. La squadra senza città alla conquista dell'Europa" edito da Ultra Sport, è uscito nel 2018.
 

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A venti anni dalla leggenda del Calais!


7 maggio 2000 - 7 maggio 2020: sono passati esattamente vent'anni dalla più bella favola calcistica di tutti i tempi. Più dei campionati vinti dalle "cenerentole" Hellas Verona e Leicester City nel 1985 e nel 2016? Assolutamente sì e di gran lunga.

Perché la Coppa di Francia sfiorata dal Calais ha messo in discussione ogni canone del calcio professionistico, quello governato dai soldi. Una squadra composta da dilettanti, ma non allo sbaraglio: imbianchini, impiegati, operai, pescatori, scaricatori di porto, come ce n'erano tanti in quella Calais, a due passi dal Belgio. Una cittadina a stretto contatto con la britannica Dover, più per gli alcolici che per altre questioni.

L'industria tessile stava già pagando i soldi di una crisi iniziata con largo anticipo e, da quelle parti, le sacche di povertà erano importanti, tanto di impedire a molti di permettersi i biglietti di ingresso allo stadio. La Coppa di Francia segue il medesimo esempio della FA Cup: un vero e proprio caso di "open" calcistico con gare a eliminazione diretta e sorteggio integrale e la possibilità - unica nel suo genere - di incrociare club afferenti i possedimenti d'oltremare.

IL CAMMINO IN COPPA

L'incredibile percorso dei calesiani, iscritti al campionato di quarta divisione, parte come di consueto dai preliminari, superati brillantemente. Entrati nella competizione vera e propria, a partire dai trentaduesimi di finale, la formazione di mister Ladislas Lozano, un geometra spagnolo dai contorni donchisciotteschi, si trovò di fronte il Lille, all'epoca dominatore incontrastato della Ligue 2. Ed è proprio qui che avvenne il primo "giant-killing" (per dirlo alla moda della vicina, perfida Albione): 1-1 dopo 120' e vittoria ai calci di rigore.

Un'impresa che meritava un premio, magari un sorteggio estremamente favorevole: fu così che il Racing Calais, ai sedicesimi, pescò gli omologhi dilettanti del Langon-Castet, liquidati con un netto 3-0. E' tempo degli ottavi, altra gara casalinga, ma questa volta si torna a fare sul serio: c'è il Cannes di Ligue 2. Per la prima volta, però, la partita viene spostata nell'impianto della vicina Boulogne sur mer, città rivale, per trovare un compromesso tra l'hype crescente per le imprese dell'armata brancaleone e le ridotte dimensioni dello stadiolo di casa, il "Julien Denis".

Il punteggio è di 0-0 al 90' e di 0-1 a due minuti dal 120', quando un tuffo di testa "dell'Ave Maria" di Chritophe Hogarde, pareggia i conti rimandando la drammatica contesa ai calci di rigore. In cui trova gloria il portiere Cédric Schille, che ne para ben due e che, in seguito, resterà talmente legato al Calais che non si muoverà da lì sino al 2011, organizzando rimpatriate su rimpatriate. Il gol che porta i calesiani ai quarti di finale, porta la firma di Mickaël Gérard, nella vita di tutti i giorni magazziniere in un cash & carry di vini e liquori.

Stesso mestiere del laterale Jocelyn Merlen, autore del gol decisivo nel 2-1 allo Strasburgo, formazione di prima divisione. Dilettanti, carneadi, che battono una formazione di Ligue 1, dai ricche stipendi e che nella semifinale si ritrovano di fronte al grande Bordeaux. Il responso è clamoroso anche per le scommesse calcio: girondini sconfitti per 3 a 1 dopo i tempi supplementari.

LA FINALE ALLO STADE DE FRANCE

Nessuno ha l'ardire di crederci, nemmeno mister Lozano, che dalla contentezza smisurata accusa un malore nel postpartita, da cui si riprenderà per la finale contro il Nantes, giocata quel 7 maggio 2000 allo Stade de France, che nemmeno due anni prima aveva ospitato il primo trionfo della Francia di Zinédine Zidane contro il Brasile di Ronaldo (il Fenomeno): al cospetto di 80mila spettatori, il Calais trova il vantaggio con la punta Jérôme Dutitre, che al 34' trova la deviazione giusta in mischia, insaccando sotto le gambe di Landreau.

Il primo tempo termina con l'ennesimo miracolo ma il secondo si apre, al 50', col pareggio di Antoine Sibierski e prosegue con le parate fenomenali del portiere Schille. Fino all'89', quando il fischietto Claude Colombo assegna un penalty alquanto discusso a favore del Nantes, trasformato da Alain Caveglia. Il Nantes vince partita e coppa, ma i trionfatori morali sono i ragazzi di Calais, accolti come eroi da una folla festante, che li acclama di fronte al palazzo municipale!

 

Quegli eroi della vita di tutti i giorni che, da dilettanti puri (a nessuno di loro quell'avventura cambiò la vita) stravolsero, per una volta, l'establishment del calcio moderno. Un'impresa talmente titanica che portò il capitano del Nantes, Mickaël Landreau ad offrire al difensore (e venditore all'ingrosso) Réginald Becque la chance di alzare in condivisione la coppa.

Gesto poi replicato 18 anni più tardi dal capitano del PSG Thiago Silva con Sebastien Flochon, omologo del Vendée-Les Herbiers, emuli semi-professionisti, dopo il 2-0 in finale firmato Lo Celso e Cavani - di quel Calais rimasto nel cuore di tutti i romantici del pallone. E non solo...

*La foto di apertura dell'articolo è di Francois Mori (AP Photo).

 
May 4, 2020
Stefano Fonsato
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Stefano collabora da anni come giornalista freelance per il portale web di Eurosport Italia, per il quotidiano La Stampa e con la casa editrice NuiNui per la quale è stato coautore dei libri "I 100 momenti magici del calcio" e "I 100 momenti magici delle Olimpiadi".

E' amante delle storie, dei reportage e del giornalismo documentaristico, ma il suo "pallino" resta, su tutti, il calcio d'Oltremanica.

 

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Le finali per il terzo e quarto posto: non chiamatela finalina!

Quella vinta dalla Croazia sabato 17 dicembre 2022 è stata la ventesima finalina dei Mondiali. Un'altra selezione europea si classifica terza dopo Belgio, Olanda, due volte la Germania, la Turchia ed ancora la Croazia, nel '98, alla sua prima partecipazione iridata!

Modric che festeggia il bronzo con un altro record personale e noi ricordiamo che questa partita tra le squadre sconfitte nelle semifinali, non è mai terminata ai calci di rigore e solo una volta le riserve della Francia, dopo la dura sfida contro la Germania, vinsero ai supplementari, contro il Belgio, reduce dalla cure… di Diego!

Mentre negli Europei la finale per il terzo e quarto posto è stata abolita dopo i rigori del San Paolo nel 1980 persi dagli Azzurri contro la Cecoslovacchia, il match tra Croazia e Marocco, caratterizzato da contenuti tecnici ed agonistici davvero interessanti, dimostra che un senso questa gara l’ha conservato, eccome!

Il gol di Barella al Belgio

La partita che nessun giocatore al mondo vorrebbe mai disputare? Quasi tutti risponderebbero la finale per il terzo e quarto posto in un grande torneo, come Italia - Belgio della seconda edizione della Nations a Torino, sbloccata all'inizio della ripresa da uno straordinario destro al volo di Barella!

È però anche vero che il rapporto con le finaline di consolazione spesso ricche di gol per i pronostici internazionali, come venivano chiamate una volta, varia da caso a caso.

La finalina in Russia 2018

Gli Europei non prevedono il terzo posto

Terzo e quarto posto in Brasile 2014

Finale per laurearsi capocannoniere

Terzo e quarto posto... nervoso

Chi ha disputato una grande manifestazione e si è ritrovato a sorpresa in semifinale sarà felicissimo di poter scendere in campo un’ultima volta e celebrare la propria cavalcata.

E magari, tra i calciatori titolari, c’è qualcuno, come Schillaci nel '90, che ha un obiettivo personale da raggiungere e ci metterà tutto se stesso anche se la possibilità di vincere il torneo non c’è più.

La finale per il terzo e quarto posto dell'inedito Mondiale invernale si disputerà allo Stadio Internazionale di Khalifa, già sede di un palpitante Liverpool - Flamengo!

Il bonus di benvenuto di 888sport!

IN RUSSIA PARTITA VERA

A questo proposito, l’ultimo Mondiale ha regalato una finalina niente male. A San Pietroburgo si affrontano il Belgio, che ha perso contro i futuri campioni del mondo della Francia, e l’Inghilterra, che anche stavolta si ferma in semifinale contro la sorprendente Croazia, con Harry Kane che vuole suggellare la sua splendida Coppa del Mondo. Alla fine è partita vera, perché i Diavoli Rossi vogliono dimostrare che non sono arrivati tra le quattro migliori squadre del mondo per caso.

I festeggiamenti per il terzo posto del Belgio!

Il centravanti di Sua Maestà resta a secco, ma vince comunque la Scarpa d’Oro di Russia 2018. La medaglia di bronzo, però, finisce al collo dei belgi, con Meunier e Hazard che segnano i gol del 2-0 che regala a Roberto Martinez e ai suoi il miglior piazzamento della loro storia. Ennesima delusione per i Tre Leoni, che, come nel 1990 in Italia non solo perdono l’occasione di arrivare in finale, ma finiscono anche fuori dal podio.

Gli Europei non prevedono il terzo posto


Agli Europei, tradizionalmente, la finale per il terzo e quarto posto non si gioca. Un peccato per nazionali come la Danimarca (Euro 2020), il Galles (2016) o la Turchia (2008), che tanto bene hanno fatto in quelle edizioni. I turchi, in compenso, giocano quella del Mondiale 2002, una vera e propria festa.

A Taegu, a fare compagnia ad Hakan Sukur e compagni, eliminati dalla celebre sceneggiata di Rivaldo, c’è la Corea del Sud padrona di casa, che dopo aver battuto in maniera perlomeno discutibile l’Italia e la Spagna si è arresa contro la Germania.

I coreani schierano la squadra titolare, ma non basta per avere la meglio su una Turchia un po' rimaneggiata in un match divertente e spettacolare, che termina 3-2 per la squadra di Güneş. Ma alla fine festeggiano entrambe. Stesso risultato nel 2010, quando la Germania e l’Uruguay giocano senza particolari motivazioni, ma regalano un antipasto godibile alla finalissima tra Olanda e Spagna.

Terzo e quarto posto in Brasile 2014

A proposito di Olanda, certamente c’è un’atmosfera diversa al Manè Garrincha di Brasilia nel luglio 2014. Gli Oranje sono delusi per aver perso in semifinale contro l’Argentina ai calci di rigore. Ma non è nulla rispetto alla depressione cosmica in cui sono crollati i padroni di casa dopo il clamoroso, anche per le scommesse online, 1-7 a Belo Horizonte contro la Germania.

La disastrosa retroguardia del Brasile!

L’impianto è pieno ed è tutto vestito di giallo, ma c’è poco da festeggiare. E anche la squadra di Scolari è d’accordo, considerando che si presenta (comprensibilmente) in campo con il morale sotto i tacchi.

Risultato, 3-0 per gli ospiti, che anzi dovrebbero essere già 11 contro 10 dopo tre minuti, quando l’arbitro grazia Thiago Silva che si fa sfuggire Robben e poi lo placca, assegnando “solo” il calcio di rigore. Per i verdeoro altri novanta minuti da dimenticare, quattro giorni dopo un incubo assurdo.

Finale per laurearsi capocannoniere

E poi ci sono quelli che con la finale per il terzo e quarto posto… ci hanno vinto il titolo di capocannoniere! È il caso di Davor Suker, che grazie al gol segnato nel 2-1 della Croazia all’Olanda nel 1998 riesce a staccare Batistuta e Vieri, fermi a quota 5 e già entrambi eliminati, e a portare a casa il titolo di miglior marcatore in solitaria.

Non riesce nell’impresa Stoichkov, visto che la Bulgaria nella finalina del 1994 viene travolta dall’uragano Svezia (4-0). Il Pallone d’Oro di quell’anno deve accontentarsi della vittoria a pari merito con il russo Salenko.

Va meglio a Totò Schillaci, che nella sfida delle deluse di Italia ’90 contro l’Inghilterra (entrambe le squadre eliminate ai rigori) regala il terzo posto alla nazionale di Vicini e segna il suo sesto gol mondiale, conquistando la vetta dei bomber davanti al cecoslovacco Skuhravy. 

Per il resto, nella storia, tante altre sfide senza troppo in palio, ma di certo spettacolari per gli spettatori. Nel 2006 Germania-Portogallo finisce 3-1, nel 1986 Francia e Belgio arrivano addirittura ai supplementari, con Platini e compagni che alla fine si impongono per 4-2. Proprio la Francia, quattro anni prima, si era arresa alla Polonia per 3-2, mentre nel 1978 la giovane Italia di Bearzot viene battuta per 2-1 dal Brasile.

Tornando ancora più indietro c’è la finale di consolazione del 1962, in cui il Cile si prende il terzo posto nel mondiale casalingo con un gol al novantesimo, o il pirotecnico 6-3 della Francia alla Germania Ovest nel 1958, con quattro reti di Fontaine che chiude così la sua coppa del mondo con addirittura 13 gol. Nel 1954 arriva terza l’Austria, che batte 3-1 l’Uruguay, mentre nel 1950 la una finalina non c’è, perché si gioca un girone finale a quattro squadre.

UNA FINALINA... FALLOSA!

E infine ci sono match in cui in palio c’è solo la soddisfazione  di… aver smaltito la rabbia. È il caso, molto recente, della finale per il terzo e quarto posto della Copa America 2019. Di fronte ci sono il Cile, eliminato clamorosamente in semifinale dal sorprendente Perù, e l’Argentina, ancora furiosa per la sconfitta nel penultimo atto contro il Brasile, con tanto di accuse di partita pilotata da parte dei calciatori dell’Albiceleste.

Che la squadra di Scaloni e quella di Rueda siano abbastanza nervosette lo si capisce al minuto 37, quando Messi e Medel finiscono sotto la doccia per scambio reciproco di cortesie dopo uno scontro di gioco.

Il fatto che in una finale di consolazione vengano tirati fuori 9 cartellini (7 gialli, compreso uno per Pulgar che potrebbe tranquillamente essere arancione) la dice lunga su quanto la partita tutto sia tranne che senza valore.

Alla fine vince l’Argentina 2-1, anche se le dichiarazioni di Messi a fine match contro gli arbitri fanno anche più rumore della partita stessa, oltre a costargli una squalifica… Insomma, guai a dire che le finali di consolazione non contano nulla. Anzi, spesso e volentieri, vista la posta in palio della finale “vera”, sono molto più godibili di quelle del giorno dopo!

*Le immagini dell'articolo sono distribuite da AP Photo. Prima pubblicazione 4 maggio 2020.

December 18, 2022
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

Attaccanti dal sinistro raffinato!

Attaccante rapace, piede sinistro delizioso, velocità impressionante, tecnica di base assai più alta della media e tanti, tanti gol. Dovendo ridurre a pochi profili quelli che corrispondono a questo identikit, già di suo abbastanza dettagliato, emergono tre nomi.

Tutti diversi tra loro ma che, a ben vedere, parecchio in comune ce l’hanno. Vincenzo Montella da Pomigliano d’Arco, classe 1974, ormai allenatore. Robert Bernard Fowler, per gli amici Robbie, nato a Liverpool nel 1975, anche lui finito in panchina e alla guida del Brisbane Roar, nel campionato australiano. E infine Daniel Andre Sturridge, nativo di Birmingham e classe 1989, che di recente si è svincolato dal Trabzonspor. Il minimo comune denominatore? I gol con il piede sinistro!

VINCENZO MONTELLA, IL SUPER-SUB!


Meglio andare… per anzianità e cominciare da Montella. Il centravanti campano si trasferisce giovanissimo in Toscana, perché lo ha adocchiato l’Empoli. Proprio con la maglia degli azzurri fa il suo esordio tra i professionisti e rimane al Castellani in prima squadra per cinque anni, inframezzati da due lunghi stop per infortunio. La stagione 1994/95 è quella della svolta: le 17 reti in Serie C1 gli valgono il biglietto per la B, con la maglia del Genoa.

Con il Grifone porta a casa il Trofeo Anglo-Italiano e realizza 28 reti, ma non ottiene la promozione nella massima serie. Poco male, perché l’opportunità gliela offre…la Sampdoria. Accanto a un uomo assist come Mancini, l’Aeroplanino mette in mostra tutte le qualità che lo renderanno uno dei migliori goleador a cavallo del nuovo millennio del calcio italiano. Riflessi felini, classe da vendere, fiuto del gol impagabile. Con 22 gol in 28 partite, la sua è la miglior prestazione d’esordio in A di un attaccante italiano. 

Montella in gol con la maglia Azzurra!

Dopo tre stagioni e 61 reti, arriva la chiamata della Roma. Montella pensa di incontrare a Trigoria Zeman, che lo ha fermamente voluto, ma alla fine ci trova Capello. La prima stagione gioca con costanza, ma l’arrivo di Batistuta nel 2000 lo vede spesso relegato in panchina: l’Aeroplano si scopre super-sub e, quando nel girone di ritorno Bati si inceppa, ci pensa lui a togliere le castagne dal fuoco a Capello. La sua rete contro la Juventus per il 2-2 al Delle Alpi è a tutti gli effetti il gol scudetto.

Un anno dopo è protagonista assoluto di un derby della capitale in cui costringe Alessandro Nesta alla sostituzione, mostrando tutto il repertorio in quattro reti: due anticipi di testa, una zampata su ribattuta del portiere e un sinistro fulmineo da fuori. Per lui è il momento di massimo splendore. Resta alla Roma fino al 2009, anno del suo ritiro, ma quasi sempre da comprimario vista l’esplosione di Cassano e poi la trasformazione di Totti in centravanti.

Nel frattempo accumula una breve esperienza in Premier League con il Fulham e un anno di ritorno alla Samp. L’Aeroplanino decolla in carriera 228 volte, comprese 3 con la maglia della nazionale. L’azzurro, però, resterà sempre un cruccio, con sole 20 partite.

IL GOD DELLA KOP!


Un problema che Montella condivide con Robbie Fowler. Anche per l’inglese arrivano poche presenze in nazionale, 26, condite da 7 reti. A giocare contro il centravanti del Liverpool, però, ci sono il suo carattere e…un compagno di squadra. Fowler è il leader spirituale dei Reds prima di Gerrard. È nato in città, è uno della Kop e fraternizza con i portuali in sciopero. E segna, tantissimo, al punto di guadagnarsi il soprannome di God, il dio di Anfield.

Diventa una stella ad appena 18 anni, segnando 12 gol in 13 partite. Segna in ogni modo, anche se il suo regno è l’area di rigore. Per due anni consecutivi porta a casa il premio di giovane dell’anno in Premier League, battendo colleghi del calibro di Beckham e Scholes. Il problema, però, è nei comportamenti. Lui e alcuni compagni del Liverpool vengono soprannominati gli Spice Boys, per alcune controversie extracampo. E a cambiargli la carriera arriva un infortunio ai legamenti nel 1998.


Fowler salta il mondiale 1998, mentre al Liverpool si mette in mostra un altro ragazzino di nome Michael Owen. God, però, fa in tempo a tornare in grande stile l’anno dopo. Quando segna nel derby contro l’Everton, finge di sniffare la linea di fondo per rispondere alle accuse sull’uso di droga da parte della tifoseria dei Toffees. Pessima idea, perché l’indignazione è pressoché totale. E anche se la stagione 2000/01 è ricca di trofei, con tanto di fascia da capitano in assenza di Redknapp, il rapporto con il club si sfalda, anche perché Fowler ha perso il posto, con Owen e Heskey a fare i titolari.

God in gol con la nazionale inglese!

Nel dicembre 2001 arriva la rottura e nonostante la popolarità con i tifosi, c’è l’addio. Prima il Leeds United e poi il Manchester City gli offrono “asilo”, ma anche a causa degli infortuni non sarà mai lo stesso Fowler. Nel gennaio 2006, quindi, c’è il grande ritorno. L’attaccante è una riserva e ormai lo sa e non fa in tempo fregiarsi della Champions vinta a Istanbul, prima di lasciare definitivamente il club. Chiude la carriera addirittura in Thailandia, con il Muangthong United, dopo aver vestito anche le maglie di Cardiff City, Blackburn Rovers, North Queensland e Perth Rover, in Australia. Per lui, in totale, 254 gol in 590 presenze.

STURRIDGE, L'INCOMPIUTO


Stessa maglia e parecchi problemi anche per Daniel Sturridge. Basterebbe pensare che l’attaccante inglese, prima di trasferirsi in Turchia, è stato squalificato per quattro mesi per aver dato a suo fratello indicazioni per una scommessa calcio sulla sua nuova destinazione di mercato. A trentuno anni, quindi, Sturridge si trova ad essere senza una squadra, nonostante nel 2006 fosse considerato il miglior prospetto della sua generazione.

Nato nelle giovanili del Charlton, passato per l’Aston Villa, e per il Coventry City e lanciato dal Manchester City, l’attaccante si mette in luce per una velocità pazzesca e per un sinistro assai raffinato. I Citizens però non sono ancora quelli attuali e non riescono a convincerlo al rinnovo. Nel 2009, dunque, Sturridge si trasferisce al Chelsea, in teoria a parametro zero, anche se il suo prezzo alla fine viene addirittura stabilito da un tribunale. 

L’esperienza a Londra, però, è dolceamara. La bacheca si arricchisce della maggior parte dei suoi titoli in carriera finora (una Premier League, due FA Cup, una Community Shield e una Champions League), ma l’inglese non è mai protagonista. Va meglio al Liverpool, a cui viene ceduto nel gennaio 2013, diventando il partner offensivo di Suarez. Nella stagione 2013/14, quella in cui i Reds vanno vicinissimi al titolo, mette a segno 25 reti. L’anno dopo, però, la storia di Fowler si ripete. Due infortuni lo tengono ai margini a lungo, quasi per una stagione e mezzo su due e nel frattempo esplode Sterling.

Quando ad Anfield arriva Klopp, come punta centrale gli preferisce Firmino e come esterni prima Manè e Coutinho e poi il senegalese e Salah. Per Sturridge comincia un lento declino, che lo porterà prima al prestito al West Bromwich e poi a una stagione da comprimario nell’anno della Champions, mentre Origi, che lo ha soppiantato come prima riserva in attacco, è decisivo. Poi l’addio. Una storia già vista. Non solo da lui, ma anche dai due così simili colleghi!

*Le immagini dell'articolo, tutte distribuite da AP Photo, sono, in ordine di pubblicazione, di Themba Hadebe, Paul Barker, Piotr Walczak.

 
May 3, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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Serie D, quanto mi costi?!

Dopo l'approfondimento sullo straordinario Alcione Calcio, concentriamoci sul campionato di Serie D, un torneo molto particolare, ricco di contraddizioni: pochi introiti e tantissime spese, a partire dalle trasferte.

L'esempio del Lanusei

Il budget per una Serie d da vertice

I costi esorbitanti per le trasferte

L'esempio del Lanusei

Due esempi, su tutti: il girone A, che unisce le sorti di club piemontesi, liguri e toscane; ed il raggruppamento G, formato da società laziali, campane e sarde.

Proprio dalla Sardegna arriva la testimonianza del direttore Paolo Guidetti, oggi a Lanusei dopo circa 30 anni di comprovata esperienza e successi: negli anni '90, l'impresa che lo vide protagonista della scalata del Borgosesia dalla Prima Categoria alla Serie C2 girone A, poi - nella stessa - categoria - il Meda, gli anni nella prestigiosa Pro Vercelli, il Legnano riportato dall'Eccellenza alla Serie D e, oggi, il club ogliastrino biancorossoverde.

Il Novara ai tempi del Diablo in attacco!

Guidetti è stato assoldato dal presidente Daniele Arras a novembre con la squadra al penultimo posto, dopo la sbornia dell'anno scorso, che l'ha vista sfiorare, da outsider per le scommesse sportive, una clamorosa promozione in Serie C, in un duello con il "gigante" Avellino e che avrebbe avuto del miracoloso se si pensa che Lanusei conta all'incirca appena 5mila abitanti.

Guidetti ha saputo riportare serenità all'ambiente e la squadra a centro classifica, al momento dell'interruzione del campionato: "La Serie D - racconta - è una categoria dalle mille sfumature. A Lanusei abbiamo voluto intraprendere la linea verde: siamo tra le squadre con la media età più bassa e per noi questo è un orgoglio". Ma non manca nel correre in soccorso al cronista quando si tratta di riflettere sugli standard da seguire per un club che mira a vincere il campionato.

​​​​​​​Il budget per una Serie d da vertice

Insomma, quanto costa attrezzarsi per la promozione tra i professionisti? "Come sappiamo - prosegue Guidetti -, nel calcio ci sono un'infinità di variabili. Per fortuna, mi vorrebbe da dire. Quanto spende una squadra costruita dichiaratamente per vincere il campionato? In media, la gestione societaria, che comprende tutto, dagli stipendi di giocatore e staff tecnico e costi vivi, prevede l'investimento di un milione circa. Tuttavia, se ci sono gli incastri giusti e s'indovina la stagione, si può spendere molto meno".

Un giocatore del Varese all'Olimpico!

Il secondo caso si manifesta essenzialmente nei piccoli club, in cui la pressione è minore. Ma in D ci sono anche piazze in cui la pressione è piuttosto alta: Novara, Varese, prima ancora Foggia, Palermo, Lucchese, Prato, Mantova... Gli esempi, insomma, sono tanti. "Chiaramente - aggiunge Guidetti - se si è bravi, i costi possono risultare molto più contenuti nel caso in cui, come obiettivo, si hanno la salvezza o la metà di classifica".

Parlando di singoli, è corretto dire che un "bomber di categoria" con grande mercato, arrivi a guadagnare intorno ai 3mila euro al mese nelle squadre costruite per vincere il campionato? "Sì, occhio e croce le cifre sono quelle". Ma non esistono, si diceva, solamente i compensi di giocatori e staff tecnico.

I costi esorbitanti per le trasferte

Ci sono viaggi e i ritiri per la trasferta: "Lanusei è un posto abbastanza isolato: nella nostra fattispecie, è un po' come se fossimo sempre in ritiro. La società mette a disposizione una foresteria che contiene 18 giocatori. Poi ci sono gli alloggi. Gestire queste cose significa togliere tre o quattro stipendi in rosa. Noi preferiamo non fare follie sul mercato ma garantire un'esperienza confortevole per i nostri tesserati.

Un'amichevole dell'Alcione contro il Milan

Le società sarde, poi, prendono l'aereo una volta ogni due settimane: le trasferte, comprensive di spostamenti e alberghi, arrivano a costare, in media, 8-9mila euro ciascuna. Sì, ci sono anche gli aiuti della regione Sardegna ma, voglio dire, siamo dilettanti solo a livello di dicitura. Per il resto, la vita è quella dei professionisti".

E i ritiri estivi? "Sono pochi i club, a queste latitudini calcistiche, che ancora li fanno, per come erano intesi una volta, lontani da casa e in una struttura alberghiera attrezzata". Una politica che si sta allargando a macchia d'olio anche in Serie C: "Il motivo, come sempre, sono i costi - chiosa Guidetti -: 50-60 euro a giocatore per 10-15 giorni si traducono in una spesa di circa 30mila euro. Decisamente troppo per la maggior parte dei club di tutta la quarta divisione".

*La foto di apertura dell'articolo è di Antonio Calanni (AP Photo). Prima pubblicazione 2 maggio 2020.

October 19, 2021
Stefano Fonsato
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Stefano collabora da anni come giornalista freelance per il portale web di Eurosport Italia, per il quotidiano La Stampa e con la casa editrice NuiNui per la quale è stato coautore dei libri "I 100 momenti magici del calcio" e "I 100 momenti magici delle Olimpiadi".

E' amante delle storie, dei reportage e del giornalismo documentaristico, ma il suo "pallino" resta, su tutti, il calcio d'Oltremanica.

 

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Pasquale Foggia, il ds di talento che ha costruito il Benevento dei record!

In Serie B è nata una stella. In questo caso non parliamo di un calciatore, ma di un direttore sportivo. Un talento che scopre talenti e ha dimostrato, soprattutto, di saper costruire una Squadra, con la “s” maiuscola. È Pasquale Foggia, ds del Benevento dei record, la formazione che in questa stagione ha dominato la serie cadetta. In poco tempo, Foggia ha dimostrato di meritare la Serie A esattamente come la squadra campana.

Da sinistro raffinato, a direttore pieno di idee

Cartellini a zero, Foggia investe sul monte stipendi

Letizia da Nazionale, Montipò da rinnovare prima della scadenza

Approdato nella massima serie, il direttore sportivo Pasquale Foggia è il dirigente rivelazione dei primi 5 mesi di campionato: ha costruito una squadra con un mix di esperienza e talento, che viaggia a velocità di sicurezza nella parte sinistra della classifica

E l’anno prossimo il Benevento sfiderà il “suo” Napoli, un sogno che si realizza per l’ex scugnizzo del Rione Traiano cresciuto con il mito di Maradona e che poi, nel 2009, ha fondato una società dilettantistica nei pressi di Soccavo.

Da sinistro raffinato, a direttore pieno di idee

A 36 anni, l’ex ala della Lazio è reduce da un salto in alto da brividi. Nel settembre 2016 si iscrive al corso per l’abilitazione a direttore sportivo, il 28 novembre si diploma, il 10 gennaio 2017 ottiene il primo incarico dirigenziale come ds del Racing Roma in Lega Pro e dopo appena sei mesi, il 29 giugno, diventa responsabile e ds del settore giovanile del Benevento.

Infine, nel gennaio 2018, viene promosso a direttore sportivo della prima squadra: Oreste Vigorito, proprietario del Benevento, crede in lui e gli affida la ricostruzione della rosa, dopo la retrocessione in B, con la “mission” di tornare il più presto possibile in Serie A, miscelando alla perfezione esigenze tecniche con necessità economiche, competitività e risanamento.

Così Foggia nell’estate 2018 rivoluziona tutto, cambia 20 calciatori, sceglie un nuovo staff tecnico (con Bucchi in panchina) e sanitario, soprattutto ribalta la strategia utilizzata fino a quel momento e valorizza i giovani. “L’aspetto tecnico deve andare di pari passo con quello economico”, il suo concetto base. Non a caso, tra i modelli di Pasquale Foggia c’è il ds della Lazio, il suo amico Igli Tare.

Foggia, un sinistro delizioso per fornire assist ai compagni di reparto offensivo

Ragazzi interessanti come Sanogo, Cuccurullo, Filogamo e Volpicelli debuttano in prima squadra: arrivano tutti dal settore giovanile.

Un altro dei suoi pupilli, Enrico Brignola, attaccante classe ’99, viene ceduto al Sassuolo per 3,5 milioni più 500mila euro di bonus e il 50% della futurra rivendita. Un affare. Come l’idea di puntare su Lorenzo Montipò, all’epoca tra i portieri della Nazionale Under 21 e oggi pilastro della super squadra di Pippo Inzaghi: Foggia lo ha convinto ad accettare la scommessa Benevento, nonostante il titolare fosse Puggioni, e l’hanno vinta insieme.

Nell’estate 2019, infatti, il cartellino del portiere è diventato tutto del club campano, che lo ha riscattato dal Novara. Il campionato 2017-’18 finisce però con una beffa: nella semifinale dei playoff per la promozione, Benevento eliminato dal Cittadella nonostante la vittoria per 2-1 in trasferta all’andata, per colpa del ko (0-3) del ritorno al Vigorito.

CARTELLINI A ZERO, SI INVESTE NEL MONTE STIPENDI

Ma la strada per la straordinaria stagione successiva era già tracciata: nel gennaio 2019, preso a parametro zero dal Werder Brema il difensore Luca Caldirola, che era corteggiato da club di A proprio come il capocannoniere della squadra, il regista Nicolas Viola, convinto ad accettare il progetto giallorosso nonostante le proposte dalla massima serie.

Stesso discorso per il “bombardiere” (visto il sinistro al fulmicotone) tedesco Kragl, 13 gol in 51 gare nel Foggia, e per il trequartista Dejan Vokic, classe '96, soffiato sempre a parametro zero a società olandesi e soprattutto tedesche che già si erano fatte avanti per lo sloveno: “Vi assicuro – ha detto Foggia – che questi giocatori non sono venuti o rimasti con noi per una questione economica, perché avrebbero guadagnato di più altrove. Per me la riconoscenza nel calcio esiste”.

La sua strategia ha pagato: scelte basate su esigenze tecniche, senza compromessi con i procuratori; spese oculate, il che non era scontato avendo un presidente come Vigorito che comunque nel calcio investe senza remore (cosa che spesso porta a sbagliare acquisti più facilmente): invece il Benevento dei record è costato zero euro di cartellini, lo stesso capitano Maggio, una vita nel Napoli, è stato preso da svincolato.

Pasquale Foggia con la Lazio

La differenza con gli altri club la fanno gli ingaggi, i più alti della B (monte stipendi tra i 13 e i 14 milioni di euro, tra parte fissa e bonus), ma soprattutto la capacità di affidarsi agli uomini giusti, tra giocatori e panchina. L’intuizione di puntare su Pippo Inzaghi, reduce dalla tormentata avventura a Bologna, si è rivelata vincente: “È una persona vera, di sani principi.

Lui ama questo lavoro, lo fa con passione. Altrimenti uno non passa dal Milan al Venezia e non rinuncia a soldi pur di venire a Benevento. Su Inzaghi non ho mai avuto alcun dubbio, conosco perfettamente la persona che è”, ha detto Foggia a “Linea calcio”, su Canale 8.

NUMERI DA RECORD

La scelta, ovviamente condivisa con entusiasmo dal presidente Vigorito, ha prodotto risultati incredibili: al momento dello stop, il Benevento era primo con 22 punti sulla terza a 10 giornate dalla fine. Nessuno, nella storia della B, aveva conquistato 69 punti nelle prime 28 giornate: 21 vittorie e 54 reti segnate. E per il sistema scommesse la squadra di Inzaghi si avviava a battere il clamoroso record dell’Ascoli ’77-’78: 87 punti (in realtà furono 61, ma la vittoria valeva 2 punti).

Lapadula

Numeri da urlo, davvero. Trascinata dai gol di Viola (9) e degli attaccanti Sau (8), preso gratis – anche lui! – dalla Samp (dopo tanti anni nel Cagliari), Coda (7), Roberto Insigne (6), fratello dell’azzurro Lorenzo, e Moncini (3), il Benevento di Foggia & Inzaghi si è rivelata una inarrestabile macchina da punti, in casa e in trasferta. Prezioso pure l’apporto di un altro acquisto importante, quello dell’esperto centrocampista Schiattarella, arrivato dalla Spal.

Ha trovato spazio anche il difensore centrale Alessandro Tuia, considerato un predestinato ai tempi delle giovanili della Lazio.

Il gruppo di giocatori creato da Foggia e guidato da Inzaghi ha saputo esprimersi ad alti livelli per l’intera stagione. A partire dai napoletani Insigne, Letizia e Improta, più Maggio che a Napoli ha vissuto 10 anni: “Ragazzi eccezionali – sottolinea il ds - che sono con me a Benevento da due anni, hanno avuto alti e bassi ma non è mai mancata la voglia di lottare per questa maglia e per i tifosi. Da Maggio che ha 38 anni a Insigne, il più giovane. Ma tutto il nostro gruppo è davvero speciale, trovarne di simili è impossibile”.

Di sicuro, sarà intrigante vedere il Foggia e il suo Benevento alla prova della Serie A: è l’esame di maturità, ma il giovane direttore sportivo ha dimostrato di avere le qualità e la competenza per superarlo.


*Le immagini dell'articolo sono di Lorenzo Galassi (AP Photo). Prima pubblicazione 2 maggio 2020.

October 21, 2021
Giulio
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Giulio è nato giornalista sportivo, anche se di professione lo fa “solo” da 30 anni. Dal 1997 è l'esperto di calciomercato del quotidiano La Repubblica.

Dal '90 segue (senza annoiarsi mai) le vicende della Lazio: collabora anche con Radiosei e dirige il sito Sololalazio.it. Calcio e giornalismo sono le sue grandi passioni. L'unico rimpianto che lo tormenta è aver smesso di dare spettacolo sui campi di calcetto.

 

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Le 5 partite più pazze... del Loco!!!

Affibbiati o scelti, semplici o assurdi, i soprannomi raccontano davvero molto su calciatori e allenatori. E in un mondo come quello del calcio sudamericano, in cui il concetto di normalità è perlomeno interpretabile, il fatto che Marcelo Bielsa sia per tutti El Loco, il pazzo, la dice lunga su come il tecnico del Leeds United sia abbastanza sui generis.

Nato in Argentina, adorato in Cile, celebre in Europa e non solo per la sua preparazione tattica e la sua dedizione al lavoro, che raggiungono limiti impensabili. Marcelo Bielsa è anche comportamenti particolari (mai guardare in faccia l’interlocutore in conferenza stampa), punizioni fantasiose (far raccogliere l’immondizia ai calciatori per far capire la fatica dei tifosi nel guadagnare i soldi del biglietto) e stratagemmi non proprio sportivi (l’utilizzo di spie per monitorare alla perfezione i prossimi avversari).

Ma il Loco è anche e soprattutto calcio. Il suo 3-3-1-3 ha fatto storia e le sue squadre hanno regalato partite indimenticabili. Soprattutto quando l’allenatore in qualche maniera…ci ha messo lo zampino.


Il primo match indimenticabile è una disfatta di quelle che nessuno vorrebbe vivere. Bielsa è un mago, alla sua prima esperienza porta il Newell’s, la squadra della sua Rosario, a vincere il campionato argentino e in finale di Copa Libertadores. La perderà, ai rigori, contro il San Paolo di Raì. Ma il giorno della storia è un altro, nella prima fase. I campioni d’Argentina perdono malamente il derby casalingo contro il San Lorenzo. 0-6, non proprio una passeggiata. I tifosi non la prendono affatto bene e si presentano in venti sotto casa di Bielsa.

Che però non è Loco solo di soprannome, ma anche di fatto. Quindi il gruppetto viene ricevuto dal tecnico con in mano una granata. “O ve ne andate, o ve la tiro”. Neanche a dirlo, gli ospiti indesiderati se ne vanno. E l'amore non ne risente, al punto che il club gli ha addirittura dedicato lo stadio...


L’esperienza con l’Argentina è decisamente agrodolce. Numeri alla mano, l’Albiceleste non ha mai fatto meglio con nessun altro selezionatore. Tra 1998 e 2004, Bielsa vince il 72% delle partite giocate. Per sua sfortuna, però, ha un solo trofeo da mostrare, la medaglia d’oro di Atene 2004.

La notte che ne decide la carriera come CT è quella in cui a Lima l’Argentina affronta in semifinale nella Copa 2004 il Brasile di Parreira. Pochi secondi separano il Loco dalla gloria, quelli che bastano ad Adriano per pareggiare la rete di Delgado, che al minuto 87 aveva portato Ayala e compagni sul 2-1.

Il commentatore argentino commenta “mi voglio ammazzare” e Bielsa forse vorrebbe fare lo stesso con i membri della panchina verdeoro che gli vanno a festeggiare davanti. Per fortuna, c’è di mezzo la polizia. Ai rigori, tradiscono D’Alessandro e Heinze, regalando al miglior selezionatore albiceleste degli ultimi vent’anni la più grande delle delusioni.


La parentesi al Cile è forse quella più gratificante per Bielsa. La sua squadra arriva seconda nel girone sudamericano di qualificazioni al Mondiale 2010. In Sudafrica riesce addirittura a passare il turno, tenendo testa, di fatto, ai futuri Campioni della Spagna in un girone dal clamoroso coefficiente di difficoltà, anche per le scommesse sportive!  Per lui con La Roja 34 vittorie in 66 partite, ma anche stavolta il match loco, neanche a dirlo, è una sconfitta. E neanche con la nazionale maggiore! Il palcoscenico è il Torneo Di Tolone 2008 vede in campo molte delle selezioni Under-23 che andranno ai giochi di Pechino. E la finalissima che mette di fronte il Cile e l’Italia di Casiraghi finisce 1-0 per gli azzurri con gol di Osvaldo.

Un brutto colpo per Bielsa, che non la prende bene. Al fischio finale il Loco rimprovera il CT dell’Italia, spiegandogli a favore di telecamera che giocare tutta la partita con lanci lunghi per la prima punta non può essere considerato calcio. E come racconta il suo ex calciatore Fuenzalida, negli spogliatoi va anche peggio. “Aveva appena litigato con l’allenatore avversario, lo abbiamo trovato furioso, che camminava in cerchio e si strappava via i vestiti”. Chissà se per il risultato o per il gioco dell’Italia…

TRA EUROPA E CHAMPIONSHIP

Se al Newell’s Bielsa è una divinità, anche a Bilbao il Loco ha un certo…culto. Nelle due stagioni alla guida dell’Athletic, il tecnico argentino porta i baschi a giocarsi la finale di Copa del Rey contro il Barcellona e quella di Europa League a Bucarest contro l’Atletico Madrid. Perderà in entrambi i casi, ma l’Athletic si toglie la soddisfazione di battere avversari molto più quotati. La partita loca di quel periodo è sicuramente la vittoria esterna contro il Manchester United.

A Old Trafford succede davvero di tutto. I Red Devils vanno avanti con Rooney, ma poi l’Athletic si scatena. Pareggia Llorente e nella ripresa la squadra di Bielsa va avanti per 1-3. E in entrambi i casi, c’è della…locura. La rete del vantaggio basco di De Marcos è in fuorigioco, la terza è tragicomica. L’arbitro fischia un calcio di punizione a favore dell’Athletic perché Evra ha perso uno scarpino e quindi commette gioco pericoloso.

Lo United chiede ai baschi di restituire il pallone, ma Bielsa e i suoi non ci pensano per niente. Del resto, il regolamento è chiaro, è punizione. Quindi battono e lanciano lungo. De Marcos tira, De Gea respinge, ma Muniain con il tap-in fa tris. E, tanto per non farsi mancare niente e lasciare il ritorno in sospeso, De Marcos commette un fallo di mano inspiegabile all’ultimo secondo, regalando di fatto il 2-3 allo United.


A proposito di regole e di fair play, l’esperienza a Leeds del Loco è davvero illuminante. Molti non gli perdonano di aver fatto spiare il Derby County di Lampard, dando vita al celebre spygate e a una conferenza stampa di oltre un’ora in cui l’argentino ha spiegato per filo e per segno la sua preparazione maniacale alle partite, giustificando così la necessità di dare un’occhiata agli avversari. Ma l’1-1 con l’Aston Villa è storia. La squadra di Bielsa va in vantaggio con gli avversari praticamente fermi per un infortunio a Kodjia.

E il Loco, invece di esultare, va su tutte le furie perché i suoi non hanno calciato il pallone fuori per permettere all’avversario di venire soccorso. Alla ripresa del gioco, l’argentino costringe quindi i suoi a far pareggiare l’Aston Villa senza opporre resistenza. Un gesto di fair play forse mai visto a quei livelli, soprattutto perché il pareggio, di fatto, costa la promozione diretta al Leeds ed oltre 100 milioni di pounds alla società dello Yorkshire. Ma quando in panchina c’è il Loco, può succedere davvero qualsiasi cosa…

*L'immagine di apertura dell'articolo è di Michel Spingler (AP Photo).

May 1, 2020
Ermanno Pansa
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Ermanno è un grande appassionato di sport, in particolare del calcio, vissuto a 360°: come professionista e come tifoso. Ha seguito tutte le fasi finali delle manifestazioni internazionali degli ultimi 15 anni, Mondiali ed Europei.

Amante degli incontri ricchi di gol, collabora quotidianamente con il blog di 888sport, per il quale rappresenta una costante fonte di idee.

 

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